Il “Topo” di giugno 2024
Bentornati su Lo Spazio Disney!
Sembra – e sottolineo sembra! – che si sia finalmente entrati in estate! E lo dico da non amante di questa stagione, ma non ne potevo davvero più di quel tempo da lupi che ha imperversato nel Nord Italia fino alla metà di giugno!
La seconda parte del mese sembra aver portato climi più consoni al periodo, e va bene così. Ha portato anche gli Europei di Calcio ma, come noto, il mio interesse per il pallone è pari a zero anche quando riguarda la Nazionale, per cui non ho neanche partecipato troppo alla patria delusione dell’uscita degli Azzurri dal torneo.
A proposito di Vecchio Continente, giugno ha anche rappresentato la chiamata alle urne per le elezioni del Parlamento Europeo: non è questo il luogo per discutere di risultati, aspettative e timori, ma certamente il basso numero di votanti è un elemento che pone in essere alcune riflessioni.
Infine, per tornare a temi più inerenti a questo blog, c’è stato anche il novantesimo compleanno di Paperino! I festeggiamenti non sono mancati, specialmente in Italia, ed è quindi inevitabile partire da qui per parlare delle storie uscite su Topolino nel corso del mese appena concluso.
Giugno 2024: le storie da Topolino
Paperino e l’ombroso, di Marco Nucci e Giorgio Cavazzano (n. 3576), apre infatti il numero del “Topo” di inizio giugno, (quasi) interamente incentrato su Donald Duck.
Nucci decide di celebrare il personaggio in maniera laterale e meno ovvia, caratterizzandolo attraverso il sentimento della paura e raccontando un episodio dai toni inquietanti e vagamente horror collocato negli anni giovanili di Paperino, quando era arruolato in Marina e subito dopo quell’esperienza.
Il riferimento viene dalle DuckTales anni Ottanta, che per prime istituzionalizzarono questo elemento derivato presumibilmente dalla blusa che veste da sempre.
Lo stesso sceneggiatore aveva già citato come fatto canonico questo trascorso marittimo in Road to World Cup, ma in questo caso lo rende il perno su cui si regge l’incipit dell’intera trama.
Trama che mi ha avvinto molto, con questo misterioso essere che sembra vedere solo Paperino e che lo perseguita per diverso tempo, condizionandone l’esistenza: un plot invero non proprio originale, dal momento che riprende platealmente quella de Il colombre, un racconto di Dino Buzzati. Ammetto di non averlo mai letto, ma il dettagliato riassunto trovato dopo una una rapida ricerca online mi ha effettivamente restituito una vicenda molto vicina a quella imbastita da Nucci, tanto da poterla considerare un vero e proprio adattamento… non dichiarato. È un po’ questo che mi lascia perplesso, non aver citato da nessuna parte l’opera originale dalla quale si è partiti per cucire il racconto sul papero protagonista. Non solo è assente qualsivoglia indicazione sul numero, ma anche sui social l’autore non ha mai nominato Buzzati, pubblicizzando la storia sul suo profilo Instagram.
Non intuisco il motivo, ma me ne dispiaccio: dichiarare la fonte non avrebbe intaccato il lavoro di adattamento di Nucci, anzi, mentre non citare lo spunto fa perdere un po’ di “completezza” all’operazione. A meno che non sia il classico caso di ispirazione involontaria, un’idea che si è sedimentata negli anni nella testa dell’autore, dopo averla letta, al punto da non ricollegare più il fatto di averla fruita paro paro, cosa senz’altro possibile e probabilmente avvenuta più volte in passato.
Al di là di queste considerazioni, Nucci scrive un ottimo Paperino e il disegno di Giorgio Cavazzano offre una fenomenale sponda al tutto: non sempre in realtà il tratto del Maestro è impeccabile, qua e là qualche vignetta appare infatti meno riuscita, ma le scene d’atmosfera con la nebbia, i toni soffusi e l’immagine dell’Ombroso sono semplicemente magistrali.
Paperino e la banda del Lupo, di Francesco Artibani e Lorenzo Pastrovicchio (n. 3576), è l’altra grande avventura celebrativa del numero di inizio giugno: Artibani e Pastrovicchio concludono la loro “trilogia anni Trenta” e dopo Topolino e l’avventura su misura e Pippo e i bracciali di Maciste, tocca a Paperino vivere una nuova storia sui toni del glorioso passato.
