Caso strano quello di Johnny Cash.
Diversamente dagli altri musicisti che assieme a lui hanno contribuito a gettare le basi dell’espansione dell’industria della musica rock, country e folk negli anni cinquanta, ancora all’inizio di questo secolo, ormai sessantenne, faceva parlare di sé. Questo grazie a una serie di dischi prodotti da Rick Rubin che in qualche modo svecchiavano la sua fama di musicista legato al passato, interpretando su arrangiamenti più moderni suoi vecchi successi e una serie di cover abilmente selezionate tra i brani più rappresentativi dei musicisti delle ultime generazioni.
Un restyling così riuscito che alla sua morte, avvenuta nel 2003, si è scatenata, come spesso accade, una febbre di conoscenza e di riscoperta di questo musicista dallo sguardo tenebroso, dalla voce profonda e dall’esistenza turbolenta.
Non è un caso, quindi, che Hollywood ci si buttasse sopra per produrre un film sicuramente piacevole, ma altrettanto discutibile, interpretato da Joaquin Phoenix e Reese Witherspoon, intitolato, come una delle sue più famose e belle canzoni, Walk The Line (in Italia orribilmente sottotitolato “Quando l’amore brucia l’anima”).
Per chi scrive, quasi tutti i film di questo tipo sono discutibili; questo perché, al di là della consueta buona fattura nella ricostruzione storica, delle immagini, delle interpretazioni, quasi sempre viene chirurgicamente selezionato solo un aspetto della vita del personaggio che si vuole raccontare, tralasciando tutti quelli considerati meno “interessanti” per il grande pubblico. In un processo di appiattimento culturale sistematico, l’industria dell’intrattenimento americana ci propone così l’ennesima storia d’amore tormentata, con tanto di caduta negli inferi (il vizio della droga), resurrezione (il ritorno fervente alla religione) e happy end (il tanto agognato matrimonio con June Carter). Bello, commovente, suggestionante, e che bella musica! Peccato che non fosse proprio tutto così e che la musica in quel film venisse usata solo come elemento di contorno.
A far giustizia di tutto ciò ecco che arriva questo Cash – I see a darkness, di Reinhard Kleist, a mettere le cose a posto e a raccontare meglio e più approfonditamente questa figura centrale della musica americana del secolo scorso.
Una recensione dovrebbe innanzitutto dire perché un fumetto è da leggere o da buttare nel cesso e parlare dei suoi disegni e della sua sceneggiatura. Vero, ma lo faccio dopo, perché voglio cominciare a dire una cosa che mi preme di più: non bastano tutti i film, tutti i serial più hot del momento, tutti i videoclip di sorella MTV per eguagliare la forza, la profondità e le potenzialità (molto spesso non espresse o espresse male) di un buon fumetto.
Se avrete la forza di sottrarre al vostro portafoglio i diciannove euro per acquistare questo volume (che volete che siano? Su, non siate tirchi!), di procurarvi con ogni mezzo, legale o meno, il succitato film e metterli a confronto capirete cosa sto cercando di dirvi. La bidimensionalità assolutamente ricercata del film di James Mangold si trasformerà sotto i vostri occhi nella tridimensionalità assolutamente ricercata del fumetto di Kleist. Dove il Cash di celluloide sembrava non avere altro che rimorsi, droghe, autodistruzione, amori impossibili, insoddisfazioni familiari, quello di carta e inchiostro diventa un essere pulsante fatto di poesia, di sogni, di solitudine, di musica E di rimorsi, droghe, autodistruzione, amori impossibili, insoddisfazioni familiari. Non sto affermando, quindi, che il grande satana hollywoodiano mente, ma intendo dire che ci racconta solo una parte della storia. E in questo caso non ce la racconta neanche così bene.
Questo tanto per ricordarci che il fumetto non è morto, anzi, che non smette di sorprenderci per la sua capacità di reinventarsi (ogni tanto) sperimentando linguaggi e nello steso tempo divertendoci.
Reinhard Kleist fu pubblicato in Italia per la prima volta proprio con questo volume nel 2007 dalla fu Black Velvet di Omar Martini, fumetto che ricevette il premio come miglior libro nel 2007 al Salone di Monaco.
Dunque, avrete capito che il libro in questione mi è piaciuto molto, inutile girarci attorno, e che penso proprio che potrebbe piacere a tanti. Qualche considerazione a supporto. Tanto per cominciare non è un fumetto complicato o difficilmente interpretabile. È tutto scritto lì quello che bisogna sapere ed è una biografia sotto certi aspetti abbastanza convenzionale nello svolgimento, sotto altri un po’ meno. Difatti, se lo schema del racconto è tutto sommato lineare – ci viene raccontata la vita di Johnny Cash dalla sua infanzia alla sua morte – è anche vero che vi sono continue e significative incursioni nella sua musica che contrappuntano i vari momenti della sua vita per poterla leggere più in profondità.
Già dalle prime pagine il lettore si ritrova disorientato, quasi catapultato in un noir disperato, ma in realtà sta leggendo il racconto per immagini di Folson Prison Blues, uno dei pezzi più celebri dell’artista, che serve in un certo modo ad inquadrare sia la personalità spigolosa di Cash, ma anche ciò che in generale cantava. Non è un caso che venisse chiamato “The Man in black” e non solo per la tonalità scura dei suoi vestiti o per la voce profonda. Era anche dovuto alle storie di disperazione, carcere, solitudine che metteva in musica e che in poco tempo lo hanno reso popolare tra i carcerati americani. È proprio a Folson (e poi a San Quentin), prigione per i criminali della peggior specie, che il nostro, alla fine dei sessanta, troverà la strada per un rilancio artistico ma soprattutto commerciale.
