Il terzo volume della serie Historica di Mondadori raccoglie i quattro episodi che compongono la saga scritta da Michel Dufranne, disegnata da Alexis Alexander e pubblicata da Delcourt fra il 2007 e il 2011.
Attraverso le loro tavole seguiamo i ricordi di Marcel Godart, soldato belga dell’esercito napoleonico (la Grande Armée, appunto) degli anni che vanno dalla conquista della Polonia alla disfatta della campagna di Russia. Queste memorie sono scritte a posteriori, dopo il ritorno in Francia e la Restaurazione, affidate a diari che riempiono (tutti meno uno, scopriremo) gli scaffali della libreria di famiglia e lasciati in eredità ai due figli. La serie presenta una profonda differenza fra i primi due episodi, interamente incentrati sulle memorie, e gli ultimi due, che oscillano fra il passato (le campagne di guerra) e il presente narrativo (circa 1850).
La guerra dietro le linee
La prima caratteristica di queste memorie che colpisce è che, di fatto, parlano poco dei combattimenti. Gli scontri hanno un ruolo importante perché da una parte falcidiano la schiera dei personaggi dall’altra costituiscono il riferimento delle azioni e delle parole di tutti, in quasi ogi momento, ma la loro invadenza è limitata, tenuta sotto controllo.
Quanto erano inevitabili, ingombranti e fatali allora, tanto il Godart reduce memorialista li vuole contenere, mirando piuttosto a far rivivere le anime dei suoi commilitoni. Per questo, l’attenzione è focalizzata sui momenti di tregua, sulla gestione della routine e quello che risalta è la difficoltà degli individui a sopportare quella vita. Se le battaglie e i preparativi associati trasformano i soldati in ingranaggi di una macchina, toglie sì loro qualsiasi autonomia, ma colma i loro pensieri e i loro giorni di cose da fare, schiaccia il tempo al solo presente e rimuove il futuro dal loro orizzonte, la tregua allenta le costrizioni e dà loro possibilità di pensare. E quello che accade è che si trovano a cercare un senso del proprio essere in luoghi sconosciuti, in mezzo a popoli che parlano lingue incomprensibili (e Dufranne trasmette questo specifico spaesamento linguistico mantenendo polacco e russo nei ballon).
Sono soldati, non hanno prospettive di integrazione, non hanno progetti e non possono confidare in un ambiente amichevole. Sono costretti a una sorta di confino nei propri acquartieramenti e la conseguenza è uno stillicidio di incidenti, provocazioni, duelli e delitti. L’esercito occupante costituisce un microcosmo sostanzialmente chiuso, dove l’unico conforto, vista la tensione e la rivalità con gli altri reparti, all’origine di frequenti incidenti, è la solidarietà dei compagni di reparto. È uno scenario che esaspera i soldati, che infatti seguono le notizie della campagna di Spagna con invidia, vedendola come un’occasione perduta (le notizie che quella campagna si era trasformata in una disfatta filtreranno poco a poco).
Dufranne ci fa esplorare questo scenario attraverso piccole indagini che Godard compie per venire a capo di incidenti che coinvolgono il suo reparto. Così, attraverso le azioni di ciascuno e i pensieri di Godard, che cuciono le scene senza invadenza alcuna, ogni carattere emerge a poco a poco e familiarizziamo con i personaggi fissi, il gruppo ristretto di amici di Godard: Austerlitz (detto anche “Io c’ero”), il Mastino, Decouze, ci interroghiamo sulla natura del loro rapporto, sulla strana mescolanza di caratteri, sul loro rapporto con ciò che li circonda (solo di Godard sappiamo qualcosa in più rispetto a ciò che vediamo accadere: ogni tanto compare una considerazione, una speranza delusa, un rimpianto, ma sono pennellate rapide). È forse, quella che seguiamo nei periodi di tregua, l’unica normalità concessa a, o concepibile da, quei soldati, stranieri in terra straniera?
