All’inizio del 2002 il direttore del tabloid settimanale tedesco Die Zeit propone ad Art Spiegelman di realizzare una serie di pagine su un argomento a discrezione dell’autore. Nasce così L’ombra delle torri (In the shadows of no towers), il racconto di quello che accadde durante e dopo l’11 settembre 2001.
Il nostro punto di vista europeo verso gli effetti dell’attentato, essendo più distaccato e quindi più lontano dallo shock emotivo provato in America, è certamente più obiettivo per cui, probabilmente, può riuscirci difficile immaginare lo sforzo e la difficoltà incontrata da Spiegelman nel realizzare questo lavoro.
Come lo stesso autore spiega nell’introduzione, L’ombra delle torri non ha avuto inizialmente quasi nessuna chance di essere pubblicato in America, fatto salvo su Forward (una rivista di settore che precedentemente era un quotidiano in lingua yiddish) o una sola vignetta, estrapolata dall’opera integrale, pubblicata sul New York Times durante la campagna pre-elettorale USA. Se quest’ultimo avrebbe dovuto essere un segnale positivo a dimostrazione che l’epoca delle censure era finita, di fatto si è trattato un episodio del tutto isolato, strumentalizzato dai media per dimostrare che, nonostante tutto, la democrazia in America fosse ancora forte: e quale periodo migliore se non durante le presidenziali?
La vignetta “incriminata”, per la cronaca, è quella che mostra Spiegelman con la faccia da topo in mezzo a Bush e Bin Laden, con la didascalia “terrorizzato in ugual misura da Al-Qaeda e dal governo del suo Paese”.
La censura che in quest’occasione Spiegelman ha subito è solo l’ultima di tante. In Germania Maus è stato bandito per diverso tempo; negli USA, quando l’autore per dieci anni ha lavorato per The New Yorker ha dovuto adeguare i toni della sua critica a quello sempre più compiacente adottato dalla direzione editoriale nei confronti dei centri di potere politici ed economici, finché nel 2001 decise di interrompere la collaborazione e di raccogliere le strisce pubblicate, escluse o rimaneggiate in Baci da New York, mostra che ha toccato anche l’Italia, e il cui catalogo, da noi, è stato pubblicato dall’edizioni Nuages.
Il cielo sta cadendo!
Queste tavole sono il racconto d’un ineffabile orrore che Spiegelman prova a disegnare, con risultati (a suo dire) spesso frustranti; sono il frutto di un lavoro concepito e maturato fino al 2003, dopo ripetuti tentativi di rappresentare visivamente le immagini terribili e sublimi del crollo delle due torri, o di descrivere il clima di paura e delirio provati in quelle poche ore che cambiarono la storia.
Figlio di reduci della Shoa, Spiegelman diventa narratore e reduce (a sua volta) di una delle più grandi tragedie del mondo moderno occidentale, testimone di un giorno folle e degli eventi che seguirono (e che tutt’ora sono in atto) l’11 settembre.
L’occhio critico di Spiegelman, giustamente autodefinitosi “cosmopolita (s)radicato senza dimora in qualsiasi angolo del pianeta”, vuole mantenere uno sguardo lucido, pur avendo vissuto la tragedia in prima persona e quindi essendoci irrimediabilmente immerso. Senza compiacenza, senza panico, senza moralismi, incapace di arrivare ad una risposta certa sui motivi della tragedia, l’autore cerca di raccogliere le idee, distinguere le urla che ha sentito in quei (questi) giorni e di elencare tutte le decisioni e le conseguenze assurde che l’11 settembre ha portato.
E così, L’ombra delle torri diventa, a sua volta, un urlo inascoltato (”il cielo sta cadendo”, come nelle opere dell’assurdo di Antonin Artaud) di un ebreo americano che vede il suo paese completamente impazzito, in balia d’una classe politica del tutto incapace di rispondere alle pigre ansie della popolazione.