Posso dire di aver trovato questa Banda del Lupo la migliore dei tre racconti: c’è avventura, dinamismo, gag fisiche spettacolari e umorismo verbale raffinato. Lo sceneggiatore romano riesce ancora una volta a restituire in un prodotto contemporaneo il feeling degli anni d’oro disneyani dimostrando di sapere benissimo quali elementi e soluzioni mettere in campo senza ottenere qualcosa di ingessato ma al contrario dando un’impostazione fresca e coinvolgente anche per i giovani lettori del 2024.
La trovo più riuscita delle già ottime precedenti perché mai come stavolta si avverte quel senso di coesione completa tra personaggi e universi narrativi, i cui confini erano effettivamente sfumati all’epoca: Paperino interagisce con il capitano Setter, con il meccanico Musone e con Lupo, che erano comprimari delle strisce di Mickey Mouse disegnate da Floyd Gottfredson. Ma, dando per assodato che il Trio mettesse spesso in piedi attività insieme, cosa vietava che amici di Topolino lo coinvolgessero in qualche situazione proprio mentre era al lavoro con i suoi due compari?
In quest’ottica non stona quindi nemmeno la presenza di Qui, Qui, Qua, deliziosamente interpretati secondo la visione meno assennata degli esordi rispetto a quella che sarebbe subentrata successivamente, anche passando per le avventure intorno al mondo con Zio Paperone e per l’arruolamento nelle Giovani Marmotte.
L’affresco è quello genuino di quella che una volta veniva definita “Banda Disney”, e tutto funziona come un orologio: nonostante si tratti di una storia apparentemente corale, inoltre, Artibani riesce a tenere comunque Paperino nel cuore del racconto, dandogli diverse scene d’azione, rendendolo il personaggio più attivo del terzetto di eroi e facendo sì che fosse un elemento a lui direttamente collegato – i nipotini in pericolo – la molla che mette in moto la missione dei protagonisti.
Il Pastro dal canto suo si diverte e diverte i lettori con scene che sembrano provenire da un cartone animato per il dinamismo e per alcune situazioni surreali che l’artista rende efficacemente su carta, non facendole stonare con l’insieme. Per quanto riguarda la resa del design anni Trenta dei personaggi mi allineo con gli sperticati complimenti già fatti nelle precedenti occasioni: il disegnatore sembra avere un’inclinazione naturale ad un tratto così smaccatamente e dolcemente classico che, unita alla propensione parallela a un segno più roboante e moderno, rende Lorenzo un autore davvero eclettico. I suoi Mickey, Donald e Goofy classici sono tutt’altro che ingessati o cristallizzati nel tempo, ma ancora magnificamente vivi e pulsanti.
Menzione doverosa anche per Andrea Stracchi, che ricorre a una palette seppiata e tenue che catapulta felicemente il lettore in quel tempo che fu, come se si stesse leggendo un vecchio albo che ristampa un’avventura del passato.
Tutti i lavori di Paperino, di Tito Faraci e Enrico Faccini (n. 3576), si pone come una summa della serie Gli allegri mestieri di Paperino, realizzata proprio dai due autori. Ma qualunque cosa potreste aspettarvi dalla lettura, non sarete mai pronti al florilegio di delirio, surrealtà e nonsense che sprigiona questa storia, nella quale, a causa di un genio della lampada “trollone”, il protagonista si trova a dover espletare 90 lavori, uno per vignetta e uno più assurdo dell’altro. È fumetto all’ennesima potenza nella sua forma più pura, nel quale la sinergia tra sceneggiatore e disegnatore è massima e permette di avere singoli riquadri autosufficienti e davvero spassosi, che però spesso rilanciano il loro risultato comico grazie a rimandi e collegamenti con quelli che li precedono o li seguono.
Un modo giocoso, smaliziato e sorprendente per festeggiare il buon Paperino partendo da un tema – quello del lavoro – che in varie maniere ha sicuramente caratterizzato questa figura. La fantasia dello sceneggiatore e il suo gusto per il paradosso sono a briglia sciolta, e il disegnatore segue benissimo l’andazzo delineando le giuste espressioni sul volto del protagonista.
