Come strenna natalizia e regalo ai nostri lettori, vi presentiamo questa lunga intervista a Claudio Villa, corredata da una serie di immagini e schizzi inediti che l’artista ha voluto regalare a tutti noi!
Claudio Villa nasce a Lomazzo (CO) nel 1959. Dopo il liceo artistico entra nello studio di Franco Bignotti. Nel 1979 inizia la collaborazione con l’editore francese L.U.G., prima con la miniserie medievale Enguerrand e Nadine poi con il fantascientifico Gun Gallon. Nel 1982 inizia la collaborazione con l’allora Daim Press, poi Sergio Bonelli Editore, con Martin Mystère #11-12.
Viene chiamato a disegnare Tex col numero 311 (settembre 1986). Nel 1986 gli viene assegnata l’ideazione grafica e le copertine del nuovo personaggio di Tiziano Sclavi: Dylan Dog. Stesso compito gli viene affidato per Nick Raider, serie ideata da Claudio Nizzi (1988).
Nel 1994, a partire dal numero 401, succede a Galep come copertinista di Tex, ruolo che ricopre tutt’ora. Nel 1996 torna su Dylan Dog come autore completo, realizzando con Claudio Baglioni Le vie dei colori, albo fuori-serie allegato a Tutto musica e spettacolo.
Nel 2006 si cimenta coi supereroi, con Devil & Capitan America: doppia morte, su testi di Tito Faraci.
Attualmente è al lavoro su di un futuro Texone.
Ciao Claudio, ben ritrovato su Lo Spazio Bianco.
Prima di diventare la tua professione il fumetto era già presente nella tua vita di lettore?
Certo! Ho ancora negli occhi l’immagine di mio padre quando rientrava dal lavoro e aveva sottobraccio un piccolo fascicolo colorato: erano i fumetti che comprava, da grande appassionato qual è. Grazie a lui ho potuto conoscere i Classici dell’Audacia, pubblicati da Mondadori negli anni Sessanta, che proponevano il meglio del fumetto franco belga, gli stessi personaggi che poi avrei ritrovato sulle mai dimenticate pagine del Corriere dei Ragazzi. Oltre a questi, periodicamente, entravano in casa i supereroi americani: Superman, che allora si chiamava Nembo Kid e non aveva la “S” sul petto ma solo un triangolo giallo vuoto, e Batman con il suo costume rosso (!). Si aggiungevano alla lista pure i nostrani Tex e Zagor! Insomma ho conosciuto molto presto il mondo del fumetto.
Quali sono stati i tuoi esordi professionali in campo fumettistico?
Grazie a Franco Bignotti, che mi fece “da professore” dopo il liceo artistico insegnandomi i fondamentali del fumetto, sono stato presentato alla L.U.G. di Lione, una casa editrice per cui anche lui aveva lavorato in passato. Devo ringraziare anche l’allora direttore Marcel Navarro per la fiducia che mi accordò, affidandomi una serie con un nuovo personaggio. Era una miniserie di sei episodi ambientata in Provenza durante il Rinascimento: una classica avventura di cappa e spada, il primo approccio con i cavalli e lo storytelling professionale.
Fu il mio vero esordio nella professione e lo ricordo come un periodo pieno di speranze, errori, sforzi e piccole soddisfazioni.
L’approdo in Bonelli ti vede da subito entrare nello staff di Martin Mystere del quale disegnasti nove numeri: che ricordi hai dell’esperienza in quella serie?
Un’emozione fortissima!
Ricordo che Decio Canzio, dopo aver esaminato a fondo le tavole di prova che avevo portato in casa editrice, mi disse:” Castelli ti preparerà una storia“.
Pensai che Alfredo Castelli fosse sprecato per dare una sceneggiatura proprio a me. Lo avevo conosciuto e letto su migliaia di pagine del Corriere dei Ragazzi e per me era un mito del fumetto. Pensavo, come esordiente, di “non essere degno” di una sceneggiatura di un professionista del suo calibro.
Mi diedero le prime pagine della storia e ricordo le raccomandazioni di Canzio: “Sullo stile non discutiamo, ma l’ultima parola sulla leggibilità spetta a noi.”
Fu una scuola per me e a ogni tavola cercavo di guadagnarmi la fiducia che mi era stata accordata.
Dovetti ripulire il segno: arrivavo da una serie francese con cavalli e spade e qui dovevo disegnare auto e grattacieli. Era necessario un segno più pulito, che “indicasse” l’epoca storica del personaggio.
