Il Sud America è l’ombra junghiana degli Stati Uniti, il mostro perverso della loro politica imperialista. Ci sono povertà dettate dalla terra e povertà dettate dall’uomo. Il Cile, il Perù, il Messico e anche l’Argentina sono ridotte a carcasse putrescenti di povertà e rabbia grazie allo sfruttamento degli Usa, a governi quanto meno accondiscendenti, a rivoluzioni volute dall’alto. Nessun complesso del complotto, nessuna dietrologia. Basta prendere in mano l’inizio del famoso ciclo andino di Manuel Scorza, Rulli di tamburo per Rancas, per osservare con impotenza l’espropriazione delle terre dei contadini ad opera delle multinazionali dell’allevamento, la distruzione di una civiltà orgogliosa, letteralmente accerchiata da recinti di acciaio, emblema dell’isolamento. Peggio dei muri, dei quali la storia sembra non poter fare a meno. Scorza, con l’ironia e l’intelligenza che lo contraddistingueva, lasciava che gli avvenimenti e le sconfitte si presentassero a noi lettori attraverso gli sforzi e le sofferenze e le parole e le credenze delle piccole persone invisibili che abitavano il Perù negli anni ’50. Se la povertà è un destino per alcune civiltà, anche nel XXI secolo, non possiamo dimenticare che di quello stesso destino si possono conoscere le origini e le leggende. Si può capire e indignarsi.
Robin Wood, Paraguaiano di nascita, trasferitosi giovanissimo in Argentina e oggi cittadino del mondo, ha costruito anche lui la sua testimonianza con gli splendidi racconti di Mojado, disegnati dall’argentino Carlos Enrique Vogt.
Non siamo più nella letteratura, ma nel fumetto. Il fratellino povero e bistrattato dell’arte alza la testa in quest’opera straordinaria, dove la semplicità dei mezzi si adopera per mostrare la complessa parabola di vita di un ragazzino messicano, povero e orfano.
Sembra possibile immaginare due poveri ragazzi latinoamericani degli anni ’80 (Wood ) seduti a un tavolo di legno a scrivere – Wood – e a disegnare – Vogt – questi racconti esemplari, all’ombra di una pianta mossa dal vento, al riparo dal sole cocente, tra la polvere grigia e il cielo blu. Ma è solo immaginazione. Perché in realtà Wood aveva già raggiunto i quarant’anni quando inizio’ quest’opera ed era già un autore affermato, importantissimo in Sud America e impegnato a dare vita a centinaia di storie (Helena, Savarese, Dago, Gilgamesh, ecc.). Eppure, l’asciuttezza di questi racconti, accentuata dal tratto semplice ed efficace di Vogt, ci svelano uno dei segreti più importanti di questa forma di comunicazione: il fumetto è un’arte “povera”, per la quale bastano dei fogli e una matita. Troppo spesso siamo portati a dimenticarci di questo importante elemento, iscritto nel dna stesso del medium fumetto. Cio’ non toglie, naturalmente, che il fumetto possa poi abbracciare numerose altre forme, dalla pittura al digitale, con conseguente sviluppo di mezzi, tecnici ed economici. Ma Wood e Vogt, in Mojado, sembrano volerci riportare indietro, al “centro”. Un centro scomodo, emotivamente instabile, meraviglioso.
In Italia la povertà e la miseria hanno soprattutto il volto degli immigrati nordafricani e dell’Europa dell’est. Negli Stati Uniti, da decenni, hanno il volto degli immigrati dell’America latina. Sono i mojados, i “bagnati”. Ecco la definizione che ne dà Wood nell’ottavo capitolo del volume, con le parole di Hipolito, l’amico arrabbiato e ambizioso del protagonista:
“Davvero pensi di diventare un mojado.. un bagnato? Davvero vuoi fare l’immigrato illegale? … Non puoi diventare legale. Non hai i soldi e la legalità si compra coi soldi. Tu non ne hai e dovrai attraversare la frontiera di notte, dal fiume… e al di là ti daranno lavoro. Ti pagheranno cinque volte meno dei legali, naturalmente… e se qualcuno scoprirà che sei un mojado, dovrai pagarlo per farlo star zitto. Vivrai in una stanza con topi, scarafaggi e altri sette mojados. E non sarai neppure onesto perché sarai illegale”.
