Nelle giornate di lunedì 21 e 28 settembre 2015 ho incontrato Pasquale “Squaz” Todisco a casa sua. Avevo in mente da tempo di condurre con lui una lunga intervista, che ripercorresse tutta la sua carriera di fumettista. Ci siamo quindi presi tutto il tempo, abbiamo sorseggiato delle tisane alla cannella, e ci siamo dedicati a una delle facoltà che piacciono di più all’essere umano, il racconto. In questo caso, il racconto di un pezzo di vita, quella di Squaz, ha seguito cronologicamente la pubblicazione dei suoi lavori, ma ci ha offerto anche l’opportunità di aprirci a diverse considerazioni sul ricordo, sul fumetto, sulla società e la creatività.
In esclusiva per LoSpazioBianco.it ne presentiamo una parte, più legata ai suoi ultimi lavori. È possibile leggere tutta l’intervista su ^Sigh^Comics!, dove troverete in coda anche alcune pagine inedite di un fumetto al momento non completato.
Squaz: fumettista e illustratore nato a Taranto nel 1970, ha collaborato con alcune delle maggiori riviste italiane (XL di Repubblica, Frigidaire, Rolling Stone, Inguine Ma(h)gazine, Il Male, Linus, Internazionale, La Lettura). Ha realizzato disegni e copertine per Feltrinelli, Yoox.com e Cohn&Wolfe, e per vari musicisti tra i quali Tsigoti, Daniele Sepe e Caparezza (oltre alla testata per la precedente versione del nostro sito!).
È autore di graphic-novels come Pandemonio (su testi di Gianluca Morozzi), Minus Habens, Dimmi la verità, Macchina Suprema (in collaborazione con Gianluca Costantini e Armin Barducci, su testi di Giovanni Barbieri) e L’eredità. Il suo ultimo libro è Tutte le ossessioni di Victor su testi di Davide Calì. Con il collettivo DUMMY ha pubblicato il volume a fumetti Le 5 fasi.
L’ultimo premio
Senti, è notizia di oggi (21 settembre 2015 – ndr) il premio al Treviso Comic Book Festival come miglior sceneggiatura a Davide Calì per Tutte le ossessioni di Victor, che è il libro di cui hai fatto tutta la parte grafica (per la cronaca, vittoria ex-equo con Roberto Recchioni per Dylan Dog). Intanto, era stato candidato il libro? Come funziona?
Il libro era nelle selezioni. Fanno delle selezioni e tra i pochi titoli rimasti scelgono i vincitori.
A microfono spento dicevamo che è un po’ particolare il fatto che sia stato scelto come migliore sceneggiatura il lavoro di Davide che in realtà non nasce come una sceneggiatura vera e propria. Si tratta di una successione di racconti, scritti in forma di monologo, che poi tu hai a tutti gli effetti rielaborato utilizzando il fumetto e il disegno.
Ci ho ballato intorno (ride).
Quello che mi interessava capire con te è come si muovono questi concetti, ovvero riconoscere un premio a qualcosa che è tutt’altro, in realtà, come origine. È come se non venisse tenuto presente il tuo lavoro di sceneggiatura.
Esatto. Questo credo che sia un limite. Nel senso che certe categorie sono applicabili a certi tipi di fumetti e ad altri no. Se parliamo di Bonelli è molto più semplice fare una distinzione di questo tipo, perché c’è già di partenza una distinzione tra chi sceneggia e chi disegna.
E poi perché le sceneggiature sono molto dettagliate.
Si. Qui invece c’era la massima libertà di interpretazione, anche nella caratterizzazione dei personaggi. Non ho avuto alcun tipo di indicazione.
Non avevi descrizioni a priori, contestualizzazioni dei personaggi…
No, tutto quello che avevo era il testo. Quello che c’era nel testo era quello da cui sono partito.
In senso tecnico, quindi, non esisteva una sceneggiatura? È stato tutto un lavoro che hai realizzato tu? Avrebbe avuto più senso che come sceneggiatura veniste premiati insieme, quindi?
Da un punto di vista strettamente fumettistico, sì. È difficile però dividere in modo netto dov’è l’apporto di uno e dov’è l’apporto dell’altro. Già il fatto che in copertina ci sia “Davide Calì, Squaz” viene interpretato normalmente come uno ha fatto una cosa e uno ha fatto l’altra.
