Lombroso incontra Pinocchio, con Barzi/De Stena
Su questo blog, come noto, seguo le intersezioni tra letteratura e fumetto, e avevo avuto quindi modo di parlare ampiamente de “Il cuore di Lombroso”, notevole fumetto di Davide Barzi e Francesco De Stena dedicato all’incontro tra i personaggi del Cuore di Edmondo De Amicis e il discusso antropologo Cesare Lombroso (vedi qui e qui).
L’opera mi era piaciuta particolarmente: del resto Barzi è un autore particolarmente abile nel tema dell’adattamento letterario a fumetti, un fil rouge che collega molte delle sue opere, a partire naturalmente dall’adattamento di Guareschi a fumetti, il suo ciclo principale, ma toccando poi numerosi altri autori come Chesterton, Brecht e così via. Il lavoro di De Stena, poi, è di una qualità eccezionale per accuratezza del dettaglio, riuscendo nel difficile intento di rendere visuali le minuziosissime ricerche documentarie di Barzi, aggiungendovi in più una evocazione magistrale dello “spirito” ineffabile di quella Torino fine secolo che, da buon provinciale piemontese residente a Torino negli anni degli studi, ho amato particolarmente.
Sono quindi particolarmente lieto che si sia giunti, intanto, a un secondo capitolo dell’opera, “Il naso di Lombroso”, uscito di recente in libreria lo scorso 10 febbraio 2023. Un segno delle evoluzioni del mercato fumettistico: il ciclo di Lombroso era iniziato in edicola, sul numero 63 de “Le Storie” di Bonelli, oggi chiuso in quella forma (e mantenuto come Le Storie Cult, collana però di ristampe e non storie nuove). Oggi, invece, si parte dal mercato delle librerie di varia, dove comunque il primo Lombroso era apparso in ristampa.
La continuità tra le due opere, per molti versi, è forte (anche se non siamo nell’ambito del sequel). Viene ripreso il calembour del primo capitolo: se là il rimando al Cuore era un richiamo al titolo, unitamente però al lato “emotivo” di un Lombroso colto anche nel suo aspetto “privato”, qui invece abbiamo il rimando al “Naso“, elemento pinocchiesco per eccellenza, ma anche un richiamo al “fiuto” del Lombroso investigatore.
Diciamo subito che, a mio avviso, l’opera mantiene le aspettative della prima, ma per certi versi il gioco dei due autori si fa ancora più raffinato. Come evocano titolo e copertina, se là ci si era confrontati con Cuore, qui si affronta l’altro grande capolavoro della letteratura per ragazzi dell’Ottocento, “Pinocchio”, opera che però trascende la dimensione nazionale di Cuore per divenire un capolavoro di tutti i tempi, e non solo italiano. Oltretutto, il “secondo padre” di Pinocchio è ritenuto l’illustratore Attilio Mussino, padre del fumetto italiano col suo (discusso, specie oggi) “Bilbolbul”). Un rimando seminale per il fumetto nostrano.
Un confronto quindi difficile, in cui era più complesso trovare una nuova prospettiva. In più, la complessità era data dallo scenario di partenza: il mondo del primo volume di Lombroso investigatore a fumetti è un mondo realistico, in cui i personaggi di Cuore si possono inserire senza problemi. Ma ovviamente inserire Pinocchio e il suo mondo poteva rischiare di richiedere una svolta verso il fantastico: oppure di giocare una partita virtuosistica di eccezionale difficoltà. Barzi e De Stena scelgono questa seconda opzione.
Consiglio, se non si è ancora capito, di comprare il volume, che è un prodotto a mio avviso particolarmente raffinato, e di tornare poi a questa mia analisi, in cui cercherò di minimizzare gli spoiler che, però, non posso garantire di ridurre a zero.
Fin dalle prime tavole, in cui ci fermiamo a osservare un inquietante spettacolo di burattini di strada con Lombroso e le figlie (un mangiafuoco “brucia” nel suo spettacolo un burattino) colpisce di nuovo l’accuratezza con cui l’elegante bianco e nero di De Stena evoca le atmosfere della Torino tardo ottocentesca. Si va quindi al Teatro Martignano, dove Barzi e De Stena inseriscono i loro nomi nella locandina di un adattamento di “Dalla terra alla luna”. Non è solo un inside joke, ma come al solito in Barzi una dichiarazione di intenti: il divertissment che ci prepara sarà una sorta di steampunk, ma – appunto – uno steampunk giocato ai limiti del possibile in quel contesto.
