Sergio Gerasi: da Giorgio Gaber alle Tragifavole

Sergio Gerasi: da Giorgio Gaber alle Tragifavole

Sensibilità, talento e punk rock. A undici anni dall'esordio fumettistico Sergio Gerasi ci parla delle sue “Tragifavole”, prima e riuscita opera da autore completo, e della sua interpretazione di Giorgio Gaber nel volume scritto da Davide Barzi.

Dieci anni e più di lavoro su diverse testate a fumetti hanno contribuito a formarti come autore completo, quali sono state le tappe fondamentali della tua carriera di disegnatore?
Il prossimo Agosto 2011 festeggerò 11 anni esatti da quando iniziai a disegnare il mio primo Lazarus Ledd, che sarebbe poi uscito alcuni mesi dopo. L’esordio sulla serie ideata e scritta da Ade Capone è stata sicuramente la prima e per questo la più importante ‘tappa’, come è ovvio. Generalmente potrei segnalarti come tappa importante ogni cambio di testata, serie o mini-serie che fosse, ma preferisco soffermarmi su alcuni punti precisi: la prima 24 HIC, organizzata proprio dal Lo Spazio Bianco, perché fu la prima occasione in cui mi sperimentai come autore unico (o completo) e fu anche un avvenimento per me storico, durante il quale mi trovai a confronto con alcuni tra i più importanti fumettisti italiani, che fino ad allora conoscevo solo attraverso le loro storie disegnate (potete trovare le storie disegnate da Sergio alle varie 24ore alle quali ha partecipato online: QUI quella di cui parla, del 2005, QUI quella del 2006 e QUI quella del 2007 -ndr). Altra tappa importante fu il periodo di Nemrod, quando decisi di abbandonare pennarellini e tratto-pen vari, per passare al pennello. Ultima tappa fondamentale sono proprio le Tragifavole. Per quanto riguarda invece la formazione nel campo strettamente narrativo, non so, credo sia un mistero. Diciamo che hanno contribuito le storie di Edgar Allan Poe, Lovercraft e Sclavi, mescolate a quelle di Jack Kerouac, dei poeti Beat, delle favole classiche fino anche a Sylvain Chomet. Ma non basta: c’è anche Battiato e una certa musica italiana intelligente, il Punk di un certo periodo della mia vita, il rock n roll (che quello un po’ c’è sempre, almeno spero). E poi c’è Milano, con i suoi locali, i suoi cocktail, con gli amici baristi. Gli amici, gli amori, il gruppo. Tutto questo si è mescolato nelle Tragifavole, erano lì da tanto tempo e piano piano si sono scritte da sole.

Quali sceneggiatori ti hanno influenzato maggiormente nel tuo percorso di formazione?
Non credo di aver la capacità di scrivere qualsiasi cosa, quindi fatico a sentirmi uno che sa davvero scrivere, nel senso più stretto del termine. Sento di avere più ‘mestiere’ nello scrivere canzoni, forse. Le storie delle Tragifavole sono esplose da dentro, io poi ho solo cercato di dare una forma narrativa più coerente che in tanti anni di lavoro nel campo dei fumetti ho assimilato, quasi per osmosi.

Con Davide Barzi hai realizzato un riuscito omaggio a Giorgio Gaber (“G&G”), come si è sviluppato questo progetto? Hai collaborato alla sceneggiatura?
No, la sceneggiatura è tutta farina del sacco di Davide. Io avevo inizialmente realizzato una breve introduzione proprio alle Tragifavole, con un Gaber più grottesco e caricaturale. Da lì nacque l’incontro con Davide, fino a che gli proposi di trasformare quell’introduzione in un libro a fumetti interamente dedicato a Gaber. Mandai a Davide qualche mio spunto, qualche idea di massima su come poteva costruirsi la storia, che però poi prese una direzione diversa (difficilissima da sviluppare) che solo uno ‘studioso’ come Barzi poteva scrivere. La difficoltà stava nello scrivere una storia ‘originale’, basata sui concetti espressi nel teatro-canzone, raccontata attraverso i testi esatti (o parte di essi) di Giorgio Gaber e nella quale il ‘cantattore’ comparisse senza però diventare l’unico e principale protagonista. Un’impresa piuttosto difficile ma che alla fin fine ci ha regalato grandi gioie e una certa dose di orgoglio.