Una chicca.
Arriviamo a quella che si può considerare l’evento del mese, e questo tanto in Italia quando negli Stati Uniti d’America: Zio Paperone e il decino dell’infinito, di Jason Aaron, Francesco D’Ippolito, Vitale Mangiatordi, Paolo Mottura, Alessandro Pastrovicchio, Giada Perissinotto (n. 3579), è la prima storia Disney pubblicata da Marvel Comics, la storica casa editrice di supereroi quali Spider-Man, Thor, Fantastici Quattro e chi più ne ha più ne metta, diventata ancora più famosa da quindici anni a questa parte grazie al Marvel Cinematic Universe sul grande schermo, che la Disney, fiutando l’affare, acquistò in toto.
Per chi volesse leggere le mie considerazioni a caldo, pochi giorni dopo l’annuncio di questo evento, può andare a rivedere questo mio post.
Il fumetto è stato pubblicato in USA il 19 giugno e dopo appena una settimana è già sbarcato nel Bel Paese, con un primo passaggio proprio su Topolino, in attesa di future edizioni ad hoc che renderanno maggior giustizia all’operazione e che tenteranno di monetizzare il più possibile l’evento.
Trovo però molto intelligente aver voluto indirizzare il debutto italiano della storia sul pocket, al di là dei limiti che questo ha comportato: una coraggiosa riconferma della centralità della testata ammiraglia nel panorama Disney-Panini, che non c’è stata per altre produzioni estere (Darkwing Duck, I misteri di Parigi) ma che ha perfettamente senso visto il forte richiamo mediatico di questa iniziativa e dello sceneggiatore coinvolto, elementi che hanno portato all’acquisto del settimanale lettori insospettabili mossi dalla curiosità.
Passando alla storia in sé, personalmente non mi ha convinto nonostante le premesse mi intrigassero: niente di nuovo, a onor del vero, specialmente con l’indigestione di multiverso fatta negli ultimi anni nell’entertainment, ma rimane un tema che continua a esercitare un grande fascino su di me, un po’ come i viaggi nel tempo… non ne ho mai abbastanza 😛
I problemi risiedono però in alcuni specifici fattori, già evidenziati da diversi commentatori italiani: l’iper-compressione narrativa, un Paperone figlio di una visione troppo particolare e ristretta, una retorica sbattuta in faccia senza un minimo di finezza e pressoché totale assenza di comicità.
Jason Aaron è sicuramente un appassionato di fumetto Disney e del personaggio di Zio Paperone, ma la sua conoscenza si limita giocoforza alla versione di Carl Barks e di Don Rosa, sostanzialmente le uniche veramente note in America: questo, agli occhi di un lettore italiano, diventa un limite perché sappiamo tutti bene quante interpretazioni e visioni ha avuto il personaggio e quanto quindi questo elogio del fronte barksian-rosiano (filtrata soprattutto dall’elegia del fumettista del Kentucky) suoni un po’ eccessivo e unilaterale.
Benché, al netto di ciò, non si possa negare che Aaron tratteggi una figura davvero tosta e figa, vincente ed eroica, che tiene la scena e che esalta per la determinazione e per alcune linee di dialogo: uno Zione centrale all’interno di una vicenda cucita addosso alla sua storia e alla sua essenza, con un taglio effettivamente marvelliano al fumetto Disney, che si farebbe anche apprezzare come alternativa… se fosse sorretta dal giusto spazio narrativo. La trentina abbondante di pagine a disposizione invece è una quantità drammaticamente scarsa per poter sviluppare con i giusti modi la vicenda che lo sceneggiatore ha voluto imbastire: una mega-crisi che coinvolge dimensioni parallele e un Paperone corrotto e cattivo necessiterebbe di ben altra foliazione, l’ideale sarebbe stata una mini di quattro spillati in formato comics, quindi da 22 pagine ciascuno e magari con il primo pure più lungo… pigiare tutto in un’unica uscita, invece, porta a saltare sostanzialmente il secondo atto, portando dal punto A al punto C senza avere modo di mostrare con tutti i crismi la situazione, in particolare i viaggi del nostro Zione nelle varie realtà per reclutare altri sé. Non a caso abbondano le didascalie, a un certo punto, modo furbo di ovviare a queste mancanze cercando di creare a parole quel pathos che non sempre si ricava dallo svolgimento in sé e per sé. Un grosso “lo dimo”, per dirla alla Boris.
