Camp e fumetti
Sono numerosi i concetti che vengono utilizzati per definire i diversi ambiti culturali: e, ovviamente, molti di questi lambiscono e interessano anche il fumetto, come forma d’arte al pari di cinema, letteratura, teatro e altre.
Con vari significati si è parlato di pop, di trash, di kitsch, di midcult, di highbrow e lowbrow nei diversi periodi ai fini di identificare ambiti diversi.
Un termine oggi un po’ in disuso, ma che ha avuto una sua importanza nel definire un certo ambito, è il camp. La sua definizione è, come in fondo anche per le altre etichette, vaga e flessibile. Qui si trova un ampio articolo sulla question di Fabio Cleto, che ha indagato a fondo tali tematiche. Interessante, tra l’altro, l’ipotesi sull’origine remotamente italiana del termine, da “campire”, termine pittorico che indica la stesura di colore uniforme, per estensione “rappresentare in modo innaturale, caricato, a effetto”, che passa poi anche nel teatro.
La tesi – a parte l’origine ritenuta francese, mentre è più ragionevole la radice nel rinascimento italiano e nel verbo “campire” – è confermata dal Dizionario Oxford, qui:
Camp: “tasteless,” 1909, homosexual slang, of uncertain origin, perhaps from mid-17c. French camper “to portray, pose” (as in se camper “put oneself in a bold, provocative pose”); popularized 1964 by Susan Sontag’s essay “Notes on Camp.” Campy is attested from 1959.
Interessante notare come il termine indichi un tipo di colorazione (a grandi campiture) che è non solo propria, ma caratterizzante del fumetto delle origini: i comic book “all in color for a dime”, basati sugli sgargianti colori primari dei supereroi.
Il camp, ribadisce Cleto, ha una natura quasi “esoterica”: “Un modo di vedere il mondo come un teatro dell’innaturale, dell’artificio: uno stile che celebra l’eccentricità e sublima il Kitsch, trasformandolo in una forma di eccellenza estetica per snob supremi, per meta-snob, per chi è in grado di apprezzare perversamente ciò che l’élite culturale disprezza.” Anche da qui vediamo come ci sia una vicinanza col fumetto: medium a lungo disprezzato, che è stato rivalutato inizialmente anche con una postura di provocazione intellettuale, proprio nel periodo di massima voga del termine (anni ’60-’70).
Il termine viene consolidato infatti nell’uso nel 1964 da Susan Sontag, in “Cosa è il camp” (1964) pubblicato nel suo saggio “Contro l’interpretazione” (1967), che include anche il concetto di Camp, prima esistente ma non indagato criticamente (e l’analisi della Sontag rilancerà quindi il termine). Qui si riportano ampli stralci e una sintesi del saggio, coevo dello studio di Eco, “Apocalittici e integrati” (1964), di grande importanza nel definire lo studio della cultura pop e del fumetto, non solo in Italia (e in cui si accenna anche del camp).
Sontag sottolinea l’indefinibilità precisa del camp, data la sua natura particolare, ma allega un catalogo di opere camp in cui il fumetto ha un ruolo rilevante:
«Zuleika Dobson di Max Beerbohm. Lampade Tiffany. Film Scopitone. Il ristorante Brown Derby in Sunset Boulevard a Los Angeles. The Enquirer, titoli e articoli. Disegni di Aubrey Beardsley. Il lago dei cigni. Le opere di Bellini. Le regie di Visconti per Salomè e Peccato che sia una sgualdrina. Certe cartoline fine-secolo. King Kong di Schoedsack e Cooper. La canzonettista cubana La Lupe. Gods’ Man, il romanzo in xilografie di Lynn Ward. I vecchi fumetti di Gordon. Gli abiti femminili degli anni venti (boa di struzzo, vestiti di frange e perline, ecc.). I romanzi di Ronald Firbank e Ivy Compton-Burnet. I film nudisti visti senza libidine»
Spiccano “I vecchi fumetti di Gordon”, che in effetti sono quelli che più di tutti, in ambito fumettistico, hanno un fantastico seducente e volutamente ingenuo. In qualche modo, quello stile “all in color for a dime” dei vecchi comic book diviene poi proprio del fumetto supereroico, sia quello Golden Age, sia nella fase Silver Age e nei più antichi adattamenti telefilmici (il Batman di Adam West, soprattutto).
Ma la Sontag cita anche “Gods’ Man, il romanzo in xilografie di Lynn Ward”.
Il romanzo di Ward è indubbiamente interessante, anche perché il titolo “a novel in woodcuts” ricorda da vicino la formula “graphic novel” che avrà una enorme fortuna nel guidare la transizione dal “fumetto da edicola” al “fumetto da libreria” di questi anni (vedi qui una mia analisi del principale, imponente saggio italiano di Tosti sull’argomento per i dettagli delle evoluzioni del concetto).
Il romanzo di Ward, realizzato tramite incisioni mute, disposte come vignette fumettistiche, era ispirato agli analoghi lavori di Frans Masereel, di cui aveva letto “The sun” (1919: un’opera precedente era del 1918) e di Otto Nuckel. Ward portò al successo questa forma d’arte in America, come testimonia la menzione della Sontag: e per quanto “A Contract with God” (1978) di Will Eisner, l’opera che porta al successo il Graphic Novel, sia naturalmente differente in molti aspetti, la suggestione della vicinanza dei due titoli è indubbiamente forte.
Potremmo dire che ci sono dunque “due camp” nel fumetto: quello più ingenuo e inconsapevole del comic supereroico delle origini ma anche, fin da subito, quello più consapevole del “romanzo grafico”, che usa con più consapevolezza gli elementi stranianti del camp. Insomma, il fumetto nella sua storia ha influenzato anche lo sviluppo dell’estetica Camp, oggi meno nota in questi termini ma indubbiamente ancora molto influente, e pareva interessante annotarlo.