Se passando m’incontri

Se passando m’incontri

Una vignetta da "Senza paura"

Una vignetta da “Senza paura”

Tra le parole che parlano meglio del nostro tempo, ci sono quelle di Warsan Shire nell’incipit della sua poesia più famosa, Casa: “Nessuno lascia casa a meno che la casa non sia la bocca di uno squalo”.

E qua può iniziare uno dei nostri itinerari letterari.

Come dico sempre, la cosa migliore che può fare un lettore è leggere tanto, leggere tutto, trovare connessioni e senso tra le sue letture senza paura di allontanarsi dai sentieri a lui familiari, senza timidezze nei confronti di ciò che sente più in alto del suo livello (scoprirà quasi sempre che è una bugia) o più in basso (scoprirà quasi sempre che è un pregiudizio).

Riprendiamo la strada.

Come scrive Thomas Nail su Aeon, il compito cui siamo chiamati per comprendere la modernità è che non solo il 21esimo secolo sarà il secolo dei migranti, ma che il migrante è sempre stato un elemento costitutivo della società. “In altre parole, i migranti non sono figure marginali o eccezioni, come spesso sono stati trattati, ma uno strato essenziale tramite il quale tutte le società, finora, hanno mantenuto e ampliato le proprie forme sociali”.

Ed è naturale che la cultura nell’ultimo periodo si sia dimostrata particolarmente attenta al tema delle migrazioni, affrontandolo in modi inediti e specialmente da nuovi punti di vista.

A vari livelli, la società riflette su se stessa.

A un livello più basilare, più accessibile, con film come il contestatissimo Tolo Tolo, che in Italia è riuscito nella, per la verità non ardua, impresa di scontentare sia la pancia sospettosa, xenofoba e sovranista della nazione, che l’élite intellettuale di sinistra. E ha così incassato più di 35 milioni nei primi dieci giorni nelle sale.

Salendo la scala della cultura, negli ultimi anni due libri hanno influenzato la scena letteraria, traghettando il discorso – il discorso letterario senza inizio e senza fine che è nel contempo prodotto e motore della società – verso una più ampia consapevolezza.

Parlo, ovviamente di Exit West di Mohsin Hamid (già autore del celebre Il fondamentalista riluttante) e di Americanah di Chimamanda Ngozi Adichie (già autrice dell’altrettanto celebre Ibisco viola).

Exit West (Einaudi) ci parla della vita quotidiana sconvolta all’improvviso dalla guerra di Saeed e Nadia, due giovani innamorati in una città mediorientale che resta senza nome. Il romanzo unisce uno sguardo quasi giornalistico a momenti più intimi, e alla fantascienza. Sì, perché nell’universo alternativo della storia in vari luoghi, più o meno accessibili, si aprono all’improvviso delle porte magiche, che porteranno i protagonisti a fuggire prima a Mykonos e poi a Londra.

Sapendo quanto io ami il fantastico, non vi stupirà il mio entusiasmo per il suo prepotente ingresso nella letteratura “seria” di questi anni. Davide Piacenza, su Rivista Studio si spinge a dire che “ridefinisce toni e portata del romanzo fantastico contemporaneo”.

In Americanah (ancora Einaudi) la questione viene affrontata da un punto di vista completamente diverso e le domande che ci pone sono altre, non meno attuali. Ifemelu, la protagonista del romanzo, emigra negli Stati Uniti per studiare a Princeton e qua scopre all’improvviso di essere nera. In Nigeria il colore della sua pelle non aveva importanza, ma negli Stati Uniti lo standard cui è chiamata a omologarsi è quello bianco. Il libro si apre con il suo ritorno a Lagos, dopo molti anni in America, dove vuole riallacciare la storia interrotta con Obinze, suo compagno di liceo che non ha potuto espatriare. Attraverso i vari flashback e flashforward, alternando alla narrazione documenti, lettere, pagine di diario, Adichie ci parla della formazione della protagonista, dell’amore, del razzismo e del senso di perdita culturale a cui si riferisce il titolo: “americanah”, infatti, in Nigeria è il termine usato per descrivere chi cerca di assomigliare agli americani, rinunciando alla propria identità.

E qua ci avviciniamo a un tema attiguo, ma non intercambiabile, a quello di migrante: l’espatriato, lo straniero.