In alcune vignette Spiegelman si ridisegna con la faccia da topo e gli americani sono di nuovo grassi maiali, come già fece in Maus. Non è casuale questa auto-citazione, perché in tutto il volume una delle silenziose protagoniste è la Storia: la storia delle due torri e del Nuovo Ordine Mondiale, la storia maestra di vita che, in fondo, non ci insegna un bel nulla, quella scritta e cancellata (come testimonia la prima pagina di un giornale qui usata come colophon, di cui diremo meglio più avanti), quella dei reduci del disastro diventati barboni a Lower Manhattan, o le storie che ricordano quella dei reduci dell’Olocausto.
Non a caso Spiegelman, immediatamente dopo il crollo delle due torri, afferma di capire perché “alcuni ebrei non fuggirono da Berlino dopo la Notte dei Cristalli”, avvenuta il 9/11/1938: a guardare le date (11/9, 9/11) la Storia gioca proprio degli strani tiri.
Una testimonianza storica e sociologica
Dalla storia del crollo, alle piccole storie di quotidiana follia post-11 settembre, a quella dei nostri giorni: con un lento e calibrato allontanamento dal giorno della tragedia, Spiegelman riesce a guardare le cose dall’esterno. Così può descrivere lo sbriciolamento delle due torri e il momento della fuga; raccontare di quando egli stesso e la moglie Françoise, terrorizzati, corsero scuola per recuperare la figlia Nadja e sentirono la voce del direttore annunciare dall’altoparlante che, a causa della particolarità degli eventi, era proibito uscire per il pranzo; descrivere i piccioni che, non trovando l’ultimo piano delle torri, scendevano intontiti fino a Ground Zero; o fissare in una sola vignetta in primo piano l’immagine del manifesto di Danni collaterali e, sullo sfondo, il fumo delle torri con la sarcastica constatazione, in didascalia, “stranamente alcuni esperti sostenevano che l’ironia fosse morta”. Fino a definire “colpo di stato” l’elezione di Bush nel 2000, a ipotizzare la nascita del nuovo (e naturalmente sempre inutile) “partito degli struzzi”, ossia di coloro che preferiscono infilare la testa nella sabbia piuttosto che votare per due altrettanto inutili partiti/dinosauri.
Ogni vignetta trasuda sarcasmo, terrore, frustrazione e critica feroce (e impossibile) all’America e all’americanismo. In una splendida sequenza nella quale viene espresso tutto il ridicolo delle affermazioni contenute nel baloon, Spiegelman illustra, con un climax geniale, il delirio sempre più assurdo post-11 settembre, dalla guerra ingiustificata, alle tossine sprigionate dalle torri su Lower Manhattan, fino agli scandali finanziari Enron/Halliburton, semicoperti dal caso della frode fiscale minore di Martha Steward, che in America è assai nota (e ricca, quindi esposta) per aver creato un impero di miliardi dettando le regole del “buon gusto americano”. Sarebbe come se il caso Parmalat fosse stato messo in sordina dal caso Wanna Marchi (del resto non ci siamo andati così lontani).
Spiegelman, con una azzeccatissima metafora descrive gli americani come un popolo che sembra in perenne attesa di ricevere un secondo durissimo colpo e che, quindi, si sente legittimato a difendersi da qualsiasi cosa.
Naturalmente, un artista come Spiegelman non poteva limitarsi a raccontarci la cronaca degli eventi di quei giorni: L’ombra delle due torri è un lavoro più denso e complesso, che in poche pagine riesce a darci una serie d’indizi per rivelarci il lato più oscuro della tragedia e per raccontarci la crisi d’identità del popolo americano.