Uno dei problemi nello sviluppare Lombroso a fumetti sono i lati oscuri del professore, indubbiamente geniale per certi versi ma anche condizionato da teorie oggi (e, forse, non solo oggi…) discutibili. In un one shot, per paradosso, non sarebbe stato un problema così consistente, data l’eccezionalità del divertissment. Prolungando la serie, come ora avviene, ci si deve maggiormente premunire dai rischi di una apparente esaltazione della sua figura (dal 2017 inoltre sono passati 5 anni, ma – anche in Italia – la sensibilità si è fatta, anche giustamente, più attenta ancora).
Aggiungo una sfumatura, che Barzi mi pare abbia ben presente: Lombroso è in fondo anche lui un “padre oscuro” del fumetto italiano. Non solo come padre di Paola Lombroso, che qui appare, figura di educatrice meno problematica del padre, e ideatrice del formato del Corriere dei Piccoli (e, in un certo senso, di un certo pedagogismo del fumetto italiano, nel bene e nel male, incluso ovviamente Barzi). Ma anche proprio per il gusto inevitabilmente “lombrosiano” del fumetto d’indagine, una tradizione portante del fumetto avventuroso italiano, per la lezione bonelliana da Tex in giù, una dinastia di indagatori i cui nemici criminali vanno espressi innanzitutto graficamente. Ricordo che in qualche suo acutissimo scritto se ne lamentava un po’ Alfredo Castelli, ma siamo nei dintorni dell’inevitabile: lombrosiani sono ad esempio tutti i più riusciti antagonisti dell’eccezionale Commissario Spada di Gonano / De Luca, uno dei vertici del fumetto italiano di detection.
In questa storia, quindi, noteremo un Lombroso letto in una luce più critica, pur senza togliergli un certo acume, un certo coraggio nell’indagine, insomma senza cadere nella macchietta opposta. A bilanciarlo, una assistente che non è “una Watson”, ma ha una sua forte autonomia: Silvia Bottini, la sorella maggiore di Enrico di “Cuore”, che forma il raccordo con la storia precedente, pur non trovandoci in una connessione precisa di sequel o prequel, ma in una diversa variazione sul tema (Barzi parla di “Non sequitur”, prendendo a prestito la “spezzatura” tra due vignette secondo la definizione di Scott McCloud. Una spezzatura di continuità di senso che qui viene applicata, con un certo coraggio, allo “spazio bianco” tra i due albi).
Una nota a margine ma, forse, non tanto: in questi giorni, su Netflix, debuttano le vicende della prima donna-avvocato d’Italia, Lidia Poet (gloria, tra l’altro, del mio liceo di Mondovì, che spero colga il destro per celebrarla maggiormente), laureata a Torino, anche se in Legge e non Medicina legale come Silvia (la Poet aveva comunque frequentato Medicina a Torino, sotto Lombroso). Figura storica e pionieristica come Paola Lombroso, ma indagatrice come Silvia Bottini, che mi pare un personaggio potenzialmente molto interessante anche per ulteriori sviluppi futuri, in un momento in cui c’è un bisogno – a mio avviso giustificato – di rinnovare il parco di eroi femminili nella fiction (in Bonelli, solo “Julia“, in un parco di testate piuttosto ampio).
Ma torniamo alla storia. Allo spettacolo Lombroso ha con sé le figlie Gina e soprattutto Paola, la Paola Lombroso del “Corriere dei Piccoli”, di cui abbiamo detto (ricostruisce con cura la vicenda l’ottimo saggio storico di Cuccolini riedito da ComicOut di Laura Scarpa). La madre del fumetto italiano, ancora bambina, verrà rapita in seguito a un parapiglia che chiude la serata, e questo fornirà lo spunto narrativo della drammatica indagine della storia all’interno del mondo marionettistico: un “teatro delle ombre” che, si lascia per ora implicito, potrà avere un influsso anche in quel nuovo “teatrino di carta” che Paola Lombroso andrà poi ad allestire. Un elemento comunque che resta sullo sfondo: una particolarità – e un pregio, specie per chi non ama troppo il metanarrato – di Barzi è lasciare questo piano a un secondo livello, implicito, per il lettore che si appassioni a questi simbolismi, senza modificare troppo il primo livello di narrazione, che prosegue scorrevole.