Non voglio sembrare troppo polemico. Ma mi interessa capire questo ragionamento sulle categorie, anche perché credo che ti riguardi molto come autore. Dicevo, secondo te alla base c’è una mancanza di conoscenza di come è nato questo progetto, oppure è semplicemente dare per scontato che chi ha fatto i testi abbia fatto tutto il lavoro di sceneggiatura?
Ma non escludo che ci siano tutte e due gli elementi. Io non so esattamente chi ha stabilito le nomination e come si è sviluppato il tutto. Però le premiazioni seguono anche altre logiche che non considerano strettamente la qualità o il linguaggio del fumetto.
Cioè?
Nel senso che si cerca di tenere un certo equilibrio tra diversi prodotti editoriali.
Una questione per certi versi “politica”?
In un certo senso, ma succedono anche inconsciamente, queste cose.
Da un punto di vista simbolico, quindi, guardato in chiave “politica”, il tuo lavoro accanto a quello di Recchioni che cosa può significare per quello che è il mercato editoriale?
Intanto è importante contestualizzare rispetto al festival in cui avvengono le scelte. Quello di Treviso è un festival abbastanza giovane che sta iniziando adesso ad avere una sua identità, in modo da valorizzare gli autori. Loro sono sempre stati attenti al fumetto per certi versi più artistico. In questo senso sorprende quasi di più che abbiano dato un premio a Dylan Dog piuttosto che al nostro lavoro. È un festival giovane, che tiene l’attenzione verso il fumetto diverso da quello seriale. O forse è un sintomo che certe barriere sono ormai un po’ saltate. Nel senso che mi sembra che la famosa diatriba tra fumetto di autore e popolare stia ormai cedendo anche nella mentalità degli addetti ai lavori. Anche il fatto che Recchioni stia chiamando per gli speciali di Dylan Dog tutti autori che non hanno niente a che vedere col fumetto seriale la dice lunga.
E come mai tu non hai ancora in cantiere una storia di Dylan Dog?
Non è che devo averla io in cantiere. Non me l’hanno ancora chiesta (ride).
Ma avresti qualche interesse a lavorare su un personaggio come Dylan Dog? C’è qualche personaggio di casa Bonelli su cui ti piacerebbe lavorare?
Beh Dylan Dog su tutti. È quello su cui mi sentirei più vicino, per forza di cose. È ancora oggi un personaggio atipico del panorama Bonelli.
Entrando un po’ più nel merito di Tutte le ossessioni di Victor, avevamo parlato di Pandemonio, che ha una nascita molto simile a quest’ultimo lavoro. Uno scrittore ti fa avere un testo in forma di racconto. E tu a partire dalla parola scritta realizzi tutto il resto. Il processo è simile. Il metodo di lavoro che hai utilizzato è stato simile o l’esperienza ti ha fatto muovere diversamente?
Come metodo di lavoro è una versione aggiornata di Pandemonio. Per quanto riguarda le scelte, a partire dal colore, che non c’era in Pandemonio, e altre di tipo grafico, sono legate al tipo di testo che mi è arrivato. Davide rispetto a Gianluca ha uno stile di scrittura differente, quindi queste differenze ritornano nel trattamento grafico. La prosa e le tematiche di Davide sono più leggere. Quindi ho cercato di dare sostanza a questa leggerezza, per dar loro vita, nel rispetto della sua intenzione.
Che lavoro hai fatto nel suddividere il testo sui disegni? Lo hai fatto mentre disegnavi, o hai creato una suddivisione prima e poi ha iniziato a lavorarci graficamente?
La sfida sta proprio nel trovare il ritmo giusto tra immagine, disegno e il flusso di coscienza del protagonista. E questo caratterizza molto l’accento del libro. Quando abbiamo presentato il vostro lavoro alle Officine Libra di Monza abbiamo detto che i racconti funzionano anche da soli, letti ad alta voce. E abbiamo fatto questo esperimento e funzionava. Col disegno invece cambiano molti aspetti. Il ritmo, l’accento che viene dato a certe parti in cui mi soffermo di più e altre in cui vado via più veloce.
Sì, sono le scelte registiche.
Questa è sceneggiatura.
Non so, io dico che è regia. Ne modifica il senso. Il mio lavoro è stato di interpretarlo.
Tornando alla tua domanda ho cercato di restituire il ritmo del racconto per come ho letto io i racconti di Davide. Cercavo di mettere l’accento sulle parti che erano secondo me più da valorizzare.
