Pietro Scarnera nasce a Torino nel 1979, frequenta il Liceo Classico e si laurea in Scienze della Comunicazione con una tesi sull’editoria fumettistica, un estratto della quale, Graphic novel e politica: tra giornalismo e autobiografia, viene pubblicato nella raccolta di saggi Politicomics, curata da Federico Vergari ed edita da Tunué. Nel 2010 pubblica presso Comma 22 Diario di un addio, che racconta i cinque anni trascorsi da Scarnera accanto al padre, in stato vegetativo. Nel 2014, sempre presso Comma 22, pubblica Una stella tranquilla, biografia di Primo Levi.
Il blog di Pietro Scarnera, tramite il quale seguire la sua attività, è disponibile all’indirizzo pietroscarnera.blogspot.it
Cominciamo dal presente: il tour di presentazione di Una stella tranquilla inanella molte date e, grazie al tema, raggiunge luoghi “non fumettistici” come il Museo diffuso della Resistenza. Incontri di volta in volta un pubblico di lettori di fumetto e, probabilmente, di non lettori. Attraverso questi incontri ti sei fatto un’idea della percezione/stima verso il fumetto da parte dei non appassionati?
Nel tempo io mi sono fatto questa idea: che i lettori di fumetto in Italia siano moltissimi. Solo che spesso rimangono separati in compartimenti stagni. Ci sono quelli che leggono solo fumetti Bonelli, oppure solo manga, solo supereroi, solo graphic novel, e non si passa facilmente da un “genere” all’altro. Sono ancora di più le persone ormai adulte che però hanno letto fumetti da ragazzi, quindi, anche se magari oggi non li frequentano più molto, almeno sanno come si legge un fumetto. Questi “ex lettori” pian piano hanno scoperto che oggi escono libri che parlano di argomenti “seri”, che anche loro possono leggere.
Nelle presentazioni di Una stella tranquilla la maggior parte del pubblico è formata da persone adulte, insomma non adolescenti, ma uno degli argomenti che viene sempre fuori è la speranza che questo fumetto possa essere uno strumento per parlare con più facilità ai ragazzi di certi argomenti. In tutto questo però quelli che leggono meno fumetti di tutti sono proprio i ragazzi, me ne sono accorto facendo qualche presentazione nelle scuole superiori.
Mentre scrivevi, avevi in mente un tipo di lettore specifico?
In realtà Una stella tranquilla è pensato in parte per parlare alle generazioni più giovani della mia, anzi potrei dire che è stato pensato per parlare potenzialmente a tutti. Nel senso che ho cercato di essere il più semplice e chiaro possibile, perché questa era anche la poetica di Primo Levi: “La scrittura deve essere un telefono che funziona”, diceva, perché le cose che aveva da dire erano troppo importanti, dovevano assolutamente arrivare al lettore.
E quale è la reazione del pubblico di non lettori di fumetto? Esistono diffidenze, sorgono incomprensioni, magari dovute proprio alla forma fumetto?
Incomprensioni no, del resto c’è un precedente illustre come Maus… Penso che Una stella tranquilla sia un lettura non troppo complicata anche per chi non conosce il linguaggio del fumetto, nel senso che è una specie di ibrido tra un fumetto e un libro illustrato: non ci sono vignette, e c’è un testo che può essere letto anche senza guardare i disegni.
In Una stella tranquilla, il racconto delle tue ricerche fa da filo conduttore attraverso le pagine e offre anche una riflessione sul tuo metodo di lavoro.
Nel libro ci sono due ragazzi (uno sarei io) che girano per Torino alla ricerca dei luoghi di Levi. Ma questo è solo un pretesto narrativo, perché nella realtà il lavoro di ricerca non è stato proprio così.
Come hai sfruttato la vasta letteratura su Primo Levi?
Ho letto molte cose su Levi, ma più che altro per vedere che cosa avevano scritto altri prima di me. Il lavoro di ricerca sui testi in realtà l’avevo già fatto, quasi inconsapevolmente. Qualche anno fa, quando ancora non pensavo di fare fumetti, avevo riscoperto Primo Levi, avevo letto tutti i suoi libri, poi le interviste, gli articoli, qualunque cosa trovassi. Spesso mi succede così per le cose che mi piacciono, si potrebbe dire che procedo per piccole ossessioni! In questi casi, non so perché, immagazzino le informazioni molto più facilmente. Per esempio se mi dici un numero da 1 a 100 io ti so dire il corrispondente episodio di Dylan Dog, oppure puoi chiedermi il retroscena dietro qualsiasi canzone dei Beatles. Per Levi mi è successa la stessa cosa, quindi quando ho iniziato a lavorare al libro sapevo già molto bene quali episodi e quali citazioni volevo utilizzare. Il lavoro è stato andare a ritrovarle. Poi, certo, ho letto anche molta critica su Levi, e diverse biografie, ma mi sembrava che anche le biografie più complete non riuscissero a restituire il Levi che avevo conosciuto attraverso i libri.
Nella tua ricostruzione, è centrale il percorso di Levi per diventare narratore, aspetto che rimane generalmente nascosto dal suo ruolo di testimone della Shoah.