Ho qualche perplessità anche sulla scelta delle copie paperonesche messe in campo: con l’eccezione dell’avversario e di un Paperone spaziale-futuristico, gli altri sono versioni del passato del nostro Zione, in un gigantesco omaggio alla $aga di Don Rosa! La mitologia alla base del multiverso permette anche il movimento indietro nel tempo, ma in questo caso è decisamente sbilanciato rispetto a quello che sulla carta dovrebbe essere il cuore di un’operazione del genere.
Sul repentino finale, inoltre, tutto si risolve con motivazioni così smielate – che a causa del poco spazio sono pure sbattute in faccia al lettore in maniera pedissequa e decisamente didascalica – da lasciare fastidiosamente interdetti.
I fan disneyani hanno spesso criticato tantissimi sceneggiatori italiani, responsabili di storie snervanti, noiose, blande, riempitive o addirittura sbagliate, ma certamente la loro conoscenza a tutto tondo di questo universo e il sistema ormai formalizzato da decenni con vari e continui aggiustamenti permettono nella maggior parte dei casi risultati più quadrati di questo.
Aaron vince sotto il profilo dell’idea, della sfrontatezza, dei dialoghi, dell’attenzione nei confronti del personaggio di Paperone, delle atmosfere, in definitiva di quella allure supereroistica americana che sa gestire indubbiamente bene e che in una certa misura riesce anche a distillare nella narrazione disneyana; soprattutto riesce ad allontanarsi dall’immagine pucciosa che i personaggi Disney hanno in USA recuperando invece quel poco di buon fumetto paperoniano d’avventura a cui ha avuto accesso. Ma i diversi e troppi limiti evidenziati rendono questo esperimento poco riuscito, poco a fuoco e poco centrato.
Tutt’altro discorso sotto il profilo dei disegni: un parterre di artisti italiani d’eccezione dà lustro a una sceneggiatura altalenante, peraltro con una divisione molto intelligente dei compiti.
Al primo capitolo si dedica Paolo Mottura, che col suo approccio solenne e pittorico rende perfettamente questa introduzione un po’ cupa e inquietante.
Nella seconda parte subentra Francesco D’Ippolito, che si scatena in scene frenetiche nelle quali – come già in Ducktopia – ha modo di sovvertire la griglia della pagina con soluzioni interessantissime e ritmate.
Terzo tassello per Alessandro Pastrovicchio e Vitale Mangiatordi, matite fluenti e dinamiche particolarmente adatte ad illustrare l’articolato scontro tra i vari Paperoni e il Paperone Supremo, all’interno di vignette dettagliate e movimentate.
Per l’epilogo interviene infine Giada Perissinotto: ottima scelta perché il suo stile vellutato, dolce e morbido è funzionale a questa breve coda conclusiva nella quale è tornata l’armonia tra i personaggi.
Ottima e moderna è anche la colorazione, accesa ma ammantata anche di ombre e di luci più dark per le scene maggiormente intense.
In definitiva si tratta per me di un’occasione mancata e solo parzialmente positiva: sarà interessante capire il riscontro presso i lettori americani di comics, che acquisteranno l’albo per curiosità o attratti dal nome di Jason Aaron e molto probabilmente a digiuno da fumetti Disney. Io spero in un buon successo, onestamente, perché potrebbe essere una buona cosa il rilancio di una produzione originale made in USA dopo anni di nulla. E non parlo dei What If di imminente pubblicazione, sorta di parodie di Wolverine e di Thor, ma di storie originali con questi personaggi dati in mano a fumettisti di prim’ordine nel panorama statunitense.
Al di là del risultato di Infinity Dime, dai e dai potrebbe anche emergere qualcosa di buono.
Sarebbe un futuro e un’alternativa intriganti, secondo me, e da tenere d’occhio.