Per esempio all’inizio del racconto a pagina 41, realizzi una vignetta unica che dà molto più spazio al testo.
Io una cosa che ho dovuto correggere strada facendo è che mi sono accorto che usavo troppo le didascalie. E ho quindi introdotto il balloon. Anche per offrire una lettura più piacevole. Perché mettere solo le didascalie, oltre ad avvicinarsi troppo all’illustrazione, annoia anche di più.
E poi si inserisce meglio graficamente.
Sì. Invece nella produzione realizzavo un racconto alla volta e glielo mandavo quando era terminato.
Hai mai avuto considerazioni in merito, ti ha mai chiesto di modificare qualcosa?
No, gli sono sempre piaciuti al primo colpo. Ha sempre visto la versione definitiva dei racconti. Si, ho deciso io poi di lavorarci diversamente, per esempio sul discorso didascalie. Se guardi questo racconto, Le Crepes, è stato uno dei primi che ho realizzato e non ci sono balloons. L’ho tenuta perché comunque mi sembrava che funzionasse. Poi man mano che ho continuato il lavoro ho modificato l’approccio.
Tu lavori molto sui simboli. Per esempio guardando pagina 72 e 73, ci sono una serie di disegni fortemente iconici. Per esempio le silhouette in alto a pagina 72. O il bambino che sta iniziando a nuotare. Che ricerca fai su questi elementi?
Mi piace molto la sintesi. Hanno un gusto molto grafico questi simboli. Volendo sintetizzare molto il tratto, ho cercato di dare il “massimo con il minimo”.
Fai qualche tipo di ricerca o ti vengono spontaneamente queste scelte?
Di solito, spontaneamente.
È qualcosa che hai accumulato nel tempo.
Si, è un gusto che ho.
Però per esempio il piatto a pagina 77 da dove salta fuori?
È la storia in cui rompe per sbaglio uno dei piatti della credenza. È un esempio di quel tipo di piatti che uno potrebbe conservare nella dispensa.
Ma hai fatto qualche tipo di ricerca iconica o hai pescato dalla tua memoria?
Beh, lì ho fatto una ricerca in internet. Anche per le credenze e le sedie. Osservo, ricerco e poi adatto a mio modo. Anche nella pagina degli insetti ho fatto la stessa cosa (pagine 80-81). Davide li cita con il nome scientifico e sono andato a cercarli. Ci sono poi dei giochi visivi. Per esempio le labbra del bambino che saranno poi quelle che mangiano gli insetti.
Fai un lavoro di concettualizzazione, quindi?
Diciamo che mi piace molto giocare. Non sempre sono cose indispensabili alla narrazione. Lo faccio perché sono stimolanti per me.
L’approccio visivo è molto diverso da quello di Pandemonio.
Sì, è molto più pop, più pulito, meno “Burns”.
Ti rappresenta di più, oggi?
No, diciamo che è una sintesi di quello che mi interessava tre anni fa, quando ho iniziato a realizzarlo. È stato l’ultimo pubblicato ma nel mezzo ho realizzato L’Eredità. Victor aveva subito una battuta d’arresto perché non trovavamo un editore interessato. Nel frattempo sono andato avanti con l’altro progetto e finito quello si è sbloccato anche Tutte le ossessioni di Victor.
È stato pubblicato da Diàbolo Edizioni, che è una casa editrice piuttosto giovane.
Sì, è una casa editrice nata in Spagna di cui esiste da poco anche la parte italiana, diciamo.
Come è avvenuto questo incontro?
Davide ha spedito un normalissimo pdf via email e hanno risposto positivamente.
E il lavoro di promozione e sviluppo del progetto come avviene? Che lavoro fa la casa editrice?
Intanto in questo caso loro si sono trovati il lavoro fatto e finito. Il loro intervento editoriale è avvenuto solo a lavoro finito. Hanno solo revisionato e stampato il libro. Ma non sono entrati nel merito delle scelte grafiche o narrative.
E poi cosa succede a un libro come questo, dopo che è stato stampato?
Per Victor ci sono in ballo ancora presentazioni, mostre. Attualmente le mie tavole sono in mostra a Treviso. Abbiamo in cantiere un’altra mostra con delle sorprese, con altri giri di presentazione. Vedremo.
Ma quindi la scelta di Treviso di esporre le tue tavole come è avvenuta?