In “G&G” sei riuscito a rendere in modo pressoché perfetto la mimica e la fisicità espressiva di Gaber, cogliendo in pieno lo spirito del personaggio. Come ti sei preparato per la realizzazione del volume?
Il libro è nato principalmente da una mia (e di Barzi) grande passione per Giorgio Gaber, quindi già prima di cominciare il libro conoscevo molto bene la sua mimica e le sue movenze. Riportare una forza espressiva così intensa, fisica e teatrale sulla bidimensione della carta è stato tuttavia un lavoro non semplice e ho dovuto studiarlo a fondo. Ho riguardato molte volte alcuni DVD dei sui spettacoli cercando di non limitarmi a ricalcare la semplice figura, ma di aggiungere energie e potenza anche attraverso piccole esagerazioni anatomiche.

Giorgio Gaber ha fatto capolino anche in altre tue opere (penso ad una breve storia realizzata per 24 HIC del 2007). Che tipo di rapporto pensi di aver sviluppato con le sue idee? In che modo Gaber è ancora attuale nella società moderna?
Gaber e Luporini parlavano di uomini e donne, dei loro aspetti (vizi, virtù, debolezze, sentimenti) più quotidiani. Parlavano della gente, della gente d’Italia, e dell’Italia. Temo che non si sia andati avanti rispetto ad allora, anzi se possibile abbiamo fatto alcuni passi indietro, soprattutto nella qualità dell’essere umano. Tralasciamo la politica, che altrimenti ci viene da ridere. Ho sentito in diverse occasioni chiedere a chi porta nei teatri gli spettacoli di Gaber in tempi moderni cosa avrebbe detto lui della nostra situazione attuale. La risposta è sempre vaga ‘non so, sai, non si può sapere cosa avrebbe pensato, era sempre così fuori dal coro’. Bene, io vorrei azzardare: Gaber sarebbe furioso, ma non tanto con le istituzioni, con i ministri, con i presidenti, con le P3, P4, Pchilosà o con i furbetti di ogni genere. Lui griderebbe contro di noi, contro la gente che guarda, non dice niente e tutt’al più cambia canale.

“Le Tragifavole” coronano il tuo percorso di crescita artistica. “Ho sempre voluto un tatuaggio” , una delle favole presenti nel volume, ripropone un fumetto da te realizzato per la 24 HIC del 2006. Pensavi già alle “Tragifavole” in quegli anni?
Sì, anche se non sapevo si sarebbero chiamate così. La storia del Burattinaio era già scritta e ce n’erano altre, anche più vecchie, che sono poi state escluse, passate alla fase di… perfezionamento.

Nella stesura delle “Tragifavole” hai agito da autore unico ed in piena libertà. Come hai gestito la stesura della sceneggiatura e la realizzazione della parte grafica?
Non ho realizzato una sceneggiatura scritta nei minimi dettagli, ma avevo un testo di massima, formato da pochi appunti ma completo di dialoghi. Le storie, data la loro lunga gestazione, le avevo tutte ben delineate in testa, anche perché, sotto certi punti di vista, sono eventi reali, tutti vissuti in quei luoghi, in strane e oniriche notti meneghine.

Nelle “Tragifavole” sembrano risuonare echi del Gaber pensiero. In che misura il lavoro su “G&G” ha contribuito alla realizzazione delle Tragifavole?
Come ti dicevo, la mia idea in origine era quella di inserire una piccola storia di presentazione/apertura proprio con Gaber come protagonista. Per certi versi le Tragifavole analizzano un concetto caro al teatro-canzone che è la contrapposizione massa-individuo, di cui si sente parlare molto poco al giorno d’oggi. C’è chi lo considera un argomento vecchio, chi superato, chi trasformato. Forse, io penso, ci siamo solo arresi al pensiero dominante e più comodo.