La narrazione di Castelli era impeccabile e le storie veramente belle. Mi sono divertito molto, anche quando ho affrontato la stimolante sfida per trovare inquadrature adatte nella storia con le zanzare.
Dopo Martin Mystere è la volta di Tex: avevi già fatto delle prove sul personaggio, mentre eri al lavoro sulla testata ideata da Alfredo Castelli?
Tex “aleggiava” da sempre nei miei disegni, ma la vera prova mi venne commissionata dalla casa editrice. Ricordo che portai tre o quattro tavole, con situazioni classiche del personaggio.
Anni prima avevo già fatto per conto mio dei disegni texiani, ma erano “fuori target”: avevo mostrato una scena piuttosto cruda, con un cowboy centrato da una scure indiana in pieno petto.
La scena era chiaramente “forte” e non rientrava nella politica editoriale di un personaggio come Tex, che ha sempre minimizzato gli effetti della violenza.
Queste nuove tavole, fatte per l’occasione, andarono bene e mi venne affidata la prima sceneggiatura, scritta, come il soggetto della storia, da G.L. Bonelli!
La tua “escalation” in Bonelli fu un continuum: dopo i primi quattro episodi di MM ti venne chiesto di studiare l’immagine per un nuovo personaggio, Dylan Dog (a cui è seguito poi lo studio per Nick Raider). Come entrasti a far parte dello staff degli autori che stavano creando la serie dell’Indagatore dell’incubo?
Con una telefonata. Ah, ah, ah, ah!
Non ho mai conosciuto il “percorso” che ha portato Sclavi a chiamarmi per dare un volto a Dylan, ma so che un giorno squillò il telefono e dall’altra parte c’era Tiziano che mi chiedeva proprio quello.
Mi parlò brevemente del personaggio, mi diede molto materiale che raccoglieva il “processo creativo” in corso e i riferimenti dei possibili volti ispiratori (tutta roba che conservo ancora).
Per Nick Raider il primo ispiratore fu Ryan O’Neal del film Driver, l’imprendibile ma poi arrivammo a un altro volto, caratterizzato definitivamente da Ivo Milazzo.
Quanto ci è voluto per trovare la fisionomia definitiva di Dylan? Da dove o da chi arrivarono gli spunti e le ispirazioni originarie, oltre che ovviamente da Tiziano Sclavi?
Devo dire che i primi studi non furono soddisfacenti, soprattutto perché Dylan è inglese e io, invece, avevo fatto un personaggio spagnoleggiante con capelli folti, basettoni e un naso importante, anche se detto così sembrano simili.
Quel che ricordo è che, incredibilmente, l’informazione che fosse inglese non mi venne data – cose che capitano – ma era un’informazione fondamentale. Con i miei studi davanti e la riunione in corso, fu Sclavi che intervenne tagliando la testa al toro e indirizzò il personaggio sulla somiglianza con Rupert Everett. Non avevo mai sentito parlare di Everett e così Sclavi mi consigliò di andarmi a vedere un film con lui come protagonista. Così in una sala d’essai, guardando Another Country in mezzo a molte poltroncine vuote, schizzai velocemente i caratteri su un taccuino che mi ero portato. Poi li elaborai a casa, ricordando la raccomandazione di Tiziano: “Non farlo “delicato” come lo si vede nel film, Dylan ha a che fare con mostri e incubi, non deve dar l’idea di essere troppo fragile.”
Spinsi un po’ sulle caratteristiche, accentuando il naso e scavando bene le guance. Appena lo mostrai in casa editrice, a Marcheselli scappò un: “Ma questo è Claudio Baglioni!”
E questa è un’altra storia…
Diventasti il copertinista di Dylan Dog sin dall’esordio e lo sei stato per 41 numeri: come si sviluppava il processo creativo che portava alla nascita di una copertina di Dylan?
Era la mia prima esperienza come copertinista.
Era Sclavi che mi spiegava la storia e mi dava qualche indicazione scritta sulle idee possibili. A volte, ma raramente, ci furono disegni, alcuni fatti da Tiziano altri presi dalle vignette interne alla storia.
Da lì partivo e sviluppavo l’idea attraverso quattro o cinque schizzi e la scelta finale era della casa editrice. Una volta approvato lo schizzo facevo la china e una fotocopia in A3 della china per la “prova colore”. Coloravo con Ecoline e tempere acquerellate lasciando le alteluci1. Sapevo che non era usuale vederle su una copertina bonelliana, visto che erano tutte tinte piatte ottenute con le classiche pellicole, ma le facevo lo stesso, per il puro piacere di farlo.
