Quando David Dunn comparve nella scena conclusiva di Split (2016), M. Night Shyamalan – esplicitandone l’appartenenza all’universo di Unbreakable (2000) e al contempo annunciando un sequel – ottenne certamente un effetto spiazzante, così come cerca di fare con i finali dei suoi lavori, i famosi Shyamalan twist nati con Il sesto senso.
Con Glass, Shyamalan tira le fila della trilogia in cui il mondo dei supereroi e dei fumetti, della contrapposizione tra eroe e cattivo, rappresenta la pietra angolare. Questo vale anche in riferimento a Split, che come opera in sé, almeno fino alla citata scena finale, non sembrava per nulla condividere le tematiche del suo predecessore Unbreakable, riuscito racconto di formazione sulle origini di un eroe.
Expectations vs. reality
A ben vedere, Split aveva una sua compiutezza e avrebbe funzionato anche senza quella scena finale, il cui effetto fu quello di ammantare di fascino la storia, regalandole un ulteriore grado di significazione e creando grandi aspettative per il film successivo, che avrebbe dovuto chiudere un percorso quasi ventennale definendo il canone supereroistico del regista.
Il percorso di Shyamalan si configura infatti come alternativo al cinecomic nell’interpretazione delle major, che proprio nello stesso anno di Unbreakable avviava, con il primo X-Men di Brian Synger, un percorso di crescita di contenuti, interesse e fatturati che sarebbe poi diventato la macchina d’intrattenimento che ha portato alla creazione di Studios dedicati esclusivamente al genere.
L’uso di tanti condizionali è presto spiegato: Glass non solo non riesce a chiudere compiutamente la trilogia, ma ne rappresenta il punto più basso, un tonfo che probabilmente in pochi si sarebbero aspettati, visto che la volontà di rischiare così tanto su un film riuscito come Split – legandolo a un altro dei propri lavori più amati – lasciava presupporre che il regista indiano avesse in mente un progetto ben chiaro.
Il risultato è invece ben lontano dall’avere una sufficiente compiutezza, soffrendo di diversi difetti di scrittura che palesano ancora di più i limiti produttivi di un budget modesto per il tipo di storia da raccontare.
Qualcosa di buono
Ma Glass non è tutto da buttare. Come verrebbe naturale pensare, visti i nomi in gioco, il cast è uno dei punti di forza della pellicola. Samuel L. Jackson e Bruce Willis, il primo per ragioni legate a scelte di sceneggiatura, il secondo per le caratteristiche intrinseche del personaggio, forniscono una prova discreta, mentre i comprimari Anya Taylor-Joy (Casey), Spencer Treat Clark (Joseph) e Sarah Paulson (dott.ssa Staple) si dimostrano tutti in parte, soprattutto Anya Taylor-Joy, il cui talento, esibito già in pellicole come The Witch e lo stesso Split fa dimenticare la cattiva caratterizzazione del personaggio che interpreta.
Spicca su tutti James McAvoy, ancora una volta molto bravo a interpretare le diverse personalità dell’Orda: in questo film si può godere molto di più dell’interpretazione dell’alter-ego de la Bestia, che in Split era relegato al finale per ovvie ragioni narrative. In Glass, pur continuando a interpretare spesso la personalità del bambino Hedwig, il dissidio tra l’identità più violenta e quella di Kevin (l’originale) si fa più evidente, a tutto vantaggio dell’interpretazione di McAvoy. Giocoforza, è lui a salvare il film e a renderlo comunque meritevole di essere visto, magari in lingua originale così da apprezzare ancora di più l’interpretazione, anche perché così potrebbero evitarsi alcuni obbrobri di traduzione.
Un lentissimo declino
Del resto, la pellicola parte anche abbastanza bene: David Dunn e suo figlio possiedono un negozio di articoli per la sicurezza come copertura per la vera attività dei due. David prosegue infatti la sua attività di giustiziere, imbeccato dal figlio che gli fornisce informazioni in tempo reale. Durante un pattugliamento volto proprio a cercare la Bestia, i due finiscono per scontrarsi.
Da questo momento in poi, il film prende una piega piuttosto assurda ed eccessivamente prolissa (durata della pellicola: 128 minuti). Shyamalan, attraverso il personaggio della dottoressa Staple, prova per tutto il secondo atto a smontare quanto visto nei precedenti film, tentando di insinuare dubbi nello spettatore.
Il che non sarebbe neppure un male se non fosse che, al termine del film, l’impressione che rimane sia che il tutto sia strumentale alla creazione di un ennesimo Shyamalan twist. Sembra che il regista abbia forzato la storia in quella direzione solo per spiazzare lo spettatore con un finale e controfinale del tutto artefatti. Sono numerosi infatti i punti interrogativi riguardo allo svolgersi della trama, a partire proprio da quale autorità possa avere la dottoressa Staple di trattenere (e perché solo per tre giorni, particolare ripetuto più volte) un pluriomicida e un vigilante in un istituto privato senza che la polizia metta becco. Si tratta solo di un esempio di diverse forzature in sede di scrittura che finiscono per privare di senso il terzo atto, che pure a livello di ritmo ha un sussulto, non sufficiente però per salvare la pellicola, che cade infine sotto il peso di dialoghi del tutto non plausibili, infarciti di citazioni fuori luogo dai fumetti.
Il diavolo è nei dettagli
Anche a livello tecnico il film non eccelle. Abbiamo già accennato al budget, di soli venti milioni (il primo Capitan America, per fare un paragone, è costato sette volte tanto). Ma il budget non può essere la sola spiegazione: Split è costato la metà di Glass, ma gli è superiore da tutti i punti di vista, e non solo perché è un film che dentro ha delle idee solide e ben declinate.
Dal punto di vista squisitamente tecnico, le ambientazioni claustrofobiche e l’accento dato alla psicologia di Kevin non rendevano necessaria la sua presenza ben visibile a video. Ma dal momento che Shyamalan decide di girare uno showdown finale in piena luce come quello di Glass, i limiti tecnici, uniti alla pochezza della sceneggiatura, non fanno altro che complicare le cose.
Anche l’accompagnamento musicale non fa nulla per essere ricordato, mentre si può promuovere la fotografia di Mike Gioulakis (che ha curato anche quella di Split) oltre a qualche scena ben girata, ma nulla più.
Detto senza mezzi termini, Glass è un film mediocre che tradisce tanto le aspettative quanto i suoi predecessori, soprattutto tradisce la riflessione sul mito del supereroe che il regista aveva attuato in Unbreakable, così profonda e rispettosa del genere da far risultare questo film, che doveva esserne l’ideale corollario, quasi irrispettoso.
Abbiamo parlato di:
Glass
Regia: M. Night Shyamalan
Sceneggiatura: M. Night Shyamalan
Interpreti: Samuel L. Jackson, James McAvoy, Bruce Willis, Anya Taylor-Joy
Blumhouse Productions, 2019, 128 minuti