Il divino inciampare è la storia di San Giuseppe da Copertino, frate povero che visse nel ‘600, considerato “asino” a causa della sua indole semplice che portava i suoi confratelli e la gente a prendersi gioco di lui. Il santo fu in vita processato dall’Inquisizione per via dei voli miracolosi a cui si abbandonava nel contemplare il piccolo dipinto della Madonna della Grottella.
A loro volta tali episodi costituiscono la base per il libro del 1976 A Boccaperta, di Carmelo Bene, fonte principale d’ispirazione per l’opera in analisi di Miguel Angel Valdivia.
L’opera “degenerata”
Del racconto di Bene, assolutamente inclassificabile secondo schemi tradizionali di generi e forme narrative, Valdivia riprende in toto il carattere polimorfo.
A Boccaperta nacque come sceneggiatura per un film poi mai realizzato, anche per via delle impossibili richieste di Bene: per la sua proiezione pretendeva che le sale cinematografiche si dotassero di due schermi, di cui uno in alto per rappresentare al meglio i voli del santo. L’opera divenne così un romanzo secondo la tradizionale idea dell’attore pugliese di “opera degenerata”.
Allo stesso modo Valdivia in un’intervista sostiene di aver incominciato il proprio libro con l’idea di affiancare dei balloon ai disegni, per poi abbandonarla totalmente – i capitoli muti sono ora inframmezzati da didascalie realizzate da cyop&kaf, street artist, scrittori e registi napoletani – e creare quello che lui stesso definisce “film muto disegnato”; nella medesima intervista peraltro l’autore esordisce dicendo: “Non mi sento un fumettista”.
Al di là della classificazione – fumetto o non fumetto – l’opera di Valdivia è di certo una “narrazione” per immagini, che nasce dalla sua passione comune con Bene per l’iconografia sacra.
A questo minimo comun denominatore si aggiunge però una rappresentazione fatta di opposti fra la vita rurale di campagna del santo e quella opulenta del papa e dell’alto clero, fra realtà e finzione creata attraverso la manipolazione televisiva, condite da un’inaspettata e funzionale vena distopica.
L’imperfezione è divina
Giuseppe da Copertino, invidiato dal papato per via della sua popolarità crescente, costituisce l’esempio perfetto di santità universale e laica.
Valdivia riporta sulle pagine un personaggio totalmente privo di intenzione, che nel suo non agire e abbandonarsi totalmente alla contemplazione costituisce una opposizione al potere del tutto involontaria. Il santo è un protagonista privo di personalità, che incarna il paradosso di essere un non-personaggio nell’aver eliminato il proprio “Io”, come Bene predicava.
Durante i suoi voli Giuseppe non è cosciente e non si libra in cielo volontariamente come un angelo, ma in maniera goffa, poiché dimentica il proprio peso.
In questo senso l’elemento sacro non è più costituito da un atto di volontà, da un Logos che si fa carne, ma da tutto il contrario: l’errore, la dimenticanza, l’assenza; l’inciampare è divino, come quello di Cristo che porta la croce.
La linea di fuga nella struttura
Nei primi capitoli il santo incappa in una processione che ha l’aspetto della corte dei miracoli, personaggi folli, fra uomini mascherati e donne nude che impugnano il crocefisso idolatrandolo. Ciò che regna è l’ipocrisia, il contrasto di una religiosità ambigua manifestata con veemenza, di persone che si affannano a esternare il proprio culto perdendo di vista la figura della Madonna portata in corteo, verso la quale Giuseppe si libra invece in volo.
La trance del santo deriva infatti dal suo contatto visivo diretto con l’immagine sacra, che non viene mai interrotto; tutto il resto è invece un’interpretazione fasulla partorita dalla megalomania del proprio ego, è la religiosità pronta della forsennata città, qui incarnata dal papa.
Il Vaticano interviene dunque per requisire l’immagine sacra e sottoporre il santo a processo. Nonostante il pontefice continui però ad osservare l’immagine della Madonna, questa non gli permette di volare e il suo orgoglio di rappresentante divino sulla Terra non ammette l’affronto di uno straccione che al contrario vi era riuscito.
A seguito di proteste popolari per la sua liberazione e per la voglia di nuovi miracoli, il santo viene imbellettato con paramenti sacri e rasato, gli viene imposto un finto sorriso tramite un filo legato alla faccia, e con un artificio scenico viene mostrato in televisione mentre vola e si inginocchia di fronte al papa, che sostituisce nella sua finta estasi la figura della Madonna.
Nelle didascalie questa viene definita a ragione come una “sconfitta apparente”, poiché il santo rimesso in cella, si abbandona nuovamente alla levitazione in una libertà involontaria, mentre il papa, ormai insidiato dal dubbio, continua a fare sogni catastrofici.
Quella di Giuseppe è in realtà una vera e propria vittoria sociale: Deleuze, in Un manifeste de moins, diceva:
“La linea di variazione, non passa tra padroni e schiavi, né tra ricchi e poveri. Perché, degli uni e degli altri, si tesse tutto un regime di relazioni e di opposizioni che fanno del padrone uno schiavo ricco, dello schiavo un padrone povero, in seno allo stesso sistema maggioritario”.
Per Deleuze il cambiamento passa per il concetto di minoranza che si realizza nella fuga dagli elementi che rendono l’individuo parte della maggioranza. San Giuseppe rappresenta allora il minoritario postulato da Deleuze, quello strumento di variazione che è “la linea di fuga nella struttura”.
Raccontare senza raccontare
Nel realizzare la sua opera Valdivia ha imposto a se stesso una dura prova disegnandola completamente – un unicum nella storia del “fumetto” – con delle piume di beccaccia. Tali piume, strumenti rari e delicatissimi1, lo hanno obbligato a un esercizio di leggerezza nella mano a cui è stato difficilissimo abituarsi per evitare di romperle.
Le tavole, caratterizzate da un disegno aguzzo ed espressionista, sono dominate dal nero e ricordano le novel in woodcuts di Lynd Ward e Frans Masereel, miste alle caricature di George Grosz nelle rappresentazioni grottesche della processione.
Le atmosfere metafisiche creano un’impressione di non luogo nelle tavole, che vengono concepite in una griglia fissa a due vignette verticali interrotte qua e là da splash page. In questa struttura risiede l’analogia con l’idea di “raccontare senza raccontare” di Bene che egli ravvisava nell’Ulisse di Joyce.
La non-narrazione di Valdivia spesso tende a giustapporre le due vignette verticali non per raccontare una storia unidirezionale, ma per mettere a confronto o mostrare due luoghi o situazioni differenti in contemporanea. La closure copre degli spazi enormi, dei salti nel vuoto nei quali al lettore sono fornite il numero minimo di informazioni sufficienti a non perdersi.
Certamente vi è quindi un filo conduttore nel racconto, ma questo emerge soprattutto dalla mente del lettore piuttosto che dalle tavole stesse.
Il divino inciampare costituisce dunque un grande esperimento che si muove alle estremità della narrazione e tenta allo stesso tempo di eliminarla. Un virtuosismo mai sterile che ha la leggerezza dello sconfinato.
Abbiamo parlato di:
Il divino inciampare
Miguel Angel Valdivia con testi di cyop&kaf
Coconino Press, 2019
192 pagine, brossurato, bianco e nero – 20,00 €
ISBN: 9788876184321
Da ogni esemplare si possono trarre solo quattro piume utili al disegno, due per ala, utilizzabili rispettivamente solo da mancini e destrimani ↩