Fu lo stampatore Petruzzelli che si entusiasmò all’idea e si inventò una tecnica per ottenere lo stesso risultato della fotografia in stampa: con una ulteriore pellicola senza colore, interveniva con un liquido coprente, steso a mano, che attenuava il colore in fase di stampa. E, grazie a lui, abbiamo avuto le prime alteluci in copertina.
Nel 1996 desti vita, insieme a Claudio Baglioni, a Le vie dei colori, storia di Dylan Dog che ti permise di unire alla tua passione fumettistica l’altra tua passione, quella per la musica cantautoriale italiana, e di Baglioni in particolare. Come nacque questo originale progetto?
Dalla mia curiosità e dalla passione di Guido Tognetti, consulente artistico di Baglioni, per il fumetto.
In breve: Baglioni citò Dylan Dog nella canzone Nudo di Donna, inclusa nell’album Io sono qui.
Fui piacevolmente sorpreso e cercai un modo per comunicare con lui per ringraziarlo della citazione. Su quell’album c’era il numero di telefono del suo fan club, il CLAB; spinto dalla curiosità e con una buona dose di faccia tosta, telefonai. Mi rispose proprio Guido Tognetti. Scambiammo due parole e poi gli dissi chi ero. Mi fece lasciare i dati per una “futura probabile opportunità“.
Misi giù la cornetta e non ci pensai più. Fino a quando, un mese dopo, fu lui a chiamare me.
Parlava “a nome di Baglioni”, che chiedeva se ci fosse la possibilità di disegnare una storia partendo da una sua canzone.
La mia risposta fu entusiastica e mi venne data la canzone da “fumettare”: Le vie dei colori.
Solo Dylan poteva “interpretare” un testo simile e mi misi al lavoro per concepire la storia. Non volevo una storia che fosse la pedestre attuazione di ogni strofa della canzone, ma una che potesse “incrociarsi” con il testo, diventando compatibile anche con le atmosfere di Dylan Dog.
Il “fuoco sacro” arrivò in una domenica pomeriggio e scrissi d’un fiato la storia: soggetto e sceneggiatura. La feci leggere a Tiziano e la mandai anche all’ufficio di Baglioni. Fu approvata dai due fronti. Ci fu poi una riunione dei piani alti della Bonelli e dello staff di Baglioni per definire meglio l’operazione. Si decise di pubblicare in luogo neutro per non confondere né i lettori di Dylan, né gli appassionati di Baglioni: non era una promozione di Dylan attraverso Baglioni, né una promozione di Baglioni attraverso Dylan. Era un’operazione fatta per un incontro tra due media di comunicazione: musica e fumetto. Per questo fu scelta la rivista Tutto Musica e Spettacolo per la pubblicazione.
Mi misi al lavoro per la realizzazione, che comprendeva anche tavole a colori, che feci su fotocopie su cartoncino in formato originale. L’operazione “Dylan-Baglioni” si guadagnò pure la copertina del numero, per cui partecipai anche allo sviluppo dell’idea. Dal mio schizzo approvato vennero fatte alcune foto in studio a Baglioni, che costituirono la base per disegnare un Dylan Dog full color da affiancare, schiena a schiena, al Claudione Nazionale.
Oltre a questo feci la copertina dell’albetto e la quarta di copertina con uno “scambio di costumi” tra Dylan e Claudio.
La storia venne pubblicata come un inserto staccabile della rivista.
È stato un “tuffo dove l’acqua è più blu” (n.d.r. Ci scuserà Claudio Baglioni, per la citazione battistiana).
Una gran soddisfazione.
Guardando indietro oggi al tuo lavoro su Dylan Dog, che peso e valore daresti a quell’esperienza professionale, anche per ciò che è stata dopo la tua carriera?
Formativa direi, come ogni disegno che si lascia sulla carta. L’opportunità di dedicarmi alle copertine è stata una vera palestra.
Nel 2002 hai realizzato su Tex una storia lunga di 350 tavole su testi di Claudio Nizzi, che vide il ritorno in campo di Mefisto (Tex #501-504): quanto hai impiegato e quali sono state le maggiori difficoltà nel realizzare una storia di così ampio respiro? Qual è il tuo rapporto con una nemesi storica come Mefisto e a quali storie classiche di Tex ti sei ispirato?Ci ho messo un bel po’, davvero. Circa sei anni. All’inizio mi sono “piantato” per una forma di timore reverenziale verso quegli “effetti speciali” che Galep rendeva così efficacemente e che non volevo copiare pedestremente, né stravolgerne l’atmosfera. Ho poi trovato una strada più mia che, spero, abbia salvato la “capra” della tradizione con i “cavoli” del mio stile di disegno.