Per festeggiare Paperinik, che in questo giugno ha celebrato i suoi 55 anni, il settimanale gli dedica una storia che si sdoppia, perché vista da due punti di vista diversi: in Gli anni ruggenti della 313, di Fabio Michelini e Emmanuele Baccinelli (n. 3577) e Paperinik e il furto storico, di Marco Gervasio e Emmanuele Baccinelli (n. 3577), è in realtà la macchina di Paperino/Paperinik ad avere una certa centralità, individuata come elemento comune tra le due identità del personaggio.
La 313 viene infatti riconosciuta come auto d’epoca e perciò finisce nel mirino dei Bassotti, novelli ladri di macchine antiche che hanno acquisito di conseguenza un certo valore.
Nella versione di Michelini il veicolo è dotato di una sua coscienza, come già visto nella seminale Paperino e il segreto delle 313 dove lo sceneggiatore campano ci aveva mostrato la “scintilla di vita” che la contraddistingue grazie al legame speciale con il suo padrone, e questa sua individualità è quella che le consente di risolvere la situazione in cui è finita.
La visione di Gervasio riporta invece la vicenda su binari più concreti: per evitare che i lestofanti scoprano i congegni di Paperinik installati sulla vettura, il papero mascherato decide di intervenire con una manovra che include il classico robot-sosia e spiegando in maniera più “tecnica” il movimento indipendente che la 313 compie a un certo punto, nel climax della trama.
Posso dirmi un po’ disorientato da questo approccio? Capisco che l’idea alla base della stessa storia vista sotto due angolazioni diverse porti a dover spiazzare e dare punti di vista diversi e sorprendenti, fa parte del meccanismo… ma in questo caso specifico si va praticamente a rinnegare quanto visto nella storia d’apertura, sconsacrando quindi l’ottica più poetica e allegorica data da Michelini e che appunto ha dei natali ormai consolidati. Il tenore del “lato B” paperinikiano poi è piuttosto low profile, con un’avventura che si trascina piuttosto stancamente e con poche opportunità di valorizzare davvero il vendicatore mascherato; l’uso stesso del pupazzo appare un po’ eccessivo e “stressato” nelle sua modalità, incrinando ancora di più il tutto.
Personalmente ho quindi prediletto il “lato A” di Michelini che, pur non brillando particolarmente e risultando a tratti forse un po’ troppo infantile, tenta un approccio allegorico e sentito che mi ha convinto maggiormente.
Non ho infine che elogi per il prode Bacci, che qui compie un nuovo esercizio di stile nel dover illustrare due storie parallele che in alcune tavole ripetono le stesse scene: l’artista riesce infatti a connotare in maniera diversa e con naturalezza l’una e l’altra, offrendo vibes più distese nella prima e più concitate nella seconda, dimostrando di sapere bene come muoversi e come intendere i toni delle sceneggiature su cui lavora. Questo, unito a una mano sempre più felice nel raffigurare i personaggi, Paperino/Paperinik in particolare, e gli ambienti – il rifugio del papero mascherato è rappresentato con una dovizia di particolari e un gusto per inquadrature, profondità e prospettiva quasi commoventi nella capacità così cristallina di visualizzare in maniera coinvolgente quel preciso scorcio – fa sì che Baccinelli si confermi come uno degli artisti più completi e dotati in assoluto della sua generazione.
Topolino e l’isola che non c’è, di Giorgio Salati e Giampaolo Soldati (nn. 3578-3579), si presenta come un’avventura lunga e ambiziosa, che strizza l’occhio abbastanza palesemente a Il signore delle mosche e soprattutto alla serie TV Lost, mio grande amore da appassionato di serialità televisiva.
Manca ancora un episodio alla conclusione e pertanto non mi voglio sbilanciare troppo, tirerò le fila nel pezzo del prossimo mese, ma con 4 episodi su 5 all’attivo qualcosa la posso già dire.
Si tratta innanzitutto di una buona narrazione: in questo contesto Salati mostra di conoscere bene il mestiere imbastendo un intreccio solido e con gli elementi intriganti al punto giusto, i cliffhanger ben giocati e un ritmo funzionale alla vicenda e alle sensazioni che vuole generare.
Si mette anche “nei guai” introducendo un folto numero di comprimari inediti, da gestire peraltro in aggiunta ai “soliti noti”, ma grazie alla foliazione a disposizione riesce a dare spazio a ciascuno di loro.
