Pubblicato da Barta Edizioni, Fino a 21 é un opera innovativa che Cristina “Ki” Casini crea sfruttando la sua esperienza da regista. Attraverso la tecnica del mash-up Ki ha assemblato diverse opere di Henri de Toulouse Lautrec fino a creare una narrazione autonoma. Come nasce quest´idea? E come si sposano tra loro cinema, fumetto e pittura? L´abbiamo chiesto direttamente a lei.
Ciao Cristina e benvenuta su Lo Spazio Bianco!
Come nasce l’idea di Fino a 21 e perché proprio Toulouse-Lautrec?
Ciao! Dunque l’idea, di attingere alla sconfinata produzione di Lautrec per realizzare un fumetto, nasce da una proposta del mio editore. Io avevo appena pubblicato con Barta Edizioni un altro lavoro realizzato componendo una storia con le opere già esistenti dell’artista Cristina Gardumi, che però non era un fumetto e andava più nella direzione di un albo illustrato. Così, quando mi è stata proposta questa sfida più complessa, è stato molto stimolante, anche perché ho sempre voluto bene alla figura di Lautrec e l’idea di poter fare un fumetto da sola, come se fosse un film di montaggio, mi esaltava non poco. Solo tre cose mi sono state chieste di inserire: che fosse una storia d’amore, che lui fosse un fantino (tutta l’idea partiva dalla bellezza dei bozzetti delle corse dei cavalli) e che avesse una disabilità (in modo da far sentire tra le righe quella di Lautrec stesso).
Quali sono state le difficoltà nel confrontarsi con un artista come Toulouse-Lautrec, un pittore che, nonostante le influenze del postimpressionismo e dell’Art Nouveau, rimane difficilmente inquadrabile in una corrente artistica?
Non ho avuto nessuna difficoltà con Henri (scusa lo chiamo per nome perché ormai siamo in confidenza), mi sento molto affine alle persone difficilmente inquadrabili. Ma soprattutto, a parte gli scherzi, il mio approccio non è stato da storica dell’arte o da fumettista, piuttosto forse, proprio da regista. C’era un materiale estremamente vivo, cangiante, che aveva tantissime cose da dire, da esprimere, io ho cercato di ascoltarle e di farle interagire tra loro, dirigendo tutto verso una storia.
Uno degli elementi centrali nella trama di Fino a 21 è l’estrema difficoltà che hanno i due protagonisti di comunicare tra loro. Il loro sentimento appare puro, sincero. Ciononostante, questa fondamentale, quasi ontologica incapacità o persino impossibilità di capirsi e di conoscere veramente l’altro sembra rimanere inevitabile. Ci puoi parlare di questo aspetto? Sono solo Nanà e Pier colpevoli dei loro fraintendimenti e della loro distanza, oppure è una realtà in fondo imprescindibile nel rapporto con l’altro?
Per me le persone sono universi complessi e mutanti che difficilmente sanno veramente cosa stanno facendo e cosa li muove. Si raccontano delle cose per dare un senso al loro essere, ma fondamentalmente sono supernove di desideri, paure, sogni, traumi, ricordi, cose non dette. Entrare in contatto con l’altro è possibile, è potente e bellissimo ma, per la mia esperienza, (se vogliamo rimanere in tema con il cielo sopra di me…) dura quanto un’eclissi.
Rimanendo su questo tema e citando brevemente il tuo cortometraggio, Tra le dita: anche in quel caso c’è un legame tra il sentimento di due persone – Emma e Felice, interpretati da Elsa de Belilovsky ed Ettore Scarpa – e la difficoltà a esprimerlo e a conoscerlo veramente, e anche in quel caso uno dei personaggi, Emma, ha una disabilità fisica, essendo non vedente. Cosa differenzia – o cosa accomuna – Emma e Felice a Pier e Nanà?