Quando ho iniziato a lavorare seriamente al libro, il mio editore, Daniele Brolli, mi ha fatto notare come Levi fosse sempre “assente” dalle sue opere. In effetti, anche se i suoi libri sono quasi tutti autobiografici, Levi parla molto poco di se stesso: racconta solo gli episodi rilevanti della sua vita, a partire naturalmente dall’esperienza in lager. Ma dopo il suo ritorno a casa, la sua vita è piuttosto noiosa: lavora per 30 anni nella stessa fabbrica, si sposa, ha due figli, vive perfino sempre nella casa in cui è nato. L’unica “avventura” che vive è quella di scrivere dei libri. Per cui la storia che era interessante raccontare era questa: il modo in cui è diventato uno scrittore. Una traccia ideale di questa storia l’avevo già trovata nei due volumi delle opere complete di Levi curati da Marco Belpoliti, che nelle note racconta il retroscena e il contesto dietro ogni libro.
Nel corso delle tue ricerche hai cambiato la tua visione dello scrittore torinese? Oppure hai sostanzialmente trovato conferma alla tua visione iniziale?
La prima cosa di cui mi sono reso conto lavorando al libro è che una biografia vera e propria di Primo Levi sarebbe stata impossibile, o quantomeno noiosa. Lui è sempre stato molto riservato, e la famiglia continua giustamente a rispettare questa riservatezza. Non aveva senso per me andare a scavare nella vita dell’uomo Levi, questo l’hanno già fatto dei veri biografi: quello che mi interessava era capire che immagine ci è rimasta di lui. E l’immagine che possiamo ricavare è quella che emerge dai suoi libri e dalle interviste. Quindi ho lavorato utilizzando esclusivamente episodi che Levi ha scritto o raccontato. In più ho tentato di mantenere un approccio “sentimentale”, nel senso che ho guardato alla figura di Levi come un ideale nipote che sfogli un album di famiglia e provi a immaginarsi com’era il suo ideale nonno (anche anagraficamente la cosa funzionava, Levi aveva più o meno la stessa età di mio nonno). Da questo approccio sono nate le due “chiavi” del libro: da un lato il confronto tra due generazioni, con i “figli dei figli” che si chiedono come raccogliere il testimone lasciato dalla generazione che ha visto la Seconda guerra mondiale e i campi di sterminio; dall’altro la distinzione tra due Levi – il Levi pubblico e quello privato, il Levi uomo e il Levi scrittore – che è suggerita già dalla copertina (ispirata a una foto realmente esistente), dove Levi non a caso indossa una maschera.
Nei saggi a fumetti far procedere ragionamenti senza snaturare la forma fumetto è un problema oggettivo, per esempio, immagino sia delicato trovare un punto di equilibrio fra le componenti testuale e grafica.
Sì, infatti il vero lavoro di ricerca è stato sulle immagini. Dato che ero alle prese con una storia piuttosto “astratta”, senza molta azione, mi servivano degli elementi reali a cui ancorarmi. Ho usato le immagini presenti nell’opera di Levi, ma soprattutto le fotografie, le copertine dei libri, alcuni disegni fatti da Levi al computer e alcuni oggetti, per esempio la maschera di gufo in copertina, o una foto del filo spinato attorno ad Auschwitz che Levi teneva nel suo studio. Attorno a questi oggetti e a queste immagini ho costruito le tavole del fumetto.
Il racconto per immagini mostra anche le trasformazioni dei luoghi che hanno fatto da sfondo alla vita di Primo Levi, così che ne vien fuori, seppure in controluce, una registrazione dei mutamenti della società italiana. Durante la scrittura eri consapevole di questa ulteriore dimensione del racconto?
Uno dei motivi per cui ho fatto questo libro è che volevo disegnare Torino. Non solo la Torino più famosa, la Mole e le piazze del centro, ma soprattutto quella che ho conosciuto io, i quartieri Lingotto e Mirafiori, dove sono in parte cresciuto. La storia che raccontavo andava dagli anni ’40 a oggi, quindi mi sembrava l’occasione giusta per mostrare come è cambiata la città in tutti questi anni. Da quando Torino ha smesso di essere solo la città della Fiat le trasformazioni (anche urbanistiche) sono state molto rapide, e per me, che ci torno a intervalli di mesi, sono state forse più evidenti.
In più, il libro è intriso di memoria familiare. Quindi ho disegnato i luoghi dove vivevano i miei genitori e ci sono anche delle foto scattate da loro alla fine degli anni ’70, che ho ridisegnato. Ci sono i miei luoghi preferiti, per esempio piazza Carlo Alberto, dove prima passava in mezzo il tram. Ora non ci passa più ma io l’ho disegnato comunque.
Nel tuo precedente lavoro, Diario di un addio, raccontavi gli anni che hai trascorso accanto a tuo padre, mentre era in stato vegetativo. Che differenza c’è fra scrivere della propria vita e di una vita altrui? Penso al lavoro di ricostruzione e meditazione sugli eventi, ma anche agli obiettivi, alle motivazioni.