Le manca però qualcosa per spiccare, allo stato attuale: un fastidioso senso di deja-vu, alcuni personaggi meno interessanti di altri, qualche momento nella parte centrale un po’ più scarico e meno coinvolgente minano il gradimento complessivo… niente che mini drammaticamente la fruizione, ma sono fattori che la rendono semplicemente una lettura simpatica e nella media.
In questa considerazione rientrano anche i disegni di Giampaolo Soldati, che non ho mai nascosto di non amare: a onor del vero in quest’occasione se la cava anche leggermente meglio del solito, specialmente per quanto riguarda le ambientazioni e i nuovi ingressi, caratterizzati da un discreto character design.
Topolino, Minni, Orazio e Clarabella, invece, vengono visualizzati con il consueto stile dell’autore, che tende a una certa piattezza.
Il suo tratto spicca però quando nel terzo e quarto episodio viene chiamato a visualizzare i fantasmagorici sfondi ricchi di fantasia immaginati dallo sceneggiatore, davvero d’effetto e immersivo anche grazie all’efficace colorazione di Irene Fornari.
Giudizio definitivo rimandato al mese prossimo, come si diceva, ma per intanto non mi posso lamentare.
Zio Paperone e la giocodenarite contesa, di Vito Stabile e Francesco Guerrini (n. 3578), è una di quelle storie capaci di riappacificarmi con un personaggio ormai da troppo tempo usato malamente o superficialmente.
Stabile, che lo ama visceralmente, non si stanca mai di ricordarci che per riscoprirlo nella sua essenza, varietà e importanza basta semplicemente andare a riguardare la lezione del suo creatore, Carl Barks. Settant’anni dopo è ancora tutto lì e riprendendo in mano le storie e le idee dell’Uomo dei Paperi c’è quanto serve per impostare infinite avventure diverse e originali benché sempre rispettose delle caratteristiche vere e fondanti di Zio Paperone, ma – diversamente da Jason Aaron – con una consapevolezza dell’ecosistema paperoniano costituito successivamente.
Questa Giocodenarite contesa ne è un perfetto esempio: valorizzare quella passione feticista dello Zione per il denaro, capace di giocarci e di accudirlo in varie maniere, è un’idea sana che diventa una mossa raffinata nel momento in cui decide di usare l’argomento come terreno di scontro tra il miliardario paperopolese e il suo “doppio malvagio” Cuordipietra Famedoro. È infatti un ottimo modo per rivitalizzare la sfida tra i due ricconi in maniera diversa quel tanto che basta a costituire una simpatica e riuscita variazione sul tema, capace di intrattenere e di divertire nell’uso spontaneo e genuino di Uncle Scrooge.
Vito Stabile si conferma quindi uno dei più felici cantori contemporanei di Paperon de’ Paperoni, ma buona parte della riuscita della storia è da riconoscere anche a Guerrini, che fa davvero la differenza nel visualizzare gli spunti dello sceneggiatore con il suo tratto non convenzionale ma al contempo fortemente radicato nella classicità più felice. Le espressioni che ritrae sul becco di Paperone o sul grugno di Famedoro sono sempre ottimamente calibrate, mentre gli sfondi sono particolareggiati e curati – quasi barocchi – fin negli angoli di ogni vignetta.
Grandi applausi per l’amico Vito, quindi, che nel giro di pochi mesi inserisce un’altra palla in buca dopo l’altrettanto riuscita Zio Paperone e la terribile Banda Bassotti.
Vi rimando, per completezza, all’intervista-doppia effettuata da Simone Cavazzuti per il suo blog L’eco del Mondo ai due autori proprio in occasione dell’uscita di questa storia.
Per Pianeta Paperino – Quale nipotino?, di Vito Stabile e Marco e Stefano Rota (n. 3577), invece ho giocoforza meno elogi da dispensare, nonostante sia una delle due storie migliori della miniserie, per quanto mi riguarda.