Scrivere personaggi a cui manca qualcosa, per me, è renderli vivi. Che sia un senso, come la vista o la parola, o semplicemente i genitori (come per Pier e Nanà che sono orfani cresciuti nel circo) per me non cambia molto. Mi piace non dare niente per scontato ed entrare in altri corpi e teste. A tutti manca qualcosa. Il modo in cui le persone reagiscono a quel pezzo mancante, ecco, quello mi interessa.
Uh…non so cosa abbiano in comune Emma e Felice con Pier e Nanà… Essendo state prima di tutto voci nella mia testa, non credo di essere più in grado di poterlo dire io, ma chi li incontra. Infatti per me è interessante la lettura che ne hai fatto tu a questo punto.
Parliamo di multimedialità. Considerando anche la tua formazione accademica e professionale, lavorare con differenti media non è per te una novità, ma il tuo approccio al fumetto – almeno in qualità di autrice – è relativamente recente. Correggimi se sbaglio: Tu sei prima di tutto regista e filmmaker, e ti sei avvicinata al mondo del fumetto dal 2021 con Classici Ambienti Tossici, scritto con Cristina “Gardums” Gardumi. Prima di tutto: come matura questa scelta di avventurarsi dal media audiovisivo al fumetto? Quali peculiarità hai riscontrato nel fumetto rispetto altri media e cosa consente – o non consente – di fare ed esprimere il fumetto paragonato ad esempio al film?
Quando ero piccola ero estremamente chiusa su me stessa. Passavo le mie giornate, ovunque fossi, a testa bassa su un tavolino a disegnare. La vita, che poi erano fondamentalmente gli adulti, erano solo suoni, le loro conversazioni fuori campo o per citare il contesto in cui siamo, erano fuori dalla cornice di quello che disegnavo, nello spazio bianco. Per entrare in contatto con il resto del mondo ho dovuto alzare la testa da quel foglio e dalle mie mani, ma per riuscire a farlo è stato necessario mettere una macchina fotografica, un obiettivo tra me e lo spazio bianco, qualcosa dietro cui nascondermi.
Ma, mi è sempre rimasta la nostalgia della carta, della sua porosità, del segno, del tratto, quindi quando ho conosciuto su un set Cristina Gardumi (Gardums) e il suo lavoro, ho riconosciuto qualcosa di affine e le ho proposto di collaborare, di provare, sperimentare, fondamentalmente di giocare. Le sue opere sono sovversive e difficilmente inquadrabili (cit.) aperte a molte letture, così cercarci dentro una storia è stato molto interessante.
Credo che per fare un film e per fare un fumetto ci voglia, in entrambi i casi, una buona dose di capacità di osservazione, un apparato visionario ben sviluppato e una mania del controllo da sfogare da qualche parte. Se una persona riesce a indirizzarli nella produzione di film o fumetti, sicuramente, abbiamo meno serial killer in giro. Poi per quanto riguarda le differenze, sicuramente per fare un film devi avere un apparato produttivo enorme rispetto a un fumetto, muovere, coordinare e collaborare con tante persone. Anche solo un cortometraggio implica spostamenti, letti, catering, attrezzature, maestranze diverse e un continuo ascolto e orchestrazione di tutti. I tempi sono dilatati e non puoi avere quell’immediatezza del fissare le cose, per come saranno, come fai nel fumetto. Essere regista è più schizofrenico perché devi fare i conti con la realtà continuando a credere nella tua visione, mentre se fai fumetti sei più ossessivo compulsivo e puoi dimenticarti del resto del mondo per un bel po’, fino al punto di accorgerti che non ci vedi più perché ti sei dimenticata di mangiare. Tutto questo porta alla differenza sostanziale che permette al mezzo del fumetto/graphic novel di avere una maggiore intimità con quello che vuoi raccontare e una libertà creativa davvero esaltante e piena, mentre nel cinema raggiungere la sincronia di tutti e filmare qualcosa che diventa vivo ed emoziona sotto i propri occhi è una magia, o forse un’illusione, incredibile anche perché condivisa con la troupe.