Il segno di De Stena che ci accompagna in questo incipit drammatico ed efficace si rivela parimenti meritorio nell’evocazione, come detto, di scene storiche complesse, difficili, rese minuziosamente. Personalmente conosco, senza particolar merito, molto bene l’ambientazione scelta dagli autori, dato che vi ho dedicato la mia lontana tesi di laurea in storia del teatro, un quarto di secolo fa. E colpisce come le immagini evocate risuonino autentiche, vere: mentre Barzi, giustamente, si prenderà il carico di portarci in un viaggio volutamente ai limiti del credibile, per affascinarci con “le meraviglie del possibile”, per usareun termine caro alla SF d’antan, De Stena farà in modo di ancorare sempre il risultato a una forte credibilità narrativa data dal realismo delle immagini, e solo da questo raffinato equilibrio di fantastico e verisimile giunge la fascinazione che promana da questa storia, che proprio per questo, come il miglior fumetto, è davvero pienamente “co-autoriale”.
Ma naturalmente De Stena dà un contributo forte anche al tono emotivo della storia, resa forse ancor più cupa della precedente da un segno che si fa più spigoloso, più duro per certi versi, nelle linee perfettamente intagliate come nel netto contrasto chiaroscurale, spesso in un prevalere dei neri. In questo De Stena – come negli autori che, ai vari livelli, hanno reso la tradizione bonelliana gloriosa – si vede la forza di un bianco e nero a contrasto netto se abilmente usato, specie per storie che abbiano dalla loro una certa cupezza di fondo. E non, ovviamente, che la precedente avventura non fosse anche compiaciutamente “gotica”: ma qui la maggior cupezza è portata dall’intrecciarsi a un maggior “fantastico” un più forte tema sociale, che rende l’opera più complessa ancora, e per certi versi più matura. E il segno, pur in una forte continuità, sembra seguire questa evoluzione.
Proprio questa accuratezza del segno, inoltre, consente di dar forza all’uso – parsimonioso e per questo efficace – di brillanti soluzioni grafiche come una tavola interamente “al nero”, per rafforzare e al tempo stesso smussare uno dei momenti più drammatici, con i due bambini nelle mani dei rapitori.
Nell’avvio della storia si scopre infatti che non solo Paola Lombroso è stata rapita: ma anche il giovane principe ereditario, Vittorio Emanuele III (oggi mio postumo concittadino, ospite permanente del mausoleo sabaudo che è il Santuario di Mondovì presso Vicoforte). A indagare, il suo ferreo precettore militare, l’Osio. Non scompare solo la futura madre del fumetto: ma anche il vero padre oscuro della patria, che dannerà la sua dinastia facendo sprofondare il millennio di preparazione sabauda al regno in un impero che si macchierà di colpe indicibili, producendone la caduta. Molti hanno speculato sui traumi che lo segneranno: e oltre la morte del padre, assassinato da Bresci all’inizio esatto del nuovo secolo, incise pare la durezza del precettore, il colonnello Osio. Naturalmente, in questa storia, il trauma del rapimento potrebbe rinforzare quelli che lo attenderanno crescendo in un difficile Novecento ove compirà però tutte le scelte sbagliate.
Barzi insomma rilancia, e affianca a un Holmes discutibile, Lombroso, un Lestrade ancora più criticabile, Osio, per meglio operare la decostruzione critica che del suo eroe compie nella storia. Inoltre è evidente il doppio rilancio narrativo: l’indagine è di enorme rilevanza personale per Lombroso (salvare la figlia) e e per lo stato (salvare il Principe).
Non seguirò a questo punto passo passo tutte le evoluzioni dell’indagine, per non togliere il gusto alla suspense propria di ogni detection story: nel loro procedere, tuttavia, il trio di indagatori si confronterà con tutti gli archetipi pinocchieschi, che qui appaiono credibilmente rimescolati ma comunque presenti. Alle figure di Pinocchio si mescolano però anche tutti gli archetipi di quel tardo Ottocento postunitario, tutti i nomi ricorrenti della contro-storia d’Italia che stenta a farsi strada sotto la narrazione unitaria più patriottica che, al limite, si è sgretolata in una critica “materialistica” che, però, pur in una certa esattezza nel cogliere le tensioni sociali, non ne traccia la trama affascinante e terribile.
