La fiaba ideologica
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La fiaba ideologica

Di recente è scoppiata una polemica per certe battute pronunciate da Paola Cortellesi durante un intervento alla LUISS. Immagino ne abbiate già letto, e se non l’avete fatto troverete facilmente le notizie in rete.

In estrema sintesi, l’opinione di Cortellesi è che le fiabe tradizionali siano piene di stereotipi sessisti: Biancaneve che fa da colf per i Sette Nani, Cenerentola che viene riconosciuta guardandole i piedi invece che in faccia, eccetera. Argomenti già sentiti di recente, quali la polemica sul fatto che il Principe Azzurro baci Biancaneve senza consenso.

Va fatta una premessa: Paola Cortellesi è prima di tutto una comica, estrapolare dal contesto quelle che sembrano essere battute di spirito non è a mio avviso fare un buon servizio alla discussione.

Per chi fosse facile all’indignazione, chiarisco subito il mio punto di vista: Cortellesi ha ragione sul contenuto patriarcale delle fiabe tradizionali.

Significa quindi che le fiabe vadano eliminate? Ovviamente no. Significa che vadano modificate? Dipende.

La principale contro-critica che viene fatta a certe critiche femministe, è che si vogliano trasformare le fiabe in racconti ideologici.

E se vi dicessi che le fiabe sono già racconti ideologici? Che lo sono sempre state?

Le fiabe non sono – come alcuni pensano – racconti di origine medievale, ma ci giungono da un passato molto più lontano. Basti pensare che l’origine della celeberrima Cenerentola è in realtà una fiaba egizia che racconta la storia della schiava Rodopi, citata da Erodoto più di 2000 anni fa.

Le fiabe, insieme ai miti e alle favole, sono nate diverse migliaia di anni fa. Nel neolitico l’umanità abbandonava la caccia e la raccolta come principale fonte di sostentamento, e si dava all’agricoltura e all’allevamento. Le tribù diventavano stanziali, la popolazione cresceva, l’organizzazione per clan non bastava più. Nascono quindi i fondamenti delle istituzioni moderne: la città-stato, la monarchia, la proprietà privata, e la religione.

Si chiudeva la fase dell’animismo, non vengono più venerati spiriti dalle fattezze animali, ma divinità antropomorfe. Questo è abbastanza naturale: se i nomadi erano alla mercè della Natura, ora con l’agricoltura e soprattutto l’allevamento è l’essere umano a controllare (in parte) la Natura. Adesso sono io a dominare l’animale, lo tengo chiuso in un recinto, esso ha perduto ogni mistero trascendentale: come posso ancora venerarlo? Urge un cambio di mentalità.

C’è un problema, però: fino a un attimo prima le leggende raccontavano di spiriti animali che determinano le regole del nostro mondo, spiriti cui bisogna magari sacrificare una vergine del villaggio per placarne la collera. Tutto ciò è ormai “stupido”, sorpassato, controproducente per il nuovo mondo civilizzato.

Ecco che nascono i miti classici, le fiabe, le favole.

Nelle favole, gli animali perdono ogni caratteristica mistica e diventano metafore dei comportamenti umani. Utili racconti brevi per trasmettere piccoli insegnamenti di vita quotidiana. Parlano alla nostra parte razionale e relazionale.

I miti hanno soprattutto funzione istituzionale e religiosa. Ora le divinità sono antropomorfe, i racconti stabiliscono regole gerarchiche e morali. C’è una corrispondenza tra la figura di Zeus, del Re, del pater familias: il famoso patriarcato. Racconti che parlano alla nostra parte spirituale e morale.

Le fiabe invece si occupano della nostra psiche, dei nostri movimenti interiori, spesso inconsci, legati all’infanzia, alla crescita. Ma si occupano anche del folklore, di quei momenti e consuetudini relazionali e familiari che per millenni sono stati parte integrante della società e che non possono essere estirpati in una volta con una semplice fredda divulgazione di nuove regole da parte del monarca.

Ad esempio, molte fiabe tradizionali riportano tracce di quelle che furono le antiche iniziazioni dei giovani delle tribù: Hansel e Gretel mandati nel bosco, così come Cappuccetto Rosso, Pollicino, Masha, Riccioli D’oro… Un tempo i ragazzini venivano accolti in una capanna, magari da uno/a sciamano/a che indossava una pelle d’orso o di lupo, e venivano sottoposti a dure prove fisiche: se le superavano, erano pronti a diventare adulti produttivi per la comunità, e se non le superavano, be’… bocche in meno da sfamare. Era dura la vita ai tempi dei cacciatori/raccoglitori.

Ma le fiabe sono una narrazione moderna. Ora lo spirito animale è un lupo feroce, la sciamana è una strega cattiva. Vanno uccisi.

Nella società mesolitica, se un ragazzo avesse salvato la vergine gettata nel fiume in sacrificio allo spirito serpente, gli altri lo avrebbero scannato. Secondo le loro credenze, quel ragazzo avrebbe messo in pericolo tutto il villaggio! Il fiume adirato sarebbe esondato e avrebbe distrutto tutto! Ma nelle fiabe non si crede più a queste stupide superstizioni. L’eroe uccide il drago e salva la ragazza, che non deve più venire sacrificata. Ed è il Re stesso a dargli mandato. È arrivato il progresso!

Spesso il confine tra mito e fiaba è labile, come nella storia di Edipo che ha diverse componenti fiabesche (ad es. viene abbandonato nel bosco da bambino), o Perseo che salva Andromeda dal mostro come succede anche in altri miti e leggende di ogni cultura, dalla Norvegia fino all’India.