All’inizio Nizzi mi chiese studi su Mefisto, perché era un personaggio talmente carismatico che andava centrato molto bene. Con i suoi consigli lo sistemai, ricordando soprattutto quel che lui mi rammentava:”Gli occhi spalancati, da pazzo“. E lo affrontai un po’ più rincuorato.
È stata una storia molto bella da disegnare, piena di chiaroscuri violenti e un’atmosfera stile Dylan Dog, ma con cavalli, Colt e Stetsons.
Il finale è stato concepito in tandem tra me e Nizzi, dopo aver chiacchierato a lungo sulla prima stesura. Una storia con Mefisto non poteva che avere una conclusione con il botto finale dell’arcinemico, che minaccia il futuro di Tex.
Nel 2014 hai festeggiato i vent’anni da copertinista di Tex, ruolo nel quale esordisti nel 1994 raccogliendo il testimone e l’eredità di Galep. Che significato ha per te questo incarico professionale e dopo vent’anni dove trovi gli stimoli per realizzare copertine sempre nuove?
Dove trovo gli stimoli? A volte nella disperazione!
Quando c’era Sergio a occuparsi della definizione dell’immagine della copertina mi arrivava già un’idea piuttosto precisa di quel che voleva e anche lui, soprattutto negli ultimi periodi, mi raccontava delle difficoltà nell’inventarsi un’immagine che fosse diversa dalle migliaia di copertine già stampate.
La situazione è inevitabilmente destinata a complicarsi visto il numero di copertine che ci lasciamo alle spalle, le cui immagini diventano qualcosa “da evitare” per le copertine del futuro.
Qualche volta, pur con l’intento di non cascarci, succede e infatti è passata lo stesso la cover del #659, La chiesa sulla collina, troppo simile a quella del #248, Il marchio di Satana.
Di solito la genesi ideale di una copertina parte da un’immagine dell’interno dell’albo. Un ‘immagine significativa, dove si veda una scena importante, emblematica per la storia che però non sveli troppo del finale. Non avrebbe senso mostrare in copertina l’esito della sparatoria finale tra Tex e il cattivo di turno. Bisogna raccontare, ma non troppo. E a volte le scene belle e significative si scoprono come una ripetizione di situazioni viste e straviste in Tex, a quel punto o si sceglie di rimanere su una scena “generica” (che andrebbe bene per ogni storia) o la disperazione suggerisce di andare “oltre” gli schemi tradizionali di Tex, cosa sempre molto rischiosa.
È quello che è successo nella copertina #642, Appuntamento con la vendetta, dove ho tentato la strada della doppia immagine contemporaneamente presente nella copertina.
In passato le doppie immagini in copertina si ottenevano con interventi grafici che “staccavano” un’immagine dell’altra, soprattutto riprese da vecchie copertine riadattate.
In questo caso l’immagine finale acquista il sapore di un manifesto cinematografico con due momenti della storia fusi insieme: a Boselli piacque molto e l’approvò di slancio!
Mi piacerebbe sapere l’effetto che ha fatto sui lettori…
Comunque, lì risolvemmo la cosa in questo modo, ma va detto che una soluzione simile va centellinata e usata con prudenza.
Per il resto disegnare le copertine del ranger diventa ogni volta una strada in salita.
Quanto è stata importante l’esperienza come copertinista di Dylan Dog nell’economia dell’incarico che hai su Tex e quali sono le differenze che hai trovato nel disegnare le copertine per una serie e l’altra?
Quell’esperienza è stata importante in quanto mi ha permesso di imparare a sintetizzare l'”argomento” della copertina.
Ma le copertine di Tex sono molto diverse da quelle per Dylan Dog. Su DyD puoi giocare con un’immagine strana, insolita, che muove la curiosità su corde diverse dall’avventura pura. Un’inquadratura, un taglio di luce “raccontano” molto di più in una copertina di Dylan rispetto a quanto gli sia concesso di fare in una copertina di Tex, dove la protagonista assoluta è l’Avventura con la “A” maiuscola.
In Tex è l’insieme del paesaggio, della situazione, dell’azione a determinare la “temperatura” della copertina. A Dylan Dog basta molto meno per emozionare. Per Tex occorre che tutti gli ingredienti siano dosati e calibrati, altrimenti l’azione si smonta.