Le “Tragifavole” mostrano una società stagnante nella quale spicca il profondo senso di solitudine dei protagonisti. Quanto c’è della società odierna e della tue esperienze personali nelle storie da te raccontate?
Tutto quello che viene raccontato nelle Tragifavole parte da un’esperienza personale che viene poi rielaborata, estremizzata e deformata dalla mediazione della fantasia. L’anziana signora hippie a una mostra ‘underground’ di fumetti; un tizio che non ha più pelle libera per nuovi tatuaggi; un amico che, credendoci, mi dice che ti puoi modificare la faccia solo sforzandoti di pensarlo; un malore in macchina ascoltando un certo disco… tutto vero e accaduto. Per quanto riguarda lo stagnare del mondo a me più prossimo e un conseguente senso di solitudine, beh, devo dire che hai colto in pieno lo spirito. “Un uomo solo è sempre in buona compagnia”1) … ma anche… “la solitudine non è mica una follia, è indispensabile per star bene in compagnia”2). (G.G.)

Le “Tragifavole” ti vedono protagonista, insieme ai tuoi personaggi, grazie alla scelta della meta-narrazione. Cosa ti ha fatto optare per questo particolare registro narrativo?
Volevo mostrare in qualche maniera la vera genesi di quello che andavo a raccontare, volevo che in qualche modo si capisse che le storie appartengono all’autore e alla sua vita, alla sua esperienza e ai suoi sentimenti. Volevo esplicitare, anche solo in maniera lieve, che le esperienze realmente fatte si sono trasformate poi in storie di fantasia che affido a personaggi grotteschi ma sempre vagamente simili, in qualche maniera. C’era poi la voglia di visualizzare graficamente come si sente uno che vive quotidianamente in mezzo a personaggi, storie, idee e avventure che sono di carta, certo,  ma che, per noi che facciamo questo strano mestiere, sono estremamente presenti nella ripetitività di tutti i giorni.

Il palcoscenico sul quale si muovono i tuoi protagonisti ha come scenografia i navigli milanesi e la loro particolare architettura. Questi luoghi ti sono serviti in qualche modo da ispirazione?
Come ti dicevo, sono storie che partono dal reale, e io ho, realmente, passato gran parte delle mie serate (nottate) a spasso per quelle zone. Per i locali dei navigli e zone limitrofe. Non volevo citare troppo spesso Milano in maniera esplicita, però volevo si riconoscesse.

Zanardi di Andrea Pazienza fa capolino in alcune vignette e un tuo personaggio lo definisce come “un incubo del passato che ora sembra un poveraccio”. Le storie di Zanardi, figlie di una società impossibilitata a fornire risposte adeguate a chi percorre strade sbagliate, sono attraversate dalla violenza e dal desiderio di vivere una vità all’estremo. La caratteristica principale di Zanardi (così come dichiarato da Pazienza in una intervista) è “[…]il vuoto. L’assoluto vuoto che permea ogni azione”. Oltre al naso pronunciato-caricaturale, in quale misura i tuoi personaggi si accostano o si allontanano da questa icona fumettistica creata da Pazienza?
Del naso, come è ovvio, ci sarebbe molto da dire”. Così scriveva Asor Rosa, se non ricordo male. Ho vissuto intensamente l’incontro con i fumetti di Andrea Pazienza per un certo periodo della mia vita. Arrivavo tardi, certo, per questioni anagrafiche, ma intorno a metà degli anni ‘90 ci fu una seconda ondata di finto Punk Rock (lo definisco ‘finto’ per molti aspetti che non posso analizzare qui e ora, ma perché no, in futuro mi piacerebbe) di una certa rilevanza, alla quale mi sentii molto vicino e che mi vide anche partecipe in maniera attiva. Il senso di vuoto c’era, eccome, anche a metà anni ‘90. Era forse diverso da quello raccontato da Pazienza, ma anche amaramente simile. Poi tutto si sgretolò e mi risvegliai a metà degli anni zero, diverso. Perché diverso era quello che c’era intorno a me. E poi perché anche tricologicamente la cresta non c’era più. (ride, n.d.r.) (…ma non troppo, sempre n.d.r.).
Il mondo si era trasformato e quel senso di vuoto, benché diverso dal senso di vuoto di Zanardi, era diventato solitudine. Che è una cosa molto diversa. Non so se ho risposto alla tua domanda, ma questo m’è uscito, per cui… accontentiamoci.

