The Moneyman: intervista ad Alessio De Santa
The Moneyman è un romanzo a fumetti biografico sui primi anni della Walt Disney. Lo trovate in libreria e fumetteria con marchio Tunuè, ma se non avete voglia di uscire di casa lo trovate comodamente anche su Amazon, a questo link.
Il volume è stato scritto, o meglio, “coordinato” da Alessio De Santa, fumettista trentino che nel tempo ha collaborato con Disney e De Agostini. Dico “coordinato” perché Alessio invece di fare tutto da solo ha scritto metà della sceneggiatura, ha scelto gli altri professionisti che si sono alternati alla lavorazione di the Moneyman e li ha gestiti sia dal punto di vista produttivo che artistico. In un certo senso ha quindi replicato in piccolo lo stesso metodo del Walt Disney di cui ha curato la biografia a fumetti, mettendo in piedi un piccolo team creativo e coordinandolo in ogni passaggio. Ricordiamo quindi insieme a De Santa, gli altri autori: lo sceneggiatore Filippo Zambello, il disegnatore Lorenzo Magalotti e le coloriste Giulia Priori e Lavinia Pressato.
Lo scorso 20 gennaio c’è stata a Milano una presentazione del volume presso la Libreria Corteccia. Tunuè mi chiese di moderare l’incontro, e da quella chiacchierata vennero fuori diverse considerazioni interessanti che mi hanno invogliato a mettere tutto nero su bianco, facendo una vera e propria intervista a De Santa per il blog.
Qui di seguito, il risultato del nostro botta e risposta.
Ciao Alessio. Cominciamo con la tua bio come lettore di fumetti prima e come fumettista poi e come si intreccia questa con la Disney.
Ho una storia da lettore un po’ particolare, sono un divoratore di fumetti ma soprattutto di albi della scuola francese. Intendiamoci, a suo tempo ho letto sicuramente diverse carriole di Topolino (e continuo tuttora) e ad un certo punto ho anche provato a disegnarlo professionalmente seguendo i corsi all’Accademia Disney, ma credo che la mia passione per Walt sia nata non nell’infanzia ma molto dopo, proprio nell’anno in cui seguivo l’Accademia: cercavo di capire come Walt fosse riuscito a costruire l’impero che ha costruito, mi interessava la sua storia personale, mi interessava cercare di conoscerlo da vicino. È lì che ho iniziato a leggere avidamente biografie su di lui, per capire che tipo fosse.
Come mai la scelta di usare proprio Roy Disney come narratore della storia? Una tua fascinazione verso il genio “amministrativo” di Roy, il complesso talento dei “numeri” laddove i riflettori sono solitamente puntati sul talento della creatività?
Mentre leggevo le biografie su Walt, mi accorgevo che nessuna riusciva a darmi la chiave per capire il suo successo, finché non mi sono trovato a leggere la biografia – introvabile, mai ristampata, mai tradotta in italiano – di Roy, suo fratello[1]. Ed è stato lì che ho realizzato che tutto finalmente tornava. Walt non era solo, ecco perché è riuscito in un intento così complicato. Quando ho realizzato che per anni si è parlato di Walt Disney e non dei fratelli Disney, ho capito che questa storia andava raccontata, e a raccontarla doveva essere proprio quel fratello che aveva deciso di mettersi da parte, di lasciar parlare l’altro, di fare da silenziosa colonna per il talento di Walt. Scoprire la figura di Roy è stato un po’ come mettere al suo posto l’ultimo pezzo di un enorme puzzle.
[1] Building a Company: Roy O. Disney and the Creation of an Entertainment Empire, Bob Thomas (Hyperion, ©1998)
In The Moneyman hai accennato a una questione spesso tirata in ballo dai detrattori di Walt Disney, ossia il suo essere un “gretto capitalista”, una specie di schiavista nemico dei sindacati. Comprendo che nel fumetto non hai voluto soffermarti troppo sulla questione per non sviare l’attenzione dal tema principale, cioè le vicissitudini economiche dei due fratelli nell’ardua costruzione di una grande entità di intrattenimento. Puoi dirmi due parole su questo argomento “politico”, nel tentativo di proporre uno sguardo obiettivo?
La questione è veramente complicata e non vorrei annoiare nessuno né fornire un’idea sbagliata, quindi cercherò di farla breve (passatemi diverse semplificazioni): poco prima della Seconda Guerra Mondiale lo Studio Disney si era indebitato a livelli impensabili per produrre i primi lungometraggi animati (decisero di produrre i lungometraggi in serie, avviando la produzione di quattro film in contemporanea perché quattro erano gli anni che servivano all’azienda per produrre un film, e quindi sarebbero riusciti ad uscire con un film all’anno). Ma l’embargo dell’asse e lo scoppio della guerra fecero sì che il primo lungometraggio (Biancaneve) non venisse di fatto distribuito, mettendo in crisi l’azienda. Le banche continuarono a tenere in vita lo Studio a patto che riducesse drasticamente le spese (bloccando la produzione dei lungometraggi e licenziando il personale). Walt fece di tutto per evitare che il personale venisse licenziato (non credo tanto per bontà, ma piuttosto perché se fossero stati licenziati sarebbero stati mandati in guerra, e avrebbe quindi perso artisti su cui aveva investito anni di formazione), ma si trovò alle strette. Qui subentrarono gli aspetti più complicati della personalità di Walt, che – ricordiamolo – aveva avviato la sua azienda in un fienile, non aveva studiato management in un master alla Berkeley, e aveva quindi la percezione che la gente lavorasse ai suoi progetti per amicizia e per la sensazione di creare qualcosa di nuovo, grande, diverso (all’inizio era effettivamente così). Questo comportò una pessima gestione, da parte di Walt, di tutta la faccenda, e fece sì che Walt si sentisse tradito e mettesse un muro tra sé e i dipendenti (muro che Roy contribuì ad abbattere).