Nei tuoi lavori i differenti media non rimangono separati ma si integrano e interagiscono l’un l’altro. Fino a 21 è un esempio emblematico a questo proposito: non solo è un fumetto (o graphic novel, come preferisci?) che si unisce a una delle forme di arte “classiche”, ovvero la pittura, ma lo fa anche adottando una tecnica cinematografica chiamata mash-up. Cosa significa per te adottare un approccio multimediale e quali sono – se ci sono – le difficoltà di sposare tra loro due differenti forme d’arte? O cosa consente di fare tale operazione?
Guarda non lo so. Io so solo che le cose che ho in testa escono fuori solo se le metto assieme ognuna a modo suo. E non sto a vedere il contenitore in cui saranno fruite all’inizio, poi chiaramente se vedo che possono vivere senza di me, che non sono quindi solo cose egoriferite o sfoghi o giochi inutili, allora affilo la forma e il linguaggio che le contiene o che contiene gli altri linguaggi. Ma non ti so dire come avviene. Quando nascono le cose nella mia testa uso gli strumenti che ho come persona, non come professionista, solo dopo prendo coscienza di cosa è meglio usare per cesellare, ma a quel punto ci sono già dentro materie e grane diverse.
Rimanendo sulla falsariga del rapporto tra fumetto e cinema. Hai portato una tecnica cinematografica nel fumetto: è avvenuto anche l’inverso? Il tuo lavoro da regista è stato influenzato dalla sua esperienza da autrice di fumetti? Ha adottato tecniche fumettistiche nelle sue riprese o pensi che lo farai? Ci sono fumetti o graphic novel ai quali sei particolarmente legata o autori/disegnatori che preferisci o dai quali trai ispirazione?
La mia passione per le graphic novel ha tante sfaccettature. Cresciuta con Charlie e Snoopy, passata a Calvin & Hobbes, appassionandomi poi (grazie a Tondelli) ad Andrea Pazienza, alla fine ho fatto l’incontro con la collana Black della Coconino che mi ha fatto scoprire un mondo incredibilmente stimolante per la ricerca che stavo facendo sull’immagine cinematografica. I tagli di inquadrature, l’uso della luce e del colore, l’espressività del tratto da ricreare con la luce, la costruzione di sequenze narrative o emotive e l’uso dell’ellissi erano fuochi d’artificio nel mio cervello. Ricci, Bruno, Gipi, Giandelli, Mattotti e poi Mc Kean, Spiegelman…tutte esplosioni di supernove.
Prima di salutarci, vuoi raccontarci dei tuoi progetti futuri? Saranno film o fumetti?
Nei progetti futuri ci sono tante cose di carta, i film al momento me li faccio ancora in testa e in sceneggiatura, ma la macchina produttiva del cinema è un Grande Mostro che per ora ho messo a lato. Quindi sta per uscire a gennaio, sempre per Barta, un progetto collettivo su Pier Paolo Pasolini ideato da Nanni Spano e che racchiude i lavori di Luca Ralli, Andro Malis, Stefano Zattera, Marco Corona, Andy Prisney, Guglielmo Manenti, nonché un altro mio lavoro fatto con Gardums; poi sto lavorando a una graphic novel in cui stiamo sperimentando il collage con Lapidalagallina (Linda Sorrenti); e infine un’altra marea di cose che chissà se vedranno la luce, ma soprattutto sto lavorando a una storia su mio nonno, tornando a abbassare la testa su un foglio da sola, ma si vedrà…
Grazie per la tua disponibilità, Cristina.
Intervista realizzata via mail nel mese di novembre 2022
Cristina Casini
Ki? Esattamente. Regista e autrice ha vinto il Globo d’Oro 2016 con il corto Tra le dita. Ha insegnato al Festival dei Popoli di Firenze, allo IED di Venezia e Milano e infine al DSL dell’Università di Udine. Al momento conduce Visioni Personali, laboratori di cinema, fotografia e scrittura. Nel 2021 pubblica per Barta Edizioni, insieme a Cristina “Gardums” Gardumi la sua prima graphic novel, Classici ambienti tossici.