Oltre a essere un autore di fumetti sei anche un musicista. Il disco allegato alle “Tragifavole” continua in musica quanto letto su carta. Come hai sviluppato con gli altri membri della band questo progetto? L’utilizzo della musica, quale ulteriore strumento narrativo, ti ha permesso di raccontare delle storie non adatte alla rappresentazione fumettistica?
Esatto, l’idea era proprio quella di seguire un filo rosso narrativo con diverse forme espressive. La narrazione cominciata su carta con i fumetti, una volta finito il libro, prosegue con un disco. Volevamo stare ben lontani dalla colonna sonora o dal concept album come era stato fatto in altri e numerosi esperimenti precedenti da molte band (più, o meno famose). L’espediente narrativo che sta alla base del disco è una storia in cui il protagonista, con il solo desiderio e con la sua sola concentrazione, riesce a modificarsi alcuni particolari del volto. Questo ‘gioco’ gli prende la mano finché la faccia non inizia a cambiare in autonomia, senza che lui ne abbia più il controllo. Ecco che quindi possiamo introdurre il disco con un pezzo esplicativo, proseguire cantando altre storie (volendo anche a sé stanti, ascoltabili separatamente): tutte le altre storie che questo personaggio potrebbe vivere, fino a che si arriva all’ultima canzone, in cui si chiude il discorso. Non l’ho mai pensata come una storia a fumetti nel suo insieme, ma credo che ogni mezzo espressivo sia da utilizzare a pieno regime secondo le proprie peculiarità. Con i 200Bullets ci siamo poi organizzati come sempre: io porto in sala dei testi e insieme scriviamo, partendo proprio dalle parole, una melodia, un ritmo, degli accordi… fino ad arrivare alla fase di registrazione e mix in cui si capisce meglio come e cosa volevamo fare.

Dietro ogni espressione artistica esiste un vissuto, una somma di singoli momenti che caratterizzano l’opera e l’artista stesso. Cosa si nasconde dietro le tue vignette?
Si nasconde un bambino che rispondeva a sua nonna dicendo che da grande avrebbe voluto fare l’inventore, ma che poi, dopo aver letto “Il ragazzo con la Zip” nella sala d’attesa del pediatra, decise che i fumetti erano la cosa più bella del mondo.

Su LoSpazioBianco è tempo di bilanci per l’annata fumettistica appena trascorsa. In una ideale classifica delle opere pubblicate nel 2010, chi inseriresti nelle prime posizioni?
Uno su tutti: Cinquemila Chilometri al Secondo di Manuele Fior. Ho letto molte altre cose quest’anno, anche molto belle, disegnate ottimamente, ma non mi hanno emozionato più di tanto. Altre hanno delle storie potenti, ma tralasciano un certo estetismo che trovo fondamentale. Parlando di ristampe invece, metterei una nota di (gran) merito a La Biblioteca di Gianni De Luca (Black Velvet) (sì, lo so, non è del 2010 ma io l’ho comprata nel 2010, per cui…). Finisco con Valter Buio. Sono in conflitto di interessi ma tant’è… ormai è sdoganato, no?

Dopo “Le Tragifavole” cosa dobbiamo aspettarci?
Le Tragifavole bis! No, in realtà non ci ho ancora pensato. Nella cartella ‘Documenti’ del mio computer, c’è una sotto-cartella che si chiama ‘Progetti Miei’ in cui ci sono appunti per un nuovo volume delle Tragifavole, una storia di avventura epica allo stato puro che ha il provvisorio titolo di ‘ElladeX’, un’altra storia molto intimista e semi-biografica che parte dal primo fumetto che ho letto in vita mia e che ho citato in questa intervista, infine un omaggio a un grande scrittore-giornalista (e non solo) di qualche tempo fa.

Riferimenti:
Sito di Sergio Gerasi: www.sergiogerasi.com


  1. I soli, Giorgio Gaber (1987, da Piccoli spostamenti del cuore 

  2. La solitudine, Giorgio Gaber (1976, da Libertà obbligatoria 

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