È nata dalla decisione del festival con l’editore. Non so esattamente chi l’abbia proposta per primo. Però penso che loro avessero un interesse per il libro visto che lo avevano tra le nomination. Quindi il fatto di non aver vinto il premio ma che ci fossero le mie tavole esposte è stato comunque un bel riconoscimento.
E infatti le mie considerazioni precedenti sulla sceneggiatura erano più una riflessione tecnica che altro.
Io questo premio l’ho interpretato comunque come un premio a entrambi.
Calì lavora tanto in Francia.
Lavora tanto. Punto. (ride)
Esiste un’edizione francese?
Si. La Diàbolo l’ha pubblicato contemporaneamente in tre paesi. Francia, Spagna e Italia.
E come sta andando negli altri paesi?
Al momento, sappiamo che abbiamo esaurito la metà delle tirature di tutte e tre i paesi. Dalla critica, in Spagna abbiamo avuto molti riscontri, alcuni molto lusinghieri, oppure alcuni con considerazioni critiche, chi ha trovato la prima parte più interessante della seconda, ecc. Ma nel complesso sembra che incontri il loro gusto. I francesi non si sono minimamente espressi. Credo che per il gusto francese sia difficile che venga apprezzato.
Ma per il tipo di tratto che hai o per le tematiche?
Penso più graficamente. Non è un tipo di segno che è molto apprezzato in Francia. Tra l’altro avevo già avuto questa esperienza francese con una piccola casa editrice che si chiamava La Boite d’Aluminium alla quale avevo venduto Entertainment con l’aggiunta di altre storie brevi, una nuova copertina e un nuovo titolo Belli Dentro. Racconti brevi con tematiche aggressive. E ai francesi non era piaciuto per nulla. Uno aveva scritto “io non capisco questo umorismo”. Non l’avevano minimamente apprezzato. Da quanto ho capito, credo abbiano difficoltà ad accogliere anche le raccolte di racconti brevi. Oppure sono solo io che non gli piaccio!
Tutte le ossessioni di Victor e quella versione di Entertainment sono gli unici tuoi lavori pubblicati all’estero?
Si.
E gli altri libri non li hai mai proposti all’estero?
Finora no.
Per concludere su Tutte le ossessioni di Victor, ci racconti come hai lavorato sul colore?
Io sul colore ci ho lavorato tanto con l’illustrazione. Inoltre i racconti per XL erano a colori. Durante la lavorazione di Pandemonio lavoravo su Rolling Stones e su XL contemporaneamente. Erano rivali e tenevo i piedi in due scarpe!! (ride) Ed erano a colori. Per Tutte le ossessioni di Victor volevo un colore e delle immagini molto pulite, quindi ho usato un colore grafico, in digitale. Che poi, i fumetti li ho quasi sempre colorati in digitale…
Avevi qualche riferimento in testa?
No. Non ti saprei dire. Volevo un approccio molto pop, ma non trovo un autore che lo rappresenti meglio.
Cosa intendi per colore pop?
Una colorazione molto sintetica, piatta. Però con tonalità molto calde. Un uso artificiale dei colori mantenendo l’omogeneità tra un racconto e l’altro, anche perché il libro era già molto frammentario.
Le 5 fasi e il gruppo Dummy
Parliamo de Le cinque fasi. Lavoro realizzato con il gruppo dei Dummy.
Alberto Ponticelli è stato il promotore inziale di questo lavoro. Ha avuto l’idea portante, ci ha raccolti e poi abbiamo iniziato a confrontarci su internet. Non avevamo neppure una grande confidenza. Dal punto di vista professionale eravamo tutti molto distanti allora.
Quello che vi accomuna è la voce molto personale e decisa, eppure molto eterogenea. Ha scelto tutti Alberto?
In parte sì. Un legame era stato lo Shok Studio. All’inizio dovevano essere Alberto, Ausonia, Akab e Michele Salvador. L’idea di coinvolgere me è stata successiva. Michele è sparito, Ausonia ha deciso di voler fare solo la parte grafica e di non disegnare a fumetti. Hanno quindi cercato altre collaborazioni. È venuto fuori Officina Infernale e poi io. Per ultimo Tiziano Angri.
L’idea di fondo del libro è trattare le cinque fasi del lutto con cinque voci e autori diversi. Come avete lavorato poi sul trattamento per dargli coerenza e un filo conduttore.
Noi sapevamo già che Ausonia avrebbe dato continuità trattando il tutto come un viaggio in treno, e che ogni storia era la fermata a una stazione diversa. L’idea del viaggio da una stazione all’altra.