Alla luce di questo, le fiabe sono già nate come racconti ideologici. Servivano a trasmettere e a consolidare nella psiche delle persone un modo nuovo e – per l’epoca – moderno di pensare. Un mondo che si stava svincolando dal caos di una società animista e – per i nuovi parametri – “incivile”. Raccontavano il progresso.

In questo nuovo contesto ideologico, c’era anche il consolidamento di una gerarchia prettamente maschile. Non che prima il potere nelle comunità fosse nettamente matriarcale: ci sono ipotesi abbastanza accreditate sul fatto che nella preistoria alcune comunità fossero governate dalle donne, ma nell’epoca di cui stiamo parlando probabilmente la situazione era già più sfumata e, per certi versi, caotica.

Ma ora c’è lo Stato, i confini da difendere, un nuovo ordine da strutturare rigidamente. La nuova società basata sulla proprietà privata fa ricorso alla violenza ancora più di prima. Il potere maschile prende il controllo, il patriarcato si consolida come ordine costituito. Non c’è un giusto e uno sbagliato, semplicemente il contesto è quello ed è così che ha funzionato per millenni.

Le fiabe sono quindi sempre rimaste uguali a se stesse? Niente affatto. A quella radice antichissima si sono aggiunti strati e ramificazioni. Ad esempio alcune sono state raccolte e/o inventate da poeti di corte per intrattenere l’aristocrazia (vedi Lo cunto de li cunti del letterato napoletano Giambattista Basile, nel XVII secolo), quindi presentavano alcuni caratteri (satira, situazioni pruriginose) adatte a quella specifica audience. Nel XIX secolo i Fratelli Grimm raccolsero quelle germaniche dalla viva voce del popolo, già modificate e riarrangiate da secoli di tradizione orale. Ogni narratore ci ha messo dentro qualcosa di proprio, e sempre queste fiabe presentavano un misto di tradizione e zeitgeist. Carl Gustav Jung parlava giustamente di inconscio collettivo. I Grimm appartenevano a un filone intellettuale (come Schlegel, Fichte, Wagner) che intendeva portare alla luce e consolidare un’identità della nazione germanica. Peccato che poi questo sforzo culturale sia stato in seguito strumentalizzato dai nazisti. Però, ancora una volta, quella dei Grimm era un’operazione ideologica.

Poi, nel ‘900, arriva Walt Disney. Intuisce l’enorme potere delle fiabe. Storie che scorrevano sottotraccia nella cultura europea, ma anche in quella americana visto che l’intero continente è in gran parte abitato da immigrati o discendenti di immigrati europei. Disney vuole estendere il suo mercato in Europa, per questo pensa che l’ideale per unire le culture occidentali sia proprio un adattamento di una fiaba, nello specifico Biancaneve. Impresa che al momento si rivela disastrosa per via della situazione politica e bellica europea, ma l’amo è stato gettato, molte altre fiabe giungeranno sul grande schermo, e con enorme successo. Perché Walt e i suoi artisti erano geni e grandi narratori.

La motivazione di Disney è economica, ma anche queste nuove versioni delle fiabe divulgano i valori della società americana dell’epoca, un ponte culturale e a tratti politico tra le nazioni occidentali per riconoscersi quali “parenti” e quindi alleati. Insomma, per l’ennesima volta le fiabe si modificano, e per l’ennesima volta rappresentano anche una giustificazione ideologica di valori comuni. Tra questi messaggi c’era anche che le donne dovevano imparare a “stare al loro posto”? Senz’altro.

Tutto questo discorso per dire cosa? Per dire che sono sempre state racconti in parte ideologici, che hanno sempre cambiato nel tempo, e che in sostanza da millenni le fiabe rappresentano lo stato attuale della società in cui vivono, le sue correnti culturali dominanti.

Le fiabe possono quindi cambiare? Certo che possono farlo. Però dipende se le nuove versioni attecchiscono o se saranno viste dal pubblico come corpi estranei.

Esattamente come succede per la lingua, è molto difficile imporre artificialmente delle modifiche a delle tradizioni così radicate nella società. Nella maggior parte dei casi, le fiabe sono cambiate insieme alla società, ne hanno raccontato l’evoluzione, l’hanno consolidata.

Si può certamente pensare di modificare le fiabe, ma prima dell’intento ideologico deve venire l’obiettivo di raccontare una storia, di muovere quelle corde emotive inconsce che rendono le fiabe creature vive e senza tempo, che da sempre raccontano di noi qualcosa di profondo e che difficilmente può essere espresso con un trattato ideologico, e forse nemmeno con un post come quello a cui mi accingo ora ad apporre il punto conclusivo.

2 thoughts on “La fiaba ideologica

  1. Condivido le argomentazioni esposte nell’articolo, dire che le fiabe sottendono un’ideologia è un po’ la scoperta dell’acqua calda. Le fiabe sono narrazioni che vivono, che cambiano a seconda di chi le racconta, a seconda dei luoghi e dei momenti storici, mentre quelli che resta immutato è il legame con paure ancestrali, con l’esperienza del male e della possibilità di affrontarlo e vincerlo grazie all’astuzia, o all’aiuto di qualcuno (uomo o animale) con cui si è stati gentili. Quelli che resta è la possibilità per i piccoli che ascoltano dalle figure familiari dei genitori o dei nonni questi racconti, anche terribili, di iniziare ad affrontare gli aspetti negativi della vita o i misteri che riguardano la crescita e le relazioni, in un ambiente protetto. Mi piacerebbe approfondire il tema a partire da questo bell’articolo. Avete qualche lettura da consigliarmi? Grazie!

    1. Salve, leggo solo ora il suo commento. Il miglior libro che abbia letto sull’argomento è senz’altro “Le radici storiche dei racconti di fate” del celebre Vladimir Propp

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