Ne ha trattato, per paradosso, più il romanzo che la divulgazione storica (ovviamente esiste invece lo studio specialistico): a partire da Anna Banti, ovviamente, ripresa al cinema da Martone nell’omonimo “Noi credevamo”, ma forse ancor più, in questo filone di utilizzare il fantastico per parlare della storia, l’Umberto Eco de “Il cimitero di Praga”, il migliore dei suoi romanzi “minori” dopo il Nome della Rosa e il Pendolo di Foucault, i due primi e maggiori.
Tramite il terribile Capitano Simonini (un antieroe molto più netto dello sfaccettato Lombroso di Barzi) in questo romanzo seguiamo tutte le pieghe oscure della storia unitaria e post-unitaria. Qui ovviamente Barzi sceglie una pista tra le molteplici, la ingarbuglia con giallistica perizia e poi ce la dipana allargando le spire della cospirazione fino a lambire il tema dell’orrore coloniale italiano, allora ai suoi drammatici esordi, descritte in tavole in cui De Stena pare citare, con merito, il segno di Sergio Toppi (che spesso ha rappresentato il mondo lontano, Africa inclusa).
Il tutto porta a uno steampunk nicciano (la potente splash page di p.77, ben calibrata anche grazie alla parsimonia con cui gli autori usano tale espediente) e a un finale dove il giallismo accelera non solo nell’azione avventurosa, ma anche in certo orrorifico quasi sclaviano. I freaks, abbiamo ormai capito, hanno le loro ragioni (che qui non sono solo genericamente “patetiche”, ma documentate storicamente) ma – come nel migliore Sclavi – restano “mostri”, anche feroci (ad esempio assalendo appunto i due bambini, in ogni caso – almeno per ora, anche Vittorio Emanuele – innocenti).
La origin story di Mangiafuoco, forse non casualmente, viene ad esempio narrata con un espediente di cornice liberty che funziona perfettamente nel contesto, ma che richiama quello dello Sclavi dell’età dell’oro su Dylan Dog, che narrava le tremende origini dei suoi mostri con storie in cornicette volutamente contrastanti nella loro graziosità. Esattamente come qui.
Il crescendo rossiniano conduce poi a un finale di assedio navale in cui la spettacolarità è massima, anche grazie all’accurata costruzione del momento drammatico. Viene in mente, per certi versi – per mera analogia: è un grande archetipo narrativo, da tempo immemore – l’attacco navale ad Approdo del Re in Games of Thrones, ovviamente con sviluppo ed esito differente (l’elemento comune, la vittoria con astuzia, è un topos implicito in questo luogo narrativo).
Il sovraccarico che si genera in questo finale funziona a livello drammatico; ma tra le righe pare anche un omaggio a un certo gusto dei “fuochi artificiali” dello spettacolo marionettesco, dove tutte le cartucce vengono sparate in un gran finale di massimo effetto.
Il finale chiude tutti i fili nelle mani di un Lombroso tornato marionettista del crimine nella sua razionale sistematizzazione in studio, mentre l’avventura l’ha visto più volte spaesato e affranto: e la chiusura ci conferma definitivamente il cammino nell’ucronia.
Un terzo capitolo della serie ci attende, e speriamo che il successo, come talvolta capita in Bonelli, apra la strada a ulteriori esperimenti di questo tipo. In particolare, mi piacerebbe un maggiore sviluppo della figura di Silvia Bottini, che qui acquisisce già una certa tridimensionalità, ma che troverei interessante ulteriormente indagata, magari anche dandole ulteriormente quella complessità che Barzi sa infondere ai suoi personaggi migliori.
Particolarmente efficace mi pare poi l’approccio al testo letterario, che viene qui avvicinato non per un adattamento didascalico (che spesso è, ovviamente, didatticamente utile) ma come materiale di partenza da rielaborare con una fedeltà ludica che rappresenta il miglior omaggio possibile. Il fumetto potrebbe anche avere una sua ricaduta didattica, come spunto per approfondimenti, anche a partire dalle ottime schede finali, con materiali di lavorazione e una accurata guida di Barzi e De Stena alle scelte compiute nel loro lavoro. Ma, in primis, resta un brillantissimo gioco fumettistico postmoderno, una decostruzione e ricostruzione che attinge dalla forza dei classici per intrattenere il lettore e suscitargli riflessioni sempre valide. E, forse, in questo difficile momento storico, ancora di più.