Tex è un personaggio solare e mal sopporterebbe un’atmosfera cupa e opprimente, mentre un personaggio come Dylan Dog ci va a nozze.
Queste almeno sono le differenze che ci vedo io.
Oltre alla serie mensile hai realizzato in ogni numero di Tex Nuova Ristampa una “cartolina” omaggio ispirata alla storia contenuta nell’albo e tutte le copertine della ristampa a colori allegata a La Repubblica: viene spontaneo chiederti come vivi il confronto con Galep e il rapporto con il Tex del passato.
Lo vivo con una sorta di rispetto sacrale. Galep ha segnato con il suo tratto almeno un paio di generazioni di lettori che ne conservano ancora oggi il ricordo affettuoso. Lui è percepito come intoccabile da gran parte del pubblico che ancora segue Tex. Un confronto diretto tra me e lui segnerebbe impietosamente la mia sconfitta, perché lui ha saputo creare un mondo grazie al suo segno che con pochi tratti modellava la materia.
Io appartengo ad un’altra generazione. Cresciuto anche con il segno di Curt Swan (Superman), Al Williamson (Agente X9), Hermann (Comanche) e tanti altri maestri che sono stati e sono ancora dei punti di riferimento. Era inevitabile che il mio segno fosse diverso nell’interpretare il west di Tex.
Ma so che i nostri lettori capiscono e comprendono questa differenza e leggono Tex con il cuore, trovandoci, sotto al segno delle copertine, il loro caro, vecchio ranger che tanto hanno amato.
Con tutti i vari impegni mensili che hai, quando riesci a trovare il tempo per mettere mano al tuo Texone? Da quanto tempo ci lavori e quando pensi che riuscirai a concluderlo?
Domanda dalla risposta difficile. Appena posso torno sul Texone e penso, Terza Guerra Mondiale permettendo, che il 2017 possa essere l’anno buono.
Nel 2006 hai disegnato anche i supereroi della Marvel in Devil & Capitan America – doppia morte (testi di Tito Faraci). Ti sei cimentato con i personaggi su cui ha lavorato un autore che ammiri e a cui ti ispiri: Alex Ross. Quali sono i tuoi altri fumettisti di riferimento ai quali guardi nel tuo lavoro?
Grazie a Marco Foderà, bravissimo collega, persona squisita e gran “divulgatore” di disegni tramite la sua pagina Facebook, ho conosciuto tanti altri colleghi che sono diventati nuovi punti di riferimento, aggiungendosi a tutti quelli che avevo già. Elencarli tutti è praticamente impossibile, ma i miei colleghi italiani e stranieri sono avvisati: io studio tutti perché da ognuno c’è sempre da imparare qualcosa.
Alex Ross è senza dubbio un punto di riferimento nel disegno realistico nel campo della nona arte, ma non il solo. Da dove e quando è nata la propensione del tuo stile verso una tecnica illustrativa molto legata al realismo e più distante invece dalla sintesi?
Viene dal “lettore” che è dentro di me, che ordina al “disegnatore” di accontentarlo con un disegno realistico Q.B.: quanto basta.
Non troppo fotografico però: si deve poter vedere che è un disegno, ma che sia il più naturale possibile perché il lettore che è in me, quando vede una cosa che sembra vera, ci crede di più.
E si diverte a leggerla. Con questo ammiro tantissimo tutti coloro che hanno il dono della sintesi e sanno con pochi tratti evocare interi universi. Ci “vado a scuola” e cerco di imparare anch’io.
Quali sono gli strumenti di cui ti avvali nel tuo lavoro: che tipo di carta, matite, pennini o pennelli usi? Fai uso anche del computer?
Il computer solo per scansionare le prove colore e gli schizzi, per il resto rimango un dinosauro attaccato ai pennini, pennelli e carta.
Qual è l’ultimo fumetto che hai letto e se dovessi consigliarne uno ai nostri lettori quale sarebbe?
Leggo e rileggo con piacere Unastoria di Gipi. Attingere dal sacro fuoco di un genio fa sempre bene. Il che è anche un consiglio.
Grazie per questa bella chiacchierata Claudio e ancora di più grazie per gli splendidi schizzi e immagini inediti che ci hai regalato!
Intervista realizzata via mail e conclusa il 20/11/2015
in fotografia le alte luci – in inglese highlights – sono quelle zone della scena che, a causa dell’elevato contrasto, tendono a bruciare la propria porzione di foto: esempio tipico di alta luce quasi perenne è il sole ↩