La rivista on line Golem L'Indispensabile nacque nel 1996 su iniziativa di Umberto Eco, Gianni Riotta e Danco Singer e fu il primo esempio di rivista culturale italiana pensata specificatamente per il web.
Fino alla sua chiusura definitiva, avvenuta nel 2011, la rivista ebbe varie incarnazioni e poté contare su firme e collaborazioni prestigiose, tra le quali quella di Daniele Barbieri (www.guardareleggere.net) che a partire dal 2001 sulle pagine della seconda serie della rivista pubblicò una serie di saggi e articoli sul fumetto e il suo linguaggio.
Purtroppo oggi la pagina web e l'archivio on line di Golem l'Indispensabile non sono più raggiungibili, ma quelle pagine scritte da Barbieri restano ancora oggi attuali nei contenuti e nel valore dell'analisi e dell'approfondimento sul linguaggio dell'arte sequenziale. È dunque un peccato che gli appassionati del mondo del fumetto di età più giovane o coloro i quali al tempo non avevano conosciuto quella rivista si siano persi tali interventi.
Per tale motivo abbiamo chiesto a Daniele Barbieri, amico de Lo Spazio Bianco, la possibilità di ripubblicare sul nostro sito quella sua produzione e l'autore molto gentilmente ci ha concesso il permesso.
Iniziamo dunque oggi con un articolo su Art Spiegelman e il suo capolavoro Maus.
Questo articolo è apparso in origine sul Golem l'Indispensabile #1 del Febbraio 2001.
Più di vent'anni sono passati da quando Art Spiegelman ha iniziato a scrivere Maus, e quasi dieci anni da quando l'ha terminato. In Italia è uscito per tre volte: la prima a episodi su Linus, con non troppo ritardo sull'originale americano; la seconda in due volumi da Rizzoli (in seguito ristampata in un volume solo); e assai recentemente, con una nuova traduzione, da Einaudi. Negli Stati Uniti ha vinto il premio Pulitzer, unico fumetto della storia del Novecento ad aver ricevuto un riconoscimento così insigne, e ha avuto un successo enorme.
A rileggerlo oggi, è del tutto evidente che la sua efficacia non è cambiata. Come ogni grande romanzo, Maus non patisce il passaggio del tempo. A distanza, si comprendono bene ora le ragioni della cura maniacale di Spiegelman nel cercare uno stile che fosse diverso da quelli che facevano tendenza al momento, ma che non apparisse nemmeno contrapposto loro, bensì semmai neutro, connotato certamente dal suo autore ma il meno possibile dall'epoca in cui è stato scritto.
Di racconti sul Nazismo e sull'Olocausto ce ne sono stati tanti, a fumetti come nel cinema o in letteratura. Sono diventati un genere: conosciamo tutti le storie in cui l'eroe di turno deve sconfiggere i nazisti cattivi che stanno cercando di conquistare il mondo, magari in versione fantascientifica o esotica nelle foreste sudamericane. Un tema così succosamente perverso non poteva non infiammare la fantasia di autori e lettori.
Ma anche per questo cinquantennale dilagare del tema, per questo ricorrere di torturatori e vittime in opere di fantasia, con mille variazioni tra il sinceramente drammatico e il superomistico, la storia del Nazismo e dell'Olocausto può apparire oggi come qualcosa di cui la Storia è stanca; come se non ne potesse più di sentirselo raccontare. E quando siamo stanchi di qualcosa, desideriamo di liberarcene.
È in queste condizioni che nascono fumetti come Hitler=SS, di Philippe Vuillemin, costato al suo editore italiano Topolin un sequestro e una condanna, perché il poco accorto censore non si è accorto che il bersaglio di quella satira bestiale non era l'Olocausto, ma la retorica che lo allontana da noi, la stanchezza di quell'immaginario che dell'Olocausto vede solo il lato spettacolare e grandguignolesco.
Ed è in queste condizioni che potrebbe apparire storicamente confortante la scoperta che no, in realtà allora non era accaduto niente, o molto poco, e che siamo autorizzati a dimenticare Auschwitz come siamo normalmente autorizzati a dimenticare ogni tendenza che abbia finito per stancarci.
La grandezza di Spiegelman è stata quella di riuscire a scrivere mantenendosi estraneo a quella retorica. L'immaginario di genere con i tedeschi cattivi e le vittime torturate resta del tutto al di fuori del suo modo di raccontare. Maus ci prende alle spalle, perché sembra una storia di vita quotidiana e familiare, di cui i rapporti personali sono il centro e il motore narrativo; e così, poi, l'incubo dentro cui ci trascina pagina dopo pagina cresce con la nostra affezione ai personaggi.
Maus ci aiuta a ricordare perché riesce a tornare alla radice di un tema troppo contaminato. Così contaminato che coloro che sostengono che lo si debba lasciare da parte si sentono più forti che in passato, più autorizzati a sostenere che ci siamo sbagliati, che quel passato non è stato, non poteva essere come ci è stato raccontato.
Mi sentirei di proporre Maus come lettura obbligatoria nelle scuole, se non pensassi che troppo spesso le letture obbligatorie ottengono risultati opposti a quelli che si prefiggono. E poi, perbacco, Storace me lo boccerebbe di sicuro!
Un ringraziamento all'autore per averci concesso la ripubblicazione di questo articolo