Niente di epico compare in queste tavole: l’epica appare solo nei racconti o nelle speranze dei soldati e Godard ammette che niente degli ideali per cui si è arruolato ha resistito alle campagne militari e alle occupazioni. Alla fine, nella solitudine della ritirata dalla Russia, l’unica speranza è sopravvivere, o almeno non morire per mano di esseri vili o maligni. La Grande Armée è ridotta a un’accozzaglia di disperati, che valuta il cannibalismo pur di riuscire a nutrirsi.
Tutto appare perduto.
Anche l’onore.
Di generazione in generazione
Godard aveva lasciato moglie e bambini, cresciuti nel vuoto della sua assenza. Un’assenza continuata anche dopo il ritorno, perché il cuore e la testa di Godard erano forse rimasti in quei territori lontani e sconfinati, che avevano drenato le sue energie vitali. Forse (forse) l’unico senso che aveva saputo trovare una volta a casa fu nel desiderio di fermare e trasmissione le sue memorie, cosicché i suoi diari finirono per diventare odiosi ai figli, che lo vedevano perso in essi. Un padre assente, rivolto costantemente al passato, incapace di partecipare al presente, di essere loro vicino, di dare loro qualcosa che non fosse il proprio rimpianto e la rabbia per i compagni perduti e, è facile immaginare, per i propri ideali traditi.
Questa incapacità di vivere i due tempi, passato e presente, si risolve in doppio fallimento: fallimento come genitore e come testimone efficace. Il fallimento come genitore è evidente negli atteggiamenti dei figli, che desiderano solo cancellarlo dalle proprie vite, tenendolo al più come riferimento in negativo, esempio di tutto ciò che un padre non deve fare. Il fallimento come testimone rischia di essere conseguenza di quello come padre, nel momento in cui i figli desiderano distruggere i suoi diari. È questo un punto importante (e giustamente lo sottolinea il curatore Giuseppe Pollicelli nella sua attenta introduzione): la volontà di distruggere i diari segnala anche il rifiuto di un confronto con quei ricordi (è tuttavia una rappresentazione realistica, tenuto conto che quel tipo di memorialistica avrà diffusione e influenza solo dopo la prima guerra mondiale).
Il muro costruito in vita da Godard nei confronti della propria famiglia ha alla fine costruito un meccanismo di odio ottuso, capace solo di autoalimentarsi e incapace di mettersi in discussione. Solo la moglie del figlio minore, quindi qualcuno che non ha sofferto così tanto come i figli, riesce a trovare il distacco sufficiente per dare una possibilità a Godard, leggendo i suoi diari. Se la conoscenza così raggiunta certo non cancella la sofferenza inflitta dall’ex soldato ai familiari, perlomeno la colloca nella prospettiva della sua esperienza di vita. Godard è una persona che non è riuscita a reintegrarsi nella vita, perché non ha trovato il modo di sanare o convivere con le sue ferite, i suoi incubi, il suo passato. Certo, il passaggio brusco fra le due metà della serie lascia troppi vuoti narrativi, soprattutto per quanto riguarda la storia della famiglia, ma il fuoco degli ultimi due episodi è comunque chiaro. Se pure la narrazione perde di linearità e compattezza e chiede forse un eccessiva partecipazione del lettore per colmare i passaggi (come qui ho fatto con qualche approssimazione), rimane non privo di efficacia e comunque in grado di tenere avvinto il lettore.
In conclusione, merita sottolineare la bontà dell’introduzione di Pollicelli e la resa delle tavole (nella mia copia due pagine mostrano difetti di stampa, ma, vista la qualità del resto, può essere un caso sfortunato), che consente di apprezzare lo stile di Alexander, più attento ai dettagli nei primi due episodi e che perde qualcosa nella resa delle espressioni dei volti negli ultimi due, complice probabilmente la colorazione.
Abbiamo parlato di:
Historica #3 – Le Memorie della Grande Armata
Michel Dufranne, Alexis Alexander
Traduzione di Marco Cedric Farinelli
Mondadori, 2013
198 pagine, cartonato, colori – 12,99 €