È con questa durezza che il protagonista senza nome dei primi sette capitoli (solo un ragazzo) viene battezzato mojado. E con la verità sbattuta in faccia si deve confrontare il lettore.
La maggior parte dei racconti di questo primo volume ha una lunghezza di 12 pagine. Apparentemente brevi, hanno una densità narrativa elevata, grazie alla sobrietà e alla sintesi di Wood e Vogt. Non c’é spazio per il superfluo. Tutto è perfettamente funzionale alla storia. Le cose accadono in fretta. Ogni racconto è la descrizione di un episodio della vita di Mojado, della sua crescita da ragazzino orfano in un paese poverissimo annientato dalla siccità e dai terremoti, fino alla fuga in California, dove diventerà un pugile famoso. Il primo volume si interrompe pero’ a Tijuana, la città messicana delle promesse tradite, della prostituzione e della droga. Ogni piccolo o grande evento della vita del ragazzo è arricchito dalla presenza di altri personaggi, di un’umanità sconvolgente, nel bene e nel male. Il tema centrale è sempre la sopravvivenza:
“ed è la scoperta di una fame nuova. La fame senza speranza, senza pietà. Quella che ti fa perdere il controllo, che ti fa trovare buona ogni cosa”.
I giovani protagonisti di questa storia sono tutti alla ricerca di un riscatto. Ognuno a proprio modo. Mojado, il ragazzo, spicca per la sua naturale predisposizione verso la giustizia, in un percorso sempre in bilico tra la ricerca della legalità (e della legittimazione personale) e la truffa per la sopravvivenza. Intorno a lui si agitano esponenti della malavita, tossicodipendenti, barboni, yankies miliardari. Immerso in questo universo dai valori distorti, Mojado cerca sempre di fare la cosa giusta, nel rispetto umanissimo del prossimo. In questo, è un piccolo angelo straccione. Wood è pero’ ben attento a non perdere il controllo della vicenda, non superando mai il confine dell’inverosimile. Infatti anche il ragazzo sbaglia, anche il ragazzo inganna. Eppure, più spesso, si comporta da eroe buono, giustificato dalla sua apparente ingenuità. Un’ingenuità che cresce e cambia nel tempo. Mojado non è un “buontempone”, insomma, ma una persona istintivamente protesa verso il bene.
Spesso, la semplicità di alcune vicende, la loro condensazione, è tale da farle diventare storie emblematiche, piccole, delicate “parabole” di vita. Molte altre cose restano nel non detto, nel non espresso, ma si presentano improvvise e decise alla mente del lettore. Si possono ricercare tra le pagine e le vignette, ma non ci sono. Le ha create la nostra mente, in un processo tipico dei migliori fumetti. Così come spesso sono le azioni a parlare; le azioni e le emozioni dei protagonisti. Non c’é spazio per lunghi discorsi. Wood, per esempio, non si sognerebbe mai di sottolineare in una didascalia la bravura a fare a botte di Mojado, che lo porterà a diventare un bravo pugile. Lo leggiamo pagina dopo pagina e diventa per noi una certezza.
Le didascalie in terza persona (la voce fuori campo) sono utilizzate in modo sapiente per dare vita agli ambienti, con un piglio secco ed espressionistico. Alcune di esse sono esemplari, come quella che apre il volume:
“la polvere è l’unica realtà, la polvere e la terra screpolata, i campi bruciati, morti di una morte chiusa dentro un’altra morte, come in un gioco assurdo di giochi concentrici”.
Oppure all’inizio del capitolo quattro:
“ci sono giorni speciali. Giorni in cui accadranno cose molto importanti. Eppure cominciano come tutti gli altri. Con la stessa, disperata inutilità”.