Che riprende l’idea del lutto come viaggio interiore.
Certo. Però era anche un escamotage narrativo per giustificare la diversità di stile e di voci. Abbiamo deciso di usare un unico personaggio, N., con lo stesso nome ma con facce diverse in ogni storia. Ognuno ha trattato il tema come voleva.
La scelta delle fasi chi l’ha decisa?
Le abbiamo decise insieme. Ognuno ha dato la sua preferenza. Sulla depressione Akab era quello che aveva più esperienza di tutti. (risate). Non c’è stata partita. Ha detto, questa è mia. Ciao. Anche Officina Infernale sulla rabbia era ovvio. Quindi le più difficili sono state il patteggiamento (la mia) e l’accettazione (di Tiziano Angri).
Come hai lavorato sul patteggiamento?
Scendere a patti. È forse quella più ambigua. C’è la presa di coscienza del problema però non la definitiva realizzazione. Continui quindi a fregare te stesso. Cosa in cui tra l’altro mi riconosco piuttosto bene (risate). Quindi ho detto questa mi assomiglia abbastanza. In realtà non ti saprei spiegare. Perché la mia non è neanche una storia. La storia non è l’aspetto cruciale del tutto. Lo è di più l’aspetto grafico, l’atmosfera. Forse per tutti i racconti è lo stesso. Solo Akab credo abbia trovato più coerenza tra parte visiva e racconto. Ma anche lì non ha raccontato una storia. Ha raccontato un vissuto. Io ho pensato di fare una cosa molto destrutturata, per associazioni di idee. C’è un personaggio che ha perso tutto, il lavoro, la donna, la vista. Facendo l’architetto la sua carriera è finita. Metaforicamente perde la capacità di progettare il futuro. Quindi nella storia il personaggio tenta un’ultima carta prima di lasciar andare tutto e passare attraverso la depressione e cerca di progettare un grosso progetto da cieco.
Il patteggiamento è un po’ quella fase in cui cerchi di superare il lutto senza però esserti concesso la tristezza, il riconoscimento del dolore che ne consegue. È comunque una compensazione, una fuga. Ma prima o poi la tristezza arriva e quindi è un tentativo fallimentare.
Esatto.
La cosa più rilevante di questo libro è certamente la parte visiva. Anche per come è stato concepito nel formato. Un prodotto di qualità, di grande formato, con carta patinata. Una scelta anche rischiosa, se vogliamo, in termini di investimento e di vendita. Ogni copia costava sui 30 euro. È un libro che è andato quasi esaurito. Ne avete voi alcune copie ma l’editore l’ha esaurito. Anche questo libro, quindi, muore lì? Non dovrebbe rimanere in stampa?
Sì. Ci sono sicuramente molte richieste. Le copie che abbiamo noi e che portiamo alle varie presentazioni vengono spesso richieste. Ci confrontiamo come collettivo con aspettative e desideri diversi. Alcuni tra noi dicono basta, il libro è finito, ha completato il suo ciclo, ha esaurito la sua funzione. Io invece vorrei tentare una ripubblicazione.
Anche in altro formato, volendo.
Si, anche se rischia di snaturare il progetto. Ma noi siamo in sei e ognuno ha la propria idea. Finora comunque i pochi tentativi fatti non hanno trovato editori interessati in Italia. Potrebbe essere interessante provare all’estero.
Infatti. Io lo vedo come un prodotto che funzionerebbe molto negli Stati Uniti.
Anche se è fin troppo artistico forse.
L’eredità come nuovo punto di partenza
Bene. Adesso veniamo al 2014, con la pubblicazione di L’Eredità. L’ultimo libro che hai realizzato.
Sì. L’Eredità l’ho fatto in mezzo al lavoro di Victor. Mi ha portato via un anno circa di lavoro, non particolarmente intenso.
L’Eredità segna un passaggio importante nel trattamento della sceneggiatura, perché c’è un uso più diretto dei dialoghi e della recitazione dei personaggi. Inoltre riprendi una tematica autobiografica come nel precedente tuo libro Dimmi la verità, ma con un approccio completamente diverso. Come ci hai lavorato?
L’autobiografia è un pretesto. Ho cercato di creare un archetipo del rapporto madre-figlio. In particolare quando un figlio si allontana da casa per lavorare altrove.
E quindi metti in scena il contrasto tra una cultura folkloristica, tipicamente del sud, e un altro universo.