Diario di un addio e Una stella tranquilla sono due libri gemelli, per me. Il Diario è una testimonianza di come vive una persona in stato vegetativo, e di come vive un suo familiare (in questo caso un figlio). Quando ci lavoravo eravamo nel pieno del dibattito su Eluana Englaro e il libro è nato come un’ideale base per quel dibattito, visto che molti parlavano dello stato vegetativo senza sapere in realtà che cosa fosse. Io nel libro non prendo posizione, mi limito a raccontare quello che ho visto, ed è la stessa operazione che fa Primo Levi in Se questo è un uomo: non è lui a condannare i nazisti, lascia che sia il lettore a farlo. Per cui Una stella tranquilla in parte è stato un mio modo per sdebitarmi per l’aiuto ricevuto da Levi.
Poi sono due libri gemelli anche per un altro motivo: il primo è un confronto con l’autorità paterna, il secondo è un confronto con un’autorità morale. E in entrambi i casi quello che fa il protagonista è tentare di salvare la memoria di queste due figure. Mi spiego meglio: oggi si parla di Levi solo per due motivi, la sua esperienza in lager e la sua morte. In particolare il suicidio di Levi continua a essere dibattuto sui giornali, e non solo: quasi tutti quelli a cui ho detto che stavo lavorando a un libro su Levi mi hanno chiesto se si è suicidato veramente (c’è anche chi nega il suicidio) e soprattutto perché. A parte che io non ho una risposta (so solo quello che ho letto), mi sembra che questo fatto rischi di oscurare tutto il resto: per questo io volevo raccontare quello che c’è in mezzo, tra il lager e il suicidio. Dopo più di 25 anni mi sembrava il momento di riscoprire la figura di Levi in tutta la sua complessità: per esempio la sua ironia, la sua curiosità, il fatto che abbia scritto anche dei racconti di fantascienza… ci sono davvero mille facce di Primo Levi, ed è un peccato concentrarsi solo su una di queste. In entrambi i libri, poi, si trattava di rispettare queste due figure.
Entrambe le opere si confrontano con la realtà e la realtà pone vincoli al racconto (penso al rispetto degli eventi e delle persone): hai mai avuto problemi “tecnici” nell’affrontare questi vincoli, oppure hanno agito come guida e riferimento nella scrittura?
La cosa che mi piace di più in assoluto dei fumetti è la possibilità della delicatezza: voglio dire che è possibile parlare di argomenti molto molto seri senza perdere una certa leggerezza (forse non è proprio il termine giusto). Si può parlare di una guerra senza mostrare la violenza, di una malattia senza mostrare la sofferenza, e così facendo magari si può trovare un punto di vista originale. Nel Diario non volevo assolutamente disegnare mio padre (e gli altri che erano ricoverati nella sua stessa clinica) in modo realistico. Per questo il disegno è ultra-stilizzato, praticamente infantile.
E infatti lì tuo padre appare a volte con un viso da ragazzo.
È un viso il più possibile neutro, senza i tratti somatici né i segni dell’età: l’unica cosa che doveva ospitare erano le espressioni. Allo stesso tempo però volevo essere “realistico” nel mostrare tutto quello che c’è intorno a una persona in stato vegetativo: le apparecchiature mediche, i tempi e i riti della clinica. Nel caso di Levi si trattava invece di non raccontare la sua vita privata, di rispettare la sua riservatezza. E si trattava anche di trovare un modo diverso dal solito per disegnare Auschwitz (infatti non l’ho disegnato, ma solo evocato). In entrambi i casi ci sono quindi dei limiti, dei confini che io mi sono imposto di non superare, e quando hai a che fare con un limite sei costretto ad aumentare la tua creatività, a cercare delle soluzioni alternative.
La differenza tra autobiografia e biografia per me è stata soprattutto nell’intensità del racconto. Per il Diario non avevo del lavoro di ricerca da fare, si trattava solo di trovare l’intonazione giusta, la nota giusta per iniziare a raccontare. Mi ricordo che a un certo punto, lavorandoci, ho cambiato i tempi verbali dal presente al passato, e da lì la storia è uscita subito, in un flusso unico, già pronta per essere disegnata. In Una stella tranquilla è successa la stessa cosa, ma stavolta per il disegno. Ci ho messo una vita a trovare il modo in cui volevo disegnare, e l’ho trovato un giorno all’improvviso: è quella che nel libro oggi è pagina 108, quindi puoi immaginare quante volte ho ridisegnato le prime 107 pagine!
Chiudiamo con uno sguardo al futuro.
Quali sono i tuoi impegni a venire? Per quanto ancora ti impegnerà la promozione di Una stella tranquilla? Hai nuovi progetti in cantiere?
Dopo un’autobiografia e una biografia, anche se entrambe un po’ particolari, ora mi piacerebbe fare qualcosa di pura fiction, perché è un campo che mi manca, in cui non mi sono ancora sperimentato. Mi piacerebbe anche cambiare modo di disegnare, non usare più questi pennarellini, non usare più il verde e soprattutto non colorare più al computer, è troppo alienante! Staremo a vedere.
Intervista raccolta via mail fra il 14 e il 22 settembre 2014.