L’aspetto stilistico
Per far tutto questo, per poter scavare nel profondo di un’emozione tanto angosciante quanto difficile da narrare, Spiegelman adotta un registro stilistico inusuale, o meglio scaraventa sulla tavola un insieme di stili che nella loro disomogeneità affascinano per il loro accostamento esplosivo. E non stiamo parlando solo della tecnica grafica e pittorica, ma anche della notevole varietà di linguaggi narrativi utilizzati: dal semplice racconto degli avvenimenti all’ osservazione e riflessione sul senso degli stessi, dalla feroce satira alla società e alla classe politica fino all’utilizzo d’icone dell’immaginario americano. Forse quest’ultimo è l’elemento più sorprendente e maggiormente caratterizzante di tutta l’opera, che difatti sembra essere concepita come un enorme collage iconografico, dentro cui le figurine di Mars Attacks (quelle che uscirono negli anni 60 e ispirarono Tim Burton per il celebre film) si affiancano alle deliranti parodie di cartelloni pubblicitari o alla re-interpretazione di famosi comics americani d’epoca come, ad esempio, Arcibaldo e Petronilla o Little Nemo (firmato non a caso McSpiegelman in vece di McKay), in cui il piccolo protagonista è raffigurato come uno dei topi di Maus.
Questi corpi grafici, apparentemente distinti e lontani tra loro, nelle mani dell’autore assumono un significato univoco proprio per l’inserimento in essi d’elementi estranei e, a prima vista, stonati e dissonanti; come ad esempio l’intrusione dell’autore nella vignetta di Krazy Kat, in cui si sostituisce al topo Ignazio assumendone le sembianze, o un Saddam Hussein e un cattivissimo Uncle Sam inseriti in una storia di Bibì e Bibò.
Riuscire a gestire tanta varietà di stili e linguaggi ottenendone un senso compiuto è forse l’aspetto più entusiasmante del lavoro di questo artista. Se si osserva che le tavole sono state concepite come autonome tra loro, così da essere pubblicate singolarmente sul quotidiano tedesco Die Zeit, e se poi ci si accorge che lette conseguentemente funzionano in ugual misura, ed anzi acquisiscono maggiore profondità, ciò ci rende coscienti, se mai ce ne fosse bisogno, della statura artistica di Art Spiegelman e del suo eccentrico e dinamico approccio alla materia. Un complesso apparato stilistico e narrativo maturato evidentemente (anche) negli anni passati lontano dalla produzione fumettistica, per lo più a lavorare per il New Yorker, e quindi, probabilmente, a ragionare più sul significato immediato ed intrinseco della singola immagine piuttosto che sulla costruzione della sintassi di una storia a fumetti.
Detto ciò, è quindi naturale che questa non va considerata solo un’opera politica, ma è semmai una testimonianza sociologica e storica in cui la cultura fumettistica, pop e commerciale è parte integrante di essa e, allo stesso tempo, ne è veicolo narrativo.
La Storia si ripete
Tornando a leggere “L’ombra delle due Torri” in chiave storica, ci soffermiamo sulla scelta del colophon, che Spiegelman ha ripetuto anche in fondo, semicancellata dai titoli dei giornali di cent’anni dopo, tra cui spicca l’ultimo in basso a destra “Shock per il video di Britney”. Quella che intravediamoo, semicoperta, è la prima pagina di ”The New York World”, dell’11 settembre 1901. Il titolo dice ”Si riapre una ferita del Presidente; leggero peggioramento”. E’ la cronaca dell’agonia del venticinquesimo Presidente americano McKinley che morirà tre giorni dopo, a causa di due colpi di arma da fuoco inferti da Czolgosz, un anarchico, otto giorni prima. Cent’anni esatti prima del crollo delle torri veniva assassinato per la terza (e non ultima) volta un presidente americano, in questo caso un presidente che rappresentava la nascita dell’America moderna. Cercando di decifrare le parole semicancellate leggiamo “Goldman”, “anarchist”, “conspiracy”…
Cent’anni prima, la Storia si ripete. Czolgosz, figlio di immigrati russo-polacchi, si era ritrovato a crescere in un’America industriale, con una famiglia numerosa e poverissima. Vedendo che il governo, rappresentato in quegli anni dal repubblicano McKinley, non faceva assolutamente nulla per tutelare le condizioni dei lavoratori come lui, Czolgosz si avvicinò al movimento anarchico e, travisando le parole di Emma Goldman (importante esponente del movimento anarchico), iniziò a maturare l’idea dell’omicidio come estremo rifiuto dello status quo (la Goldman fu a lungo sospettata di cospirazione, per questo). La fame e la povertà lo portarono ad una depressione totale e questo ventottenne iniziò a pianificare l’assassinio del Presidente: Czolgsoz sparò a McKinley l’8 settembre 1901, durante la stracolma fiera di PanAm, un’esposizione di tutto il fasto e il progresso crescente dell’America d’inizio secolo. Dopo un processo sommario, in cui praticamente non fu difeso, Czolgosz venne condannato alla sedia elettrica e il suo corpo venne dissolto nell’acido nel giro di 24 ore. La giustificazione delle autorità rispetto a questo macabro dettaglio fu che non volevano che questo assassino diventasse un eroe anarchico da emulare. Ci vollero svariati decenni prima che i lavoratori riuscissero ad ottenere i diritti che hanno oggi, gli stessi che chiedevano anche gli anarchici di inizio secolo (non solo loro, naturalmente), esasperati da una povertà e da uno sfruttamento senza misura.