L’universo di chi va via di casa da giovane e non si riconosce più in quelle origini, perché ha fatto e vissuto altre cose. C’è il contrasto tra un figlio anche molto scettico, che non ha lavoro, ha debiti, minacciato dagli strozzini, e una mamma che vorrebbe trasmettergli la sua eredità che lui vede come un tornare indietro.
Mi interessa molto l’uso che fai delle maschere. Ogni personaggio ha sul viso una maschera.
Sì, volevo sottolineare da subito il distanziamento dall’autobiografia tradizionale. Puoi vederci lì dentro me e mia mamma, ma con la maschera è evidente che vorrei renderli dei personaggi da commedia napoletana.
Quanto questa scelta è anche legata al tuo divertimento nel disegnare?
Io mi diverto molto a disegnare le maschere. Tra l’altro quella di Pulcinella è un tormentone. Se mi devo rappresentare lo faccio così. Su Pandemonio mi ero rappresentato così. Su XL ho fatto una storia in cui parlo di un mio amico, e c’è la maschera.
Le altre maschere cosa sono?
Sono delle specie di Pierrot. Mi sono ispirato a delle spillette che avevo fatto in quel modo.
La storia è scandita dalle portate. Abbiamo gli antipasti, i primi, i secondi e contorni, dolci e liquori. Illustrate da te in stile molto tradizionale, ci sono le vere ricette di famiglia. Come le hai recuperate?
Sono quelle di mia madre. Ha il suo ricettario. Cose segrete, di famiglia. A ogni ricetta c’è poi magari collegata una storia familiare, che collega le generazioni.
Il cibo caratterizza molto la propria cultura di origine.
Sì, e poi mi interessava molto il rapporto tra cibo e narrazione. Ogni ricetta porta con sé il racconto di quella specifica famiglia. Sono una sorta di passaparola tra i fornelli. Volevo usare le ricette come altro tipo di narrazione e metterlo a fumetti.
Come metti insieme il fatto che l’eredità con cui si confronta il protagonista è di tipo molto ingombrante come per il cibo. Anche quest’ultima è una cosa di cui si sente eccessivamente investito, o secondo te col cibo è più facile far passare il legame con la propria appartenenza del passato?
Il problema del personaggio è che non riconosce l’eredità come una sua reale eredità. Lui non gli dà valore.
È come se avesse perso le radici. E quindi il cibo per come lo hai trattato è un modo per il personaggio per ritrovare quelle radici? O è solo un pretesto narrativo?
Io volevo rappresentare il fatto che nel momento in cui la famigerata crisi economica ha messo tutti con le spalle al muro, magari può essere utile fare un passo indietro per vedere le cose con un occhio diverso, e trovare soluzioni più efficaci. La madre fa quindi questo tentativo di dono. Il cibo è condivisione. È questo che il personaggio rifiuta. Oltre all’apparato religioso e folkloristico che gli sembra inaccettabile.
È anche un libro più immediato degli altri, come linguaggio?
Sì. il mercato del fumetto è cambiato molto. E così l’idea di sperimentazione. Ci sono ormai pochi che fanno fumetto di sperimentazione. Per cui io ho cercato di trovare un’idea che fosse piacevole per me e avesse qualche chance in più verso il lettori.
Un passaggio, quindi nella tua carriera, visto che fino al libro precedente questo problema non te lo eri posto?
Si.
E questo solo per mere questioni di vendita, o anche perché vuoi parlare a più persone?
Ma sì, per entrambe le ragioni. Forse ho iniziato anche a guardarmi intorno, vedere tanti che raccolgono un po’ i frutti di anni di lavoro e tu no. E allora mi sono detto forse è bene che inizi a raccogliere qualcosa in più anche io. Mi viene l’esempio di Iggy Pop, quando il punk ha iniziato a fare tanti soldi, lui è arrivato, ha iniziato a riproporre se stesso per dire, guardate che voi venite da qui. Ora mi ripiglio quello che era mio. E non tanto per competizione. Per un motivo personale. Non riguarda tanto il confronto con gli altri. E quindi ho deciso di essere un po’ più accessibile, pur facendo un lavoro eccentrico. Ha una collocazione comunque non scontata. Ho quindi cercato di salvare capra e cavoli. (risate)
Senti, una volta ne avevamo parlato personalmente in occasione di una tua presentazione. Io ho spesso avuto l’impressione che ci sia una sorta di autodifesa nel voler veramente arrivare al cuore di quella che potrebbe essere la tua voce. Le tue sperimentazioni a volte sembra che siano una divagazione per sfuggire un po’ a quello che veramente sei e vorresti esprimere. Fai anche una ricerca molto intellettualistica. Prendi distanza da molte forme consolidate e tradizionali. Nell’insieme, guardare tutto ciò da una particolare prospettiva, può sembrare un allontanarsi dal cuore di quello che senti.