Sul tema le prime fonti letterarie sono, oserei dire, piuttosto blasonate. Nel Levitico infatti si legge: “Lo straniero che risiede fra voi, lo tratterete come colui che è nato fra voi; tu l’amerai come te stesso, poiché anche voi foste stranieri nel paese d’Egitto”.

E non c’è popolo che nella sua storia non abbia affrontato l’esperienza dell’emigrazione e non abbia vissuto lo spaesamento di essere straniero in terra straniera.

Questo mi porta a uno degli ultimi fumetti che ho letto sull’argomento, una graphic novel edita da Oblomov l’anno scorso. In Senza paura, di Anthony Mazza e Andrea Campanella, si respirano le atmosfere della cinematografia neorealista. Siamo nel Brasile della prima coppa del mondo di calcio, nel dopoguerra, e la famiglia composta da un padre ferroviere, una figlia ormai adulta e un ragazzino ancora in età scolare viene sconvolta da una tragedia. A questa storia si intreccia quella di Mario, fornaio italiano emigrato dopo la guerra, e le difficoltà di un’integrazione in paese percorso, come tutti i paesi, da fremiti xenofobi che mascherano semplicemente gli interessi di qualcuno. Niente come la xenofobia è facile da sfruttare. I sentimenti più vili forniscono sempre un terreno fertile alle imprese criminali.

Senza paura è un fumetto curiosamente bilanciato nell’affrontare il tema dello straniero, forse perché i due autori vivono sulle coste opposte dell’Atlantico, (in Italia lo sceneggiatore, in Brasile il disegnatore), e forse perché a questo tema se ne affianca un altro egualmente rilevante, ossia lo scontro di classe.

Il punto di vista è quello di Louiz, un ragazzino ancora ingenuo, che bigia la scuola per andare al cinema, dove lui e il suo amico cercano costantemente di entrare a scrocco, e che gioca a calcio con una vecchia palla fino al calar del sole. È attraverso i suoi occhi che vediamo le storie della sorella, del padre e del panettiere Mario e che conosciamo l’ingiustizia dell’età adulta, la morte, la lotta, gli abusi del potere e la speranza nel futuro.

Un fotogramma da "Un maledetto imbroglio" di Pietro Germi

Un fotogramma da “Un maledetto imbroglio” di Pietro Germi

Un racconto che, grazie anche al tratto poetico di Anthony Mazza, ha una qualità pulita, rarefatta, appunto neorealista. E Campanella afferma infatti di essersi ispirato al cinema di Matarazzo, De Sanctis, Blasetti, ma anche a Un maledetto imbroglio di Germi, la rielaborazione del libro di Gadda Quer pasticciaccio brutto di via Merulana. Romanzo e film sono molto diversi, ma arrivano alla medesima conclusione: risolvere il pasticcio non equivale alla vittoria della giustizia, perché anche chi è colpevole per la legge è a sua volta vittima del male del mondo.

Trovo che il nostro itinerario, da Senza paura, possa procedere in diverse direzioni, tutte interessanti, tutte facenti parte di quel grande racconto del mondo che è la letteratura.

La prima suggestione che ho avuto leggendolo è stata, non so perché, Albert Camus. Chiamatele se volete libere associazioni di una lettrice. Non tanto al suo splendido e straziante Lo straniero, quanto ai racconti di L’esilio e il regno.

Ne “L’adultera”, leggiamo:

Poi il vento sembrò calmarsi, la foschia si diradò un po’ e il veicolo riprese velocità. Squarci di luce si aprivano nel paesaggio inondato di polvere. Due o tre palme gracili e sbianchite, come ritagliate nel metallo, apparvero nel finestrino per scomparire un istante dopo.
«Che paese!» disse Marcel.
La corriera era piena di arabi che sembravano dormire, sepolti nei loro burnus. Alcuni avevano tirato su i piedi sul sedile e oscillavano più degli altri al movimento della vettura.

Li vedete, è vero?

Ma forse ancora più attinente è “I muti”, in cui un gruppo di bottai il cui sciopero è fallito rientrano al lavoro e smettono di parlare al proprietario. La loro non è un’azione concertata per ottenere un risultato, non è una tattica psicologica, è solo che la mortificazione e la rabbia impotente gli ha tappato la bocca.