L’idea che Kleist ha avuto, quella di far ruotare il suo racconto attorno all’episodio del concerto nel carcere di Folson, è semplicemente geniale.
Anche Mangold usa lo stesso spunto per costruire il suo film, ma esclusivamente per aprire e chiudere il sipario di un montaggio tutto sommato semplice. Kleist, invece, parte da qui per inventarsi un secondo punto di vista con il quale raccontare la vicenda di Cash, cioé quello di Glen Sherley, carcerato di Folson, che affascinato dalla figura e dalla musica del musicista originario dell’Arkansas si mette a scrivere canzoni e a cercare attraverso di esse una via d’uscita alla sua miseranda condizione. Una di queste composizioni, “Greystone Chapel”, arriverà nelle mani dello stesso artista che con un colpo di teatro la suonerà proprio in quel famoso concerto. Sembra finzione, ma è tutto vero.
Per inciso Sherley, come narrato da un Cash ormai vecchio, una volta fuori dal carcere ebbe una brillante carriera da musicista, anche se di breve durata.
Questo immedesimarsi con le fasce più deboli della popolazione americana, o quelle meno fortunate, è uno degli aspetti più interessanti di tutta la produzione artistica di “The Man in Black” e bene ha fatto Kleist, dal mio punto di vista, a rendere questo episodio un punto cardine di tutta la biografia. Non che questo musicista abbia fatto della canzone di protesta la sua arma migliore, tanto è vero che nei sixties tento’ un avvicinamento con la nuova generazione di songwriters “impegnati”, seppur con scarso successo. A questo proposito, se volete un consiglio, andatevi a sentire, in qualsiasi modo, Nashville Skyline di Bob Dylan sul quale c’é un’incredibile versione di Girl from the North Country cantata dai due (é notoria la stima che Mr. Zimmerman avesse per Johnny Cash). A me di solito provoca la pelle d’oca.
“Ho raccolto tutto quello che potevo: foto, articoli, interviste. (…) Così mi sono fatto un’idea di quest’uomo, conosco molto di lui. Basta leggere ogni tanto fra le righe e hai le storie vere. Alla fine sono le storie che restano, non i fatti. E le storie vanno raccontate” –
dice nel fumetto Glen Sherley a un altro carcerato. Ma se si leggono bene, sembrano parole che potrebbero esser state dette dallo stesso autore, quasi fosse una dichiarazione d’intenti messa in bocca a un suo personaggio. Quelle che contano alla fine sono le storie, non i fatti. Niente di più vero, soprattutto quando le storie assumono un valore così universale che anche se fossero inventate sarebbero più credibili di ogni verità.
La capacità grafica di Reinhard Kleist è poi sorprendente. Ho già espresso il mio gradimento per la sua scelta di narrare per immagini alcune canzoni più famose di Cash, utilizzandole per meglio affrontare alcune peculiarità della biografia dell’artista. Scene dal forte impatto evocativo incise da ampie campiture di nero e grigio e da un tratto che già dall’inchiostratura racconta tutta la volontà di solcare profondamente l’anima degli attori di questa storia.
Un disegno che a una prima scorsa mi era sembrato poco preciso e gradevole. Che errore!
Aguzzando la vista – perché le pagine sono abbastanza complesse – mi sono invece trovato di fronte a tavole dalla forte personalità, a un segno capace di caratterizzare al meglio ogni viso e movenza e allo stesso tempo in grado di raccontare con efficacia la sceneggiatura, anch’essa sempre all’altezza. Un disegno che traduce in segni d’inchiostro la musica di Johnny Cash e la sua contemporaneità. La sceneggiatura, le canzoni disegnate e quelle che si “sentono” in sottofondo in balloons che riempiono pagine di pura poesia, una narrazione che salta con disinvoltura dal realismo diretto e senza fronzoli all’espressionismo metaforico di alcuni passaggi (come la bellissima scena della crisi d’astinenza, pagg.146-148), tutto ciò mi fa pensare che il libro di Kleist sia prima di tutto un rispettoso atto d’amore verso Johnny Cash e la sua musica.
Troverei interessante che altri grandi autori si misurassero con progetti di questo genere raccontando altri musicisti leggendari (penso a Lennon, Dylan, Kobain, Hendrix, Morrison, per esempio), perché credo che in qualche modo la musica popolare del novecento (rock, country, folk, hip hop, ecc.) sia molto vicina come spirito e come attitudine alla libertà creativa di un fumettista.
Kleist ha quell’innata capacità di narrare cose complesse con estrema semplicità e, insieme, con forza tale da emozionare il lettore. Due qualità che, se ci pensate bene, non sono proprio comuni.
Per tutte queste ragioni – e perché la figura di Johnny Cash è comunque interessante e da conoscere (come la sua musica) – credo che Cash – I see a darkness sia da consigliare a tutti.
Abbiamo parlato di:
Cash – I see a darkness
Reinhard Kleist
Bao Publishing, 2016
224 pagine, brossurato, bianco e nero – 19,00€
ISBN: 9788865435854
Riferimenti:
Il sito di Reinhard Kleist: www.reinhard-kleist.de
Il sito ufficiale di Johnny Cash: www.johnnycash.com
La pagina di Wikipedia italia su Cash: it.wikipedia.org/wiki/Johnny_Cash