È comunque una modalità che mi rappresenta molto!
Ecco. Da lettore è come se ogni volta mi sfuggissi. Se non volessi entrare in sintonia ed empatia pienamente con la tua voce. E ogni volta, davanti a un tuo lavoro, penso, OK ci siamo, adesso Squaz fai il salto successivo, arriva dove davvero vuoi. Al cuore. È una provocazione un po’ che ti faccio.
Ah, qui siamo tra provocatori! (ride)
Io mi sono chiesto spesso qual è il cuore della faccenda. Il racconto? Mettersi a nudo pienamente? Ma dove sta scritto che in un fumetto devi metterti davvero a nudo? E qual è diciamo, il modo di fare fumetti nel quale qualcuno davvero si realizza?
Io penso che questo sia frutto della mia reazione a qualcosa che c’è, e di cui riconosco l’esistenza. Per questo mi considero eccentrico, più che rivoluzionario. Per me il modo di fare fumetti per così dire “standard”, la graphic novel, che è vero che raccoglie di tutto, però è una brutta bestia. Qualcosa in cui non so se ci voglio entrare. È un modo di fare fumetto, e parlo di linguaggio non di lettori, che ho sempre trovato un po’ una forzatura. Ma già solo il fatto del libro lungo a fumetti lo trovo poco connaturato all’idea di fumetto. Per me il fumetto è sintesi, e dovrebbe essere sintetico anche nel numero di pagine. Averlo allungato tanto vuol dire anche aver riconosciuto la superiorità della letteratura sulle immagini. Ma magari cambio idea tra mezz’ora.
Sì. Dipende molto dai contenuti. È chiaro che se pensi a un fumetto che ha avuto molta fortuna negli USA come Blankets di Craig Thomson…
Che io ho odiato…
… è un fumetto che poteva essere raccontato con la metà delle pagine. Per altri lavori il numero di tavole appare persino poco rispetto a quello che il tema poteva richiedere. Mi viene in mente l’ultimo lavoro di Tiziano Angri (L’unica voce, ed. Coconino) dove quando arrivi all’ultima tavola ti sorprendi e pensi, ma come, me lo chiudi qui, così? Tanto per usare due estremi.
Sì, ma non credo che questo abbia a che fare strettamente con il fumetto. Anche in letteratura hai il Circolo Pickwick o Dostoviesky…
Infatti. Perché in fondo credo che il punto non sia questo. Non è solo un ragionamento sulla forma, ma sui contenuti.
Per me invece è un fatto di linguaggio. Il fumetto per me dovrebbe essere in forma breve.
E su questo ti seguo. Ma quello dove io ti trovo un po’ sfuggente, non è tanto sulla forma che usi, ma sui contenuti. È come se divagassi. Mi chiedo, ma qual è il tuo punto di vista reale sulle cose di cui ci parli?
Ma tu ti fai questa domanda sui Monty Python, per esempio?
Si, ma io non ti collegherei ai Monty Python. Perché loro hanno una capacità di ironizzare senza tralasciare il loro punto di vista sulle cose. Le loro posizioni arrivano molto chiaramente. A volte è come se tu non prendessi posizione su certi contenuti.
Ma io non lo so. Credevo di sì. In Dimmi la verità in vari punti mi sembra di farlo. Anche in Minus Habens.
Ecco, citi un buon esempio. In Dimmi la verità prendi posizione ma nel modo meno diretto possibile. Dove chiedi sempre molto al lettore.
Ma questo è buono!
Certo, ma io non sto dicendo che stai facendo male. Non sto dicendo che stai sbagliando. Dico solo che c’è il rischio di un’eccessiva distanza tra quello che è poi il tuo pensiero e quello che arriva al lettore. Se tu al lettore chiedi troppo, rischi che lui non abbia il tempo, la voglia e la forza per arrivarci. L’Eredità invece credo abbia più equilibrio tra quello che hai in mente e quello che arriva al lettore.
