Lo chiamavano Jeeg robot: cuore, acciaio e ironia

Lo chiamavano Jeeg robot: cuore, acciaio e ironia

"Lo chiamavano Jeeg Robot": il primo credibile supereroe del cinema italiano è il protagonista del sorprendente esordio del regista Gabriele Mainetti.

Si chiama Vincent Ceccotti ed è un delinquente da due soldi che vive a New York, nel quartiere malfamato del Bronx. Sbarca il lunario con espedienti e furtarelli e, nel corso di una queste rapine, braccato dai poliziotti trova rifugio sopra una chiatta ormeggiata sul fiume Hudson. Pur di sfuggire alla cattura, si getta nelle acque melmose, dove il suo corpo entra in contatto con sostanze radioattive fuoriuscite da alcuni misteriosi fusti… Vincent acquisisce poteri sovrumani e la sua vita cambia per sempre.

jeeg1bEcco, ora sostituite “Vincent” con “Enzo”, “New York” con “Roma” e soprattutto il “Bronx” con “Tor Bella Monaca” e, invece dell’ennesimo film o fumetto di supereroi made in USA, avrete Lo chiamavano Jeeg Robot, la sorprendente opera prima del regista Gabriele Mainetti, in uscita nelle sale cinematografiche italiane dal prossimo 25 febbraio.

E se l’idea di domiciliare Superman all’interno del Grande Raccordo Anulare può sembrarvi quasi una parodia dell’imperante, chiassosa, sagra Hollywoodiana di supertizi Marvel e DC Comics, basteranno i primi dieci minuti del film a convincervi che invece, stavolta, “è tutto vero”.

Siamo in Italia, nel 2015, e in una periferia romana dismessa e desolata – che potrebbe essere anche Scampia a Napoli, Zen a Palermo, Quarto Oggiaro a Milano – è appena nato, misteriosamente, un superuomo.

“Corri ragazzo laggiù…”

Tutto è straordinariamente (in)credibile nella vicenda di questo “Superman di borgata” interpretato da un dolente, umanissimo, Claudio Santamaria. Dove in va messo tra parentesi, perché gli autori – regista, sceneggiatori, attori… – sono riusciti nell’impresa, rara per il cinema di casa nostra, di costruire un convincente racconto di genere privo di snobismi o manierismi, di calare il mito superomistico nella nostra realtà, senza snaturarne l’originale sense of wonder.

Heeg Robot Claudio Santamaria

C’è una piccola scena emblematica all’inizio della storia – compare anche in uno dei trailer del film – in cui il protagonista, per misurare i suoi nuovi poteri, sradica un termosifone e l’appallottola. Certo, Mainetti avrebbe potuto mettere in scena manifestazioni ben più eclatanti di superomismo, ma è chiara qui la scelta espressiva di far emergere lo straordinario dall’ordinario, in un contesto vicino all’esperienza quotidiana di ciascuno di noi.

“Corri e va’ per la Terra”

In quest’ottica, se dobbiamo trovare un preciso antecedente cinematografico a Lo chiamavano Jeeg Robot, più che alla pletora di supercomics gigioni di cui ci sta inondando la Marvel oggi, dovremmo guardare a Unbreakable – Il predestinato, pellicola di M. Night Shyamalan che nel 2000 ha proposto una cupa e al tempo stesso appassionata revisione del mito del supereroe.

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Avete presente quant’è attenta la faccia di un bambino piccolo che ascolta la sua fiaba preferita? Non c’è niente di più serio di un mito fantastico. E credere al mito, credere al genere, significa stare alla sue regole. In fondo è la lezione di Sergio Leone: un autore anch’esso capace di reinventare a casa nostra un genere – il western – considerato, fino a quel momento, esclusiva di Hollywood:

“Il cinema deve essere spettacolo, è questo che il pubblico vuole. E per me lo spettacolo più bello è quello del mito. Il cinema è mito.”

Mainetti e soci riescono a farci credere al mito perché sono i primi a crederci in termini drammaturgici.

“Senza paura sempre lotterà”

Da questa impostazione deriva la costruzione del percorso del protagonista alla scoperta delle sue nuove facoltà come tappe del fatidico viaggio del (super)eroe che, da Joseph Campbell a Christopher Nolan, passando per Stan Lee, Frank Miller e Alan Moore, abbiamo imparato a riconoscere e amare in oltre settant’anni di fumetti, film e serial.

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Acquisizione dei poteri, doppia identità, costume, “tallone d’achille”, “kickside” e “villain”… Gli stilemi del superomismo vengono rivisitati ora con ironia, ora con partecipazione nella calibrata e asciutta sceneggiatura di Nicola Guaglianone e Menotti (vecchia, cara, conoscenza per noi fumettofili).

Vale la pena citare, in particolare, una folgorante battuta del cattivo della storia – lo “Zingaro” (portato sulla scena dal bravissimo Luca Marinelli) – quando chiede conto all’eroe dei suoi poteri:

“T’ha mozzicato un ragno? Un pipistrello? Sei cascato da n’artro pianeta?”

Meta-domanda che in bocca al villain, grottesco “tronista” televisivo votato alla malavita di borgata, sancisce la capacità del racconto di appropriarsi degli stilemi del genere per ri-generarli in qualcosa di nuovo, soprattutto in qualcosa di autentico.

Lo chiamavano Jeeg Robot scene

“Tu che puoi diventare Jeeg…”

Non è un caso che il film si apra con un imponente volo della camera dall’alto sulla Roma “da cartolina” del Colosseo, della Cupola di San Pietro, dei ponti sul Tevere, delle piazze e dei palazzi antichi, per poi planare e stringere sul protagonista. Da quel momento, la cinepresa diventa l’ombra dell’eroe nel suo viaggio in un’altra realtà, reietta e rimossa. Nel cambio di passo e di scenario, Mainetti definisce la poetica del film, l’idea di mettere insieme citazioni di Go Nagai e Berthold Brecht, l’epica ironia di Quentin Tarantino e il pedinamento del personaggio di Cesare Zavattini.

E se il richiamo a uno dei padri del neorealismo sembrerà eccessivo a qualcuno, ricordiamo sommessamente che lo sceneggiatore di Ladri di biciclette è anche l’autore di intense storie fantastiche quali Miracolo a Milano, Il giudizio universale, nonché di un fumetto memorabile, Saturno contro la Terra. Accadeva prima che il fantastico diventasse in Italia sinonimo di produzione e cultura di “Serie B”.

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Per anni ci hanno detto che mancavano i mezzi per produrre quella “sospensione dell’incredulità” connaturata a certi generi. Era davvero quello il problema? Certo, Lo chiamavano Jeeg Robot vanta una post produzione digitale, seppure lontana dai fasti di Hollywood, di sobria qualità. Ma questo, per paradosso, è un merito quasi marginale.

La qualità migliore di questo film, la sua grande (super)bellezza cinematografica, sta soprattutto nel dimostrare come una storia di genere (super eroico, poliziesco, o western che sia) possa e debba funzionare, prima ancora che con gli effetti speciali, con gli affetti speciali che innesca nello spettatore.

Enzo Ceccotti diventa agli occhi del pubblico supereroe credibile (e memorabile), non tanto mentre esercita quella o quell’altra abilità sovrumana, quanto invece perché arriva a riscattare la sua dignità umana.

Abbiamo parlato di:
Lo chiamavano Jeeg Robot
Regia di Gabriele Mainetti
Sceneggiatura: Nicola Guaglianone, Menotti
Casa di produzione: Goon Films, Rai Cinema

Distribuzione (Italia) Lucky Red – Nelle sale: dal 25 febbraio 2016

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