Miniserie che non ho mai nascosto di aver gradito poco, specialmente se confrontata con la sorella maggiore Pianeta Paperone: per lo Zione Stabile ha trovato la chiave giusta in questo lungo ciclo di brevi focalizzate di volta in volta su determinati aspetti del personaggio, mentre la medesima operazione, applicata a Paperino, per qualche motivo è riuscita decisamente meno bene. Delle sei storie di cui si compone, mi hanno convinto veramente solo la prima – cioè quella sulle frittelle – e quest’ultima, dove grazie a uno stratagemma narrativo tanto semplice quanto azzeccato riesce a spiegare senza retorica spicciola l’affetto di Paperino nei confronti di Qui, Quo, Qua, peraltro dipinti non come gli assennati paperi in miniatura a cui siamo abituati ma come dei ragazzini fallibili e un po’ pasticcioni, com’è giusto per individui della loro età.
Il tallone d’Achille rimangono i disegni dei Rota: mentre il tratto d’antan del maestro continua ad avere un suo perché e una sua funzionalità con Scrooge, per qualche arcano motivo non funziona allo stesso modo in queste brevi paperinose, rendendo la lettura pesante e togliendo molto del brio e del dinamico delle sceneggiature. Così accade anche in questo caso e nonostante si trattasse di una trama piuttosto posata, il tratto e l’inchiostrazione affossano una parte del gradimento della storia.
Per restare a tema Donald Duck, Sveglia, Paperino!, di Danilo Deninotti e Federico Franzò (n. 3578), mi ha invece positivamente sorpreso: sia chiaro, non è niente di che, una storia qualunque e nella media, ma rispetto alla produzione standard di Deninotti mi pare che qui l’autore sia riuscito a trasmettere quell’umanità e quell’affetto che intercorrono tra Paperino e i nipotini. La trama è semplice ma, collocandola in maniera sensata all’interno della quotidianità del personaggio e giocandola molto sui sentimenti di sincera preoccupazione di Qui, Quo, Qua, nei confronti del loro zietto, trova quel guizzo che la rende efficace e riuscita. Un taglio differente da quello di Stabile ma egualmente a fuoco.
Franzò ai disegni non eccelle, al punto da farmi sospettare che si tratti di una storia rimasta nel cassetto della redazione per qualche tempo: il tratto sembra infatti fare passi indietro rispetto a quanto visto nel passato recente dell’artista, recuperando quell’aspetto più grezzo del primo periodo.
Paperino e il cronopasticcio, di Knut Nærum, Tormod Løkling e Arild Midthun (n. 3577), offre la “quota Egmont” dell’interpretazione paperinesca. È un Paperino un po’ incosciente, piuttosto attivo e intraprendente, capace di violare con nonchalance le leggi del tempo al solo scopo di non saltare un appuntamento con Paperina. Il terzetto di autori nordeuropei si diverte nell’utilizzare con arguzia tutti gli imprevisti dietro l’angolo dei viaggi temporali per complicare ripetutamente la situazione, fino ad un epilogo decisamente migliore di quanto le premesse potevano far intendere.
Continuo a trovare azzeccata la possibilità di ospitare su Topolino questo tipo di avventure estere, ottime per dare una visione a 360° dei personaggi Disney, Paperino in particolare, mostrando l’approccio che una scuola diversa da quella italiana riesce ad applicare. Da quando la scelta è diventata più attenta a quali storie e quali fumettisti includere, poi, l’operazione si è fatta più riuscita e sensata, come in questo caso: il Paperino che agisce in questa Cronopasticcio è vitale, mantiene alcuni aspetti barksiani, è pigro ma anche propositivo, ha un legame speciale con i propri famigliari e smuove mari e monti per dare il meglio di sé, quando riconosce di aver sbagliato; con la meravigliosa postilla per cui ci sono comunque situazioni in cui sbaglia ma rimane fermamente convinto di essere nel giusto, e pertanto non solo non mette in campo azioni per rimediare ma si impunta, in una spirale autodistruttiva.
Eleganti sono poi i disegni di Midthun, benché penalizzati dal formato pocket che restringe le vignette disposte su quattro strisce: problema invincibile, ahimè, a meno di non tornare a rimontare le storie come si faceva decenni fa, ma rovinando così irrimediabilmente il ritmo narrativo e i giri-pagina pensati originariamente. Meglio allora aguzzare la vista per godere dei tanti dettagli che l’artista norvegese inserisce nelle proprie tavole, comprese le calzanti espressioni sul volto del protagonista, la plasticità della sua figura papera e la capacità di caratterizzare comprimari con un design sempre curato e mai banale o piatto.