L’Eredità e Minus Habens sono quelli che vengono più incontro a chi mi legge. Io non mi sono mai posto il problema di essere sfuggente. Anche perché la mia ricerca è il tentativo di spiazzarti. Come il prestigiatore che cerca di sorprenderti. Per questo ci sono sicuramente dei rischi. Non avevo considerato quello che stai dicendo tu. Il rischio forse è quello di stufare, perché ti aspetti sempre la sorpresa.
Oppure per paradosso viene quasi da dire, OK, smettila di giocare, raccontami una storia vera!
Ho capito quello che dici tu. Ma mi chiedo perché devo smettere di giocare? Il gioco non è una cosa che ha un valore?
Sì, a meno che il gioco non sia un divagare intorno alle cose. Capisci? Questo è il rischio che io ci vedo. Gira intorno alle cose, ma non arriva al cuore della questione.
Non ci ho mai pensato in questi termini. Io non voglio arrivare a nessun cuore. Io non ho nessuna visione da difendere.
Non intendo difendere.
O proporre. E comunque oggi si tratta anche di difendere.
Quindi hai qualcosa da difendere?
Certo che sì. Ma non voglio essere portavoce di qualcosa. Non attraverso le mie opere.
Io vedo che fai un’operazione che è intellettualmente forte. Hai una posizione da difendere chiara: non essere scontato, essere stimolante, chiedere al lettore di metterci il suo, che è un aspetto genetico del fumetto. Ci vedo questo progetto di sfida intellettuale. Forse manca la parte più viscerale, emozionale. Che comunque fa parte del nostro mondo. E che quindi potrebbe rivelare un’altra parte importante del tuo modo di vedere o sentire le cose.
Non so se ho una risposta da dare. È anche carattere. D’altra parte mi considero una persona molto razionale, ma come tu ben sai, più sei razionale più hai un inconscio che ti minaccia.
Ma infatti, per esempio, il tuo modo di utilizzare i simboli parla molto alla dimensione inconscia. È come se alla fine accedessi a quella dimensione, primaria, energetica, non attraverso la narrazione in sé, ma attraverso i simboli che usi.
Io cerco di contenerli, i simboli. Avevo letto una volta una cosa interessante, dove si diceva che il pericolo maggiore per un artista è quello di ritrovarsi a secco, senza più demoni. Ma anche l’altro estremo ti mangia, puoi essere divorato dall’inconscio. Quindi io li tengo sotto sorveglianza speciale, i simboli.
Stavo studiando i tarocchi di Salvador Dalì, che è stato tangenziale al surrealismo. Un lavoro che lui ha fatto su commissione, per prendere un sacco di soldi. Anche se il lavoro è molto interessante. E pensavo che al di là del fatto che lo stile sia diverso dai surrealisti, hai qualcosa che si avvicina a quel modo di pensare la narrazione e l’arte. Tra l’altro con questo concetto che Breton esprimeva nel manifesto del surrealismo: non è più un problema di trovare codici che fanno accedere all’inconscio al conscio. L’arte non è più la manifestazione dell’inconscio nel conscio, ma il contrario. È l’affermazione dell’inconscio sul conscio. I tuoi lavori mi ricordano molto questo processo.
Io con il surreale in effetti vado a nozze.
E mi chiedo se oggi come oggi non sia un eccesso di presa di distanza dalla realtà.
No, io dico di no. Anche perché sono fresco di lettura di questo libro di Miguel Brieva (Eris Edizioni), che si chiama Cosa mi sta accadendo, è una sorta di diario, dove il protagonista giorno per giorno si ritrova ad accedere a una dimensione sempre più surreale. È un’escalation così. E la quarta di copertina recita qualcosa tipo, “Nel momento in cui non c’è più niente da fare, l’unica cosa possibile è squarciare il velo della realtà e accedere a questo tesoro nascosto”.
Concordo. Che è un po’ anche il cuore di un certo tipo di ricerca esoterica.
Lui ne fa anche un discorso politico, sul capitale. Tu dici che gioco, ma in realtà per me è anche un discorso sul capitale. Perché se io ci entro dentro finisco in meccanismi che temo che non mi appartengono più.
Ecco, questo timore arriva chiaramente al lettore. Noi siamo parte di un sistema capitalistico. Esserne fuori è difficile.
Appunto. E torniamo al fatto di essere eccentrico. È un po’ una forma per preservarmi.
Intervista condotta dal vivo lunedì 21 e 28 settembre 2015.