In un’altra direzione, ritrovo quella stessa qualità pulita e rarefatta in un libro uscito diverso tempo fa per Pequod, Una stagione di fede assoluta di Riccardo D’Anna. Qua il gioco non è il calcio, ma il baseball, la storia è quella di una squadra di prima divisione che domenica dopo domenica scala la classifica. D’Anna racconta le vicende di una squadra, di un gruppo di amici, e contemporaneamente l’età in cui si è giovani e poi quella in cui giovani non si è più. Il gusto dolceamaro della vittoria e l’ebbrezza di una gioventù che non vuole andarsene, ma che deve rassegnarsi a farlo.

Una vignetta da "Storie del barrio"

Una vignetta da “Storie del barrio”

E ancora, tornando al fumetto, un’altra possibile direzione è verso Storie del barrio, di Gabi Beltrán e Bartolomé Seguí (Tunué): “Le scorribande del giovanissimo Gabi e dei suoi amici nella Palma di Maiorca degli anni Ottanta. Il quotidiano scontro con una città difficile, dominata dalle differenze sociali. Ma anche la scoperta del sesso, l’incontro con la letteratura, la fascinazione per il disegno e – sul fronte opposto – le periodiche e spesso inevitabili discese nel baratro dei farmaci, della droga, dei furti e della violenza”.

Il nostro tour a questo punto è quasi finito. Prendiamo un po’ della crudezza di Beltrán e Seguí e trasferiamoci in Adua, di Igiaba Scego (Giunti). Adua è una donna non più giovane che vive a Roma da quando ha diciassette anni. È una cosiddetta Vecchia Lira, come i nuovi immigrati chiamano chi è arrivato in Italia dalla Somalia negli anni ’70. “Ha da poco sposato un giovane immigrato sbarcato a Lampedusa e ha con lui un rapporto ambiguo, fatto di tenerezze e rabbie improvvise. Adua è a un bivio della sua vita: medita di tornare in Somalia, paese che non ha più visto dallo scoppio della guerra civile. Ormai è sola a Roma (la sua amica Lul è già rientrata in patria), per questo confida i suoi tormenti alla statua dell’elefantino del Bernini che regge l’obelisco in piazza Santa Maria sopra Minerva. Piano piano racconta a questo amico di marmo la sua storia: suo padre Zoppe, ultimo discendente di una famiglia di indovini, lavorava come interprete durante il regime fascista e negli anni Trenta baratta involontariamente la sua libertà con la libertà del suo popolo.”

Adua è un libro senza pietà, in cui la tenerezza, quando compare, chiede quasi scusa. Eppure è anche un libro di grande tenerezza e grande umanità, proprio perché Adua è di scorza dura, difficile da conquistare, ma bravissima a fare breccia nei sentimenti del lettore.

Adua è anche un promemoria di un torto rimosso, quello delle colonizzazioni italiane. Perché mentre gli altri paesi coloniali hanno cercato una riflessione sul loro passato, il nostro si è limitato a scrollare le spalle e a nascondere tutto sotto il tappeto, derubricando a episodio privo di importanza un periodo che ha cambiato le vite di migliaia di persone. Nere, e quindi irrilevanti.

Ora il percorso è finito, uno dei possibili cerchi si è chiuso.

Torniamo alle parole di Warsan Shire con cui ho aperto l’articolo:

devi capire
che nessuno mette i figli su una barca
a meno che l’acqua non sia più sicura della terra

Questi libri, come altri libri, ci aiutano a capire, anche se non abbiamo mai personalmente vissuto l’esperienza migratoria, anche se non abbiamo mai provato sulla nostra pelle quel particolare senso di estraneità.

È questo il più grande merito della letteratura: ci consente di passare un periodo in vite diverse dalla nostra, indossare i panni di altre persone, sentire i loro sentimenti.

E questa capacità, l’empatia, è quello che ci tiene in vita.

*

Grazie per essere stati con me, dopo una lunga assenza da questo blog. Spero di riuscire presto a scrivere di nuovo qua, perché le trovo ore ben spese.

Vi saluto con un’altra poesia, che dà il titolo all’articolo:

Straniero, se passando m’incontri e vorresti parlarmi, perché non dovresti parlarmi?
E perché non dovrei io parlare a te?

—Walt Whitman, To You, “Inscriptions”