Pippo garage sale, di Tito Faraci e Alessandro Perina (n. 3577), conferma il periodo di rinascita di Tito Faraci come sceneggiatore disneyano. Dopo diversi anni in cui compariva sul “Topo” solo con sporadiche storielle di poche pagine quasi mai convincenti o davvero divertenti come ambivano a essere, e successivamente con miniserie prive di smalto (come quella su Fiuto Joe), nell’ultimo annetto l’autore sembra aver ritrovato la quadra: un paio di brevi un pelo più a fuoco, lo spassoso ciclo de Gli allegri mestieri di Paperino con il suo apice nell’extra Tutti i lavori di Paperino di cui ho parlato più sopra, l’ottima Il mistero del Monte Orso e la magistrale PK – Rinascita sono tasselli che sembrano riportare Faraci ai fasti degli esordi, mutatis mutandis e detto con ogni cautela (anche perché invece, in questo stesso mese, Paperino e Paperoga space team sembra segnare un passo indietro…)
Questo preambolo per dire che anche una storia apparentemente anonima come Pippo garage sale, che sulle prime può anche sembrare inutilmente più lunga di quanto il soggetto non richiederebbe, ha un suo perché, è una lettura godibile, briosa, sinceramente divertente e che rende perfettamente giustizia al protagonista, nell’ottica tutta speciale che lo sceneggiatore gli ha sempre dato, in una linea ideale che va da Il genio nell’ombra a Il brontolatore estivo. È Pippo, con la sua peculiare personalità, a reggere brillantemente l’impalcatura narrativa, cosicché anche il climax finale, che dalle premesse parrebbe esagerato e fuori tema, si riconduce a quella soavità dell’assurdo che rientra nella poetica pippesca come intesa da Faraci.
Perina poi asseconda tutto questo con il suo tratto morbidissimo e delizioso, una delle sue migliori prove recenti insieme alla storia sulla Via Appia (anche perché, per inciso, negli ultimi tempi lo sto apprezzando maggiormente con i Topi che con i Paperi).
Topolino e Pippo sono “a modello”, perfettamente equilibrati ma non per questo ingessati, tutt’altro: appaiono spontanei, dinamici, armonici grazie a un tratto guizzante che fa pensare a un autore con ancora molta freschezza nella matita e molti assi ancora da giocare, perfettamente padrone del contesto e dei caratteri topolinesi.
La maestria si coglie anche da cose come il modo in cui ritrae la soffitta di Pippo o il mercatino a cui l’allampanato amico di Topolino accetta di partecipare, con quell’allegra accozzaglia di ciarpame. Infine, il segno di Perina si presta molto bene anche a situazioni più concitate e meno urbane, come quando un robot gigante minaccia la città, attingendo a nuance che possono ricordare Il gigante di ferro e che rifulgono di una regia attenta e rodata.
Paperino e il Grand Mirror Hotel, di Bruno Sarda e Marco Palazzi (n. 3579), per concludere, riprende il ciclo degli edifici paperopolesi che narrano le loro vicende in prima persona che, come ricorderete, non mi ha mai detto granché. Così è anche per questo episodio, la cui lettura scorre bene e che risulta scritto con mestiere e mano sicura da Sarda, ma che si fa dimenticare in fretta a causa di un plot poco coinvolgente. Buoni i disegni di Palazzi.
Bene, direi che per questo mese è tutto.
Avrete visto che ultimamente scarseggiano pezzi extra sul blog, ma purtroppo il tempo è tiranno… per i prossimi “In gabbia!”, per esempio, occorrerà aspettare almeno settembre. A luglio arriverà però la recensione del nuovo Almanacco e probabilmente anche una tardiva analisi del n. 100 dei Grandi Classici Disney, ma per il resto – al netto dei consueti pezzi mensili sulle storie di Topolino – sono ufficialmente in modalità estiva 😉
Alla prossima!
Ciao, Andrea, bella disamina!
Ti ringrazio per la menzione alla doppia-chiacchierata con Vito Stabile e Francesco Guerrini, ma quel “Walt Zuti” non si può vedere… errore di gioventù (avevo 12 anni) che rinnego con tutto me stesso! 😛
Grazie a te per il commento 🙂
Hai ragione, ho provveduto a correggere mettendo il tuo vero nome ^^”