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Corto-circuiti mnemonici e parole tappabuchi

Stavolta mi va di scrivere un post che non abbia direttamente a che fare con la scrittura per i fumetti, ma che sia più generico e allo stesso tempo più specifico. Più generico perché l’argomento sono le parole, più specifico perché riguarda me stesso nella quotidianità.

Sono certo di non essere l’unico a cui succede questa cosa: mi capita a volte mentre parlo di veder scomparire momentaneamente dal mio cervello certe parole, anche molto semplici. Per fare un esempio, per anni sembrò scomparsa dalla mia testa la parola alligatore: ogni volta che volevo pronunciarla, non c’era. È incredibile quante volte in un anno può capitarti di voler dire “alligatore”.

Le parole sono come le persone: ti rendi conto davvero della loro importanza solo quando vengono a mancare.

Questa disfunzione mnemonica l’ho sempre avuta fin da bambino, tanto che passavo interi minuti a blaterare “Eeeh… eeeh…” perché non accettavo di fare una perifrasi: finché non mi veniva in mente la parola esatta, mi bloccavo come un Internet Explorerloading gif mentre carica una gif. Visto il ristretto vocabolario medio di un bambino, vi lascio immaginare il livello disastroso delle mie conversazioni. Questo naturalmente provocava irrequietezza e malsopportazione nei miei interlocutori, specialmente se si trattava di interrogazioni scolastiche, risultando in voti poco lusinghieri.

Crescendo, si impara a fare le perifrasi, con conseguente miglioramento delle conversazioni. Ma non solo: l’acquisizione di nuovi vocaboli in seguito all’apprendimento di altre lingue (prima francese, poi inglese), mi è venuta in soccorso, riempiendo a volte i momentanei buchi di memoria. Se questo riesce nell’intento di dare una boccata d’aria al mio cervello nell’istante asfittico dell’amnesia, non è che abbia migliorato troppo la qualità della conversazione (non quanto il potere della perifrasi), anzi: tirare fuori vocaboli stranieri senza una necessità conclamata ti fa fare la figura del saccente e dell’esterofilo.

In certi casi il corto circuito con una parola straniera può essere giustificato dal fatto che essa racchiude in sé un preciso significato non previsto da alcun vocabolo italiano. Per dire, la parola Delighted ha un significato – almeno per come l’ho intesa io – che noi potremmo individuare con un prodotto di termini quali “contento”, “ammirato”, “meravigliato”. Qualcosa come “stupito di ciò che è successo in un senso talmente positivo da esserne estremamente felice”. In questo senso, nella mia testa visualizzo delighted come essere investiti da una luce (enlighted) che ci sorprende e ci pervade di felicità. È solo una mia fantasia, visto che delight ha la stessa radice dell’italiano diletto, cioè il latino diligere, che significa “amare per elezione”. Resta il fatto che se voglio comunicare quel determinato stato d’animo, quello di delighted, per esprimerlo in italiano devo “accontentarmi” di termini che nella mia testa non lo individuano in maniera immediata e inconfondibile.

Ma senza volersi addentrare negli assurdi meandri della mia personale percezione delle parole, basta fare l’esempio di celebri vocaboli tedeschi quali ad esempio Fremdschämen (qualcosa tipo fremdschamen“vergognarsi della brutta figura fatta da qualcun altro”) per capire come spesso le lingue possano venirci in aiuto nel definire significati e suoni nuovi da associarvi.

Quello che mi succede però è che questa specie di tappabuchi terminologico viene applicato dal mio cervello non solo per i termini che non hanno un diretto corrispettivo italiano, ma in generale ogni volta che non mi viene in mente la parola che vorrei pronunciare. Per cui mi può capitare che scompaia dalla mia mente la parola influenzato e affiori esclusivamente Affected.

Il vero problema delle mie conversazioni – e qui mi piacerebbe sapere se succede anche a qualcun altro – è che il virus delle parole straniere tappabuchi a volte produce un corto circuito lessicale oltremodo assurdo. Quando affiora in superficie una parola straniera al posto del suo corrispettivo italiano, mi trovo a ravanare nel mio cervello alla ricerca della traduzione italiana. La mia mano si immerge sperando di afferrare il concetto giusto, e spesso la prima parola che incontra non è la sua vera traduzione, ma un cosiddetto false friend. Ossia una parola che somiglia a quella straniera per assonanza, ma che non ne è il reale corrispettivo nostrano.

Per esempio, mi è capitato di voler dire “Sono stato influenzato” e di pensare invece “Sono stato affettato”.

Oppure mi è capitato di dire “Metalmeccanico che lavora in fattoria” (factory).

Oppure di voler dire “scontroso” e di inventarmi un inesistente “grumposo” (grumpy).

Ma uno dei peggiori corto-circuiti mi è venuto una volta da una parola già citata nel post.

La mia testa aveva pensato “She was delighted”, la bocca aveva pronunciato:

Lei era dilatata“.