Questo culminerà da una lato nel famoso (e coloratissimo) sciopero del ‘41, dall’altro in prese di posizione molto forti da parte dell’azienda (Walt comprò una pagina di un noto giornale di Hollywood in cui dichiarò le sue posizioni fortemente intransigenti) e nel giuramento al processo McCarthy, contro alcuni personaggi di Hollywood e alcuni animatori. Non vorrei venire frainteso: Walt fu estremamente duro nei confronti dei suoi dipendenti e lo fu altrettanto nell’applicare una visione fordista alla produzione artistica, ma contestualizzare le sue scelte mi sembra un modo per capire la sua personalità al netto dello spirito del tempo.
Dalla biografia emerge un rapporto negativo tra i fratelli Disney e il loro padre. Un uomo duro, pragmatico, pessimista. Da una parte viene da dire che è grazie a lui se i Disney hanno imparato a curare alla perfezione ogni particolare del proprio lavoro (come si vede nella scena della consegna dei giornali), dall’altra viene da chiedersi da dove sia venuta tanta creatività e tanto ottimismo sul futuro, specialmente in Walt. Si tratta di resilienza oppure qualcun altro – la madre magari – ha fornito loro gli strumenti per emergere nonostante il disfattismo paterno?
Adesso che mi ci fai pensare, mi accorgo che curiosamente vedo la figura di Walt come un’emanazione di quella di suo padre, più che di sua madre. Ecco le somiglianze: entrambi dei perfezionisti intransigenti, entrambi lavoratori instancabili, entrambi alla rincorsa del sogno americano, entrambi incostanti e umorali. Il padre cambiò qualcosa come sei lavori in otto anni (parliamo degli anni dell’infanzia di Walt), obbligando la famiglia a spostarsi in continuazione (chi fosse curioso e non temesse un’emicrania fulminante, trova una cartina di tutti gli spostamenti della famiglia Disney alla fine del nostro libro).
Penso che la creatività di Walt, più che venire dalla madre, sia stata una reazione all’educazione paterna alla sofferenza. Questa fu la discriminante, secondo me: tramite Roy, Walt è riuscito a rifiutare quella sofferenza, e a vivere i fallimenti (di cui la sua storia è costellata) non come un marchio indelebile (come fece suo padre), ma come un momento di passaggio, fisiologico, del successo.
Nella postfazione si descrive un enorme lavoro di documentazione. Oggigiorno non sono più molti quelli che fanno un lavoro così certosino. Mi vuoi raccontare qualcosa a riguardo?
Come ho già anticipato ho letto diverse biografie prima ancora che mi venisse in mente di tradurre questa storia in un romanzo a fumetti. Nel momento in cui è nata l’idea ho subito realizzato che, vista la quantità di materiale che avevo per le mani, non sarei mai riuscito da solo ad elaborarlo, e quindi ho chiesto aiuto a Filippo Zambello (con cui ho co-sceneggiato il volume). Filippo era la persona giusta perché ha studiato storia del cinema al DAMS e ha seguito dei corsi di sceneggiatura a New York, mi ha da subito fatto sentire che avevo un interlocutore con solide basi. Ci siamo letti e riletti diverse biografie, scartando quelle più biased, cercando di evitare le voci di corridoio e le dietrologie, dando priorità alle fonti autorizzate. Ci ha preso la stessa quantità di tempo dell’effettiva stesura della sceneggiatura (delle effettive nove stesure, in realtà), ma è stata anche la parte più divertente. In contemporanea c’è stato il lavoro del giovanissimo Lorenzo Magalotti (il disegnatore), che ha lavorato molto sullo studio delle fotografie. In alcuni casi allegavamo direttamente noi le foto alla sceneggiatura, in altri si è gestito da solo la documentazione, facendo un lavoro eccelso.
È curioso (e molto triste) che entrambi i fratelli Disney abbiano sofferto di polmoni. Quasi avessero lavorato in miniera. E in un certo senso è come se l’avessero fatto davvero, lavorando instancabilmente giorno e notte, chiusi in luoghi a volte senza nemmeno una finestra. Mi viene da pensare che i nani del loro primo lungometraggio siano in realtà gli stessi animatori dello studio Disney, che con il loro lavoro aiutano una bella ragazza che si chiama Fantasia. Che cosa ne pensi?
Sicuramente il lavoro allo Studio non ha aiutato, ma credo sia un caso che i due soffrissero entrambi di polmoni: Roy contrasse la tubercolosi durante la Prima Guerra Mondiale e la trascinò, entrando e uscendo dagli ospedali, per diversi anni. Walt invece si provocò un tumore ai polmoni perché fumava come un matto (anche se la documentazione in merito è davvero poca, perché Walt evitava di apparire in video o in foto con la sigaretta: aveva già capito quanto la sua immagine di “vecchio zio Walt” fosse da preservare).
Ciò non toglie che allo studio gli animatori si spezzassero la schiena, spesso facendo orari ad oggi impensabili. Dobbiamo sempre pensare che anche gli stessi animatori, soprattutto all’inizio, erano ben disposti a fare questi sforzi perché quelle erano le prime forme di lavoro artistico (o artigianale), nel nostro ambito, regolarmente retribuite.
Ringrazio Alessio De Santa per averci raccontato con passione il lavoro svolto su questo volume e consiglio a voi, se siete interessati a sapere come è nata la Walt Disney, di procurarvi The Moneyman.