Il mio fumetto quotidiano #29: “Dylan Dog #401 – L’alba nera”
Almeno un fumetto al giorno: questo l’impegno che mi sono preso per il 2020… Non recensioni, ma impressioni di lettura, sensazioni, ispirazioni.
Generalmente in questo spazio scrivo di fumetti di qualche tempo fa che non avevo colpevolmente letto. Faccio un’eccezione per questa occasione per “emergenza”: in realtà avrei voluto (vorrei!) fare un articolo sui tre numeri di passaggio di Dylan Dog, dal #399 al #401, ma realisticamente nell’immediato non avrò il tempo materiale per farlo, ergo…
Per chi vivesse in qualche sperduto angolo di mondo, questi tre numeri rappresentano uno snodo importante e non solo simbolico nella storia del personaggio di Tiziano Sclavi che ufficialmente dal 400 lascia in “eredità” la sua creatura nelle mani del curatore Roberto Recchioni, chiamato a essere ora più di un supervisore ma l’anima di Dylan Dog.
Arrivo al #401 con diversi timori.
(ATTENZIONE: QUI CI SARANNO UN PO’ DI SPOILER SUL #399 E SUL #400, SIETE AVVISATI)
Il #399, l’albo del famigerato matrimonio, è stata una grande delusione, un numero frenetico, zeppo di roba che sarebbe stata bene almeno in un paio di numeri, con personaggi che ho trovato troppo stiracchiati verso una caratterizzazione pulp – Bloch e Jenkins come due aitanti cacciatori di vampiri non li ho retti – e una generale mancanza di tensione ed emozione in una storia che invece avrebbe potuto e dovuto puntarci forte. Tutto accade in maniera veloce e fredda.
Di contro, il #400 l’ho trovato molto più interessante e coinvolgente, un viaggio in un mondo distrutto alla ricerca di una memoria perduta verso lo scontro con il padre. Certo, qualche citazione me la sarei risparmiata (specie quella a Blade Runner, che mi pare buttata un po’ lì, o la scena ripresa da Apocalypse Now…), ma nel complesso ho ritrovato quel gusto per il non pienamente detto, per il non pienamente noto, che mi ha convinto. Poi vabbè, c’è Angelo Stano. Qui Stano è impressionante, avrebbe dato spessore anche alla lista della spesa.
INSOMMA, IL #401?
Ok, finite questi appunti confusi su un articolo che non scriverò mai, come ho trovato questo #401?
Meno peggio di quanto avessi sentito dire. Soffre per me di alcune parti troppo veloci, di stacchi con poco “spazio bianco”, con poco respiro.
(Finisco spesso per usare questo termine, “respiro”. Ma che intendo con “respiro”? Intendo che mi va bene avere scene in cui trattengo il fiato – che possono essere sequenze di pura azione come anche intensi dialoghi, o scene di atmosfera pesante o solenne, insomma un insieme sequenziale di tavole nelle quali l’attenzione è massima e che leggi senza quasi dar peso a quello che ti provoca la lettura – ma poi avverto il bisogno di un momento di respiro: quello in cui riprendi fiato e realizzi pienamente quello che hai letto prima di passare oltre. Può essere un cambio pagina ben orchestrato, una vignetta più grande che impone una pausa, il passaggio di scena con del silenzio, ci sono mille modi…)
Torniamo all’albo: Dylan Dog è Dylan Dog? Sì e no. Intanto c’è da capire se quello che leggiamo è lo stesso che troveremo alla fine di questo ciclo di 6 albi, o se non è solo uno dei tanti Dylan possibili e raccontabili (o che saranno raccontati).
Per quel che ho letto in questo numero, mi è parso per certi versi debitore del Dylan Dog dei primissimi numeri, un poco più spaccone, più sicuro di sé, più d’azione; certo, un poco diverso da come il personaggio si è poi consolidato in tanti anni di storie. Il gusto citazionistico spicca ancora più palese, con Dylan che si esprime consapevolmente per frasi prese dai film. Il rischio in questo sta tutto nella misura secondo me, è facile finire nel troppo che stroppia. E anche il darsi di gomito sulla metatestualità a un certo punto stanca, andrebbe dosato in maniera meno sfacciata.
Curiosa la scelta di presentare tanti personaggi in un ruolo leggermente diverso, con caratteristiche simili ma non uguali; l’effetto è straniante e incuriosisce, anche se dà l’impressione di avere di fronte un “What if?”. Ecco perché viene spontaneo chiedersi se tutto questo resterà così, se questo è il Dylan Dog di Recchioni, o se si sta trattando di un percorso di ricostruzione dopo quello sostanzialmente di decostruzione. Uno, nessuno o centomila?
Non mi sono sentito tradito a morte (ma io forse da tempo non sono più il lettore viscerale di Dylan Dog di una volta), l’albo per alcune cose mi è piaciuto per altre meno, ma la lettura è passata senza farmi storcere il naso (come è successo con il #399, per dire).
In chiusura, dirò una cosa per la quale mi farà dei nemici: Corrado Roi per me non era il disegnatore più adatto. Sia chiaro, per gran parte delle tavole è al suo meglio, evocativo, maestoso e inquietante. Ma i suoi zombi… No i suoi zombi non li posso vedere. Sembrano creature ferine spuntate fuori da qualche fantasy (a onor del vero, capita solamente in un paio di occasioni, ma mi sono entrate nell’occhio e l’impressione è rimasta). Oh, l’ho detto. Sparate al cuore, risparmiate il viso così i miei cari mi riconosceranno.
Ovviamente del #401 sul sito non abbiamo ancora scritto nulla, ma in realtà non abbiamo scritto nemmeno del #399 e del #400, schiacciati dal post-Lucca Comics. In compenso trovate due pezzi belli approfonditi sul #400 tra i blog.
Lorenzo Barberis analizza tutte le citazioni post-moderne dell’albo con attenzione al solito certosina:
Marco D’Angelo invece si lancia in un’analisi molto attenta sul significato del cambiamento e se fosse o meno necessario.