O quella che presenta la morte del vecchio custode del cimitero, Zio Sepolcro, uno dei pochi amici di Mojado (capitolo dieci):
“All’alba ha trovato Zio Sepolcro morto. Ha la bocca aperta. E dal bicchiere del comodino la sua dentiera sembra ridere”.
E un po’ più avanti:
“Impossibile trattenere la paura. In quei sussurri si legge la morte. Una morte reale, solida. E la mente va alla dentiera di Zio Sepolcro, che forse ride, tra i rifiuti”.
E a fine capitolo:
“In un secchio della spazzatura, la dentiera di Zio Sepolcro ride impazzita in onore della luna”.
Gli oggetti, la polvere, le strade hanno in Mojado una loro anima, sporca e depressa. Ogni elemento che compone l’ambiente in cui si muovono le vicende sono un riflesso dell’esistenza dei protagonisti, della loro sofferenza, della loro speranza. Perché i personaggi, e con loro il lettore, vedono il mondo attraverso i propri occhi disillusi, attraverso i propri bisogni laceranti. Come nella descrizione delle strade di Tijuana all’inizio del capitolo quindicesimo:
“tutti escono nella notte. Tutti e tutto. Anche le cose più sudice lasciano i nascondigli…affrontano le strade piene di luci multicolori, di mosche, di odori. Le strade aspettano il turista, magre, affamate e corrotte. Con le luci al neon, le montagne di rifiuti, le pozzanghere scure e maleodoranti. Le strade aspettano di ingannare con le luci false, le bocche dipinte, le promesse e le menzogne in due lingue. La frontiera ha corrotto la città, la sta facendo soffocare nel putridume”.
È con questo realismo e questa poesia che si confronta il lettore. L’arte di Wood scende lungo la schiena, come un brivido, lasciando ricordi indelebili. Percorrere la propria città, a piedi, dopo la lettura di questo volume, permette di guardare alle strade, alla gente e alle cose in modo diverso.
La testimonianza di Wood non è una denuncia. Non ci sono evidenti intenti politici, non ci sono i buoni e i cattivi, non si individuano colpe e non si sacrificano vittime. Come la vita, i percorsi si intrecciano nella pluralità dei punti di vista. Senza mistificazioni. Dietro a quelle vicende è facile intuire il processo autobiografico che sorregge la volontà creativa di Wood: il suo Sud America, la sua cultura popolare. L’autore si identifica in Mojado e l’invenzione avventurosa diventa verità preziosa, perché sorretta dalla sua esperienza di vita, dalla sua conoscenza, senza inganni.
Ed è impossibile non sottolineare l’importanza del contributo di Vogt alla riuscita di queste storie, con il suo disegno essenziale, senza retorica, senza elementi di disturbo. I personaggi e gli ambienti trasudano della miseria e della sofferenza e ci parlano della cultura e della civiltà latinoamericana, della povertà e del disperato bisogno di riscatto. Niente è bello, spettacolare o ingannevole. Le persone e le cose sono come devono essere. Nessuna mistificazione. La densità narrativa a cui ho accennato sopra in relazione alla sceneggiatura di Wood è presente anche in questi disegni, apparentemente semplici, eppure tremendamente evocativi. è quella povertà dei mezzi, dei segni e del significante che apre con più forza la strada alla fantasia e alla creatività inconsapevole del lettore.
La storia, così com’é, si arricchisce dei significati narrativi, morali, emotivi, identificativi che i lettori aperti alla stimolazione hanno il coraggio di liberare. E questo è il dono più grande che Wood e Vogt ci offrono: un’opportunità di conoscenza e di vita, proprio come con l’opera di Manuel Scorza, per convibrare immersi in quelle armonie e poter comprendere profondamente la disperazione e il disperato bisogno di rivalsa di quei popoli.
Mojado di Robin Wood e Carlos Enrique Vogt
Eura Editoriale – 5 voumi b/n, 5,00euro cad.
(collana I Giganti dell’Avventura nn. 46, 48, 50, 53, 56)