La Storia si ripete: così com’è stato per gli anarchici, oggi l’Islam sembra essere diventato sinonimo di terrorismo. Oggi, come allora, i media (manipolati) aiutano ad aumentare la confusione ed il terrore, all’interno di un mondo che contempla solo nemici o alleati, nel quale perdiamo qualunque capacità di critica e di analisi. Spiegelman ricorda un certo Michael Moore (o viceversa): pur non essendo schierato come il regista, attraverso la testimonianza in prima persona l’autore cerca di presentare una serie di documenti che dimostrino, in sintesi, che l’America ha intrapreso una strada realmente pericolosa, cavalcando le paure della gente e sbandierando l’ennesimo nemico da sconfiggere (c’erano una volta i russi, un’altra i libici, ecc. ecc.).
Non per nulla Spiegelman sostiene di sentire ancora arrivare la fine del mondo, solo che essa arriverà più lentamente.
L’edizione italiana
In Italia, L’ombra delle torri è uscito per Einaudi, dopo essere stato pubblicato, in parte, a puntate in formato ridotto sul Venerdì di Repubblica e, integralmente, in allegato al settimanale Internazionale (a cui ci si può rivolgere per ordinare la loro versione meno lussuosa, ma molto più economica, pur se priva degli extra).
A livello di confezione il libro è un oggetto di lusso. Sia la copertina che le pagine interne sono stampate su cartoncino rigido; il formato è marcatamente verticale, insolitamente alto, ma l’interno va sfogliato tenendo il libro in orizzontale. In copertina, l’idea di “ombra delle due torri” è stata resa con un’elegante plastifica UV, che crea un contrasto lucido/opaco, ripreso anche sulla 2°, 3° e 4° di copertina, in cui vediamo le sagome di persone che sembrano cadere o rotolare. Tutte le pagine interne sono plastificate e lucide; la resa dei colori è brillante. Gli unici appunti che possiamo fare dal punto di vista della qualità del lavoro sono la presenza di alcuni refusi nel testo, tra cui spicca la sillabazione (rimasta in inglese, invece che in italiano) e una pessima traduzione del titolo originale In the shadows of no towers, che in italiano dovrebbe essere All’ombra di torri che non ci sono più.
Resta difficile capire, ad ogni modo, la decisione di pubblicare in un formato così elegante un’opera che, alla fine, non arriva a quaranta pagine. Basti pensare che il volume in lingua originale su Amazon.com lo si può trovare a 7 euro (più qualche euro di spesa di spedizione), mentre in Italia i costi di confezione hanno portato il prezzo a 25 euro, cifra davvero eccessiva anche per il più grande ammiratore di Art Spiegelman. Bastava scegliere una carta più leggera per le pagine interne (del resto, l’autore ha lavorato su carta simile al foglio di giornale) per ridurre il costo di quasi la metà.
Abbiamo parlato di:
L’ombra delle due torri
Art Spiegelman
Einaudi Stile Libero
24×34, 36 pag. cartonate con plastifica lucida
Copertina con stampa lucida UV – € 25,00