Le influenze artistiche di Frank Miller

Chris Claremont e Frank Miller in una foto scattata attorno al 1982
Forse è vero che il caso non esiste.
Era più o meno la metà degli anni ’70 quando uno spavaldo ragazzo del Vermont, alimentato da un’irrefrenabile passione per i comics e cresciuto assieme a sei fratelli in una famiglia cattolica di origini irlandesi, si recò in quella giostra folle che è New York facendo colpo, seppur con non poche divergenze, su un certo Neal Adams, da cui ottenne persino una raccomandazione. Niente male per un novellino.
Forse non fu un caso che un grande conoscitore ed estimatore del mondo dei comics incominciasse a guardarsi attorno in un periodo fecondo e di profondo cambiamento, e forse non fu neppure un caso che proprio in quegli anni dalla sopita Northampton si stesse svegliando un tale Alan Moore con l’intenzione di scrivere la Storia.
Forse furono solo coincidenze, o forse fu il risultato di una serie di congiunture sociali, ma Frank Miller fu di certo l’uomo giusto al momento giusto.

Il Re, Jack Kirby e un giovane Miller
Dopo il rilancio dei “supereroi con superproblemi” della Silver Age di Stan Lee, Jack Kirby e Steve Ditko, il mondo intero stava vivendo un tempo di forti frizioni sociali e lotte studentesche: nacquero così in America generi di controcultura più sporchi e maturi che sfociarono nella valvola di sfogo di Robert Crumb e molti altri: il fumetto underground.
C’era qualcosa nell’aria, ed era ovvio che quel qualcosa stesse cambiando. Non poteva non essere così anche per il fumetto, espressione forse più genuina e diretta della cultura popolare.
Miller iniziava a sentire il peso della zavorra che il fumetto americano della Golden Age portava con sé, e a percepire cosa dovesse essere da ultimo migliorato, imparando la lezione della Silver Age: Frank non voleva più mitologie epiche, avventure spaziali e stralunate, supereroi simpaticoni e integerrimi, o i buonismi che il Comics Code Authority trascinava dietro di sé.
Miller guardava al SUO mondo, quello vero; vedeva New York e il Bronx, la criminalità quotidiana, una politica posticcia e la diffidenza verso il prossimo. Era inoltre spettatore partecipe del fiorire di altre forme d’arte e nuovi generi narrativi.
Ai suoi occhi ormai i fumetti supereroistici non rappresentavano più la realtà delle cose ma solo un’enorme bugia, un palliativo per fuggire e illudersi: una parentesi anacronistica.
Mentre altrove, specie nelle sale cinematografiche e sulle pagine dei libri, si viaggiava su ben altre lunghezze d’onda, fra le vignette dei comic book si stentava ad uscire fuori da quelle opprimenti atmosfere fasulle fatte di giustizia fin troppo facile e spicciola e rappresentazioni ideologiche di vita ormai fuori tempo massimo.
Fu così che sin dai suoi primi lavori sulla serie regolare di Daredevil, Miller mise da subito le carte in tavola: una narrazione più cupa e matura, ispirata ai romanzi hard-boiled di Dashiell Hammett e Raymond Chandler, dialoghi e didascalie tagliati con l’accetta e ridotti all’osso, una regia e composizione formale della tavola derivate da tecniche cinematografiche moderne, una quotidianità che si sporca nei vicoli appestati delle periferie della sua metropoli, dai toni più realistici, per presentare i supereroi non più come immacolati latori di giustizia e bontà.
Il manicheismo supereroistico era al suo capolinea e fu sostituito da quelle atmosfere grim and gritty che ne Il ritorno del Cavaliere Oscuro divennero un marchio di fabbrica, segnando indelebilmente tutta la produzione fumettistica a venire, attraverso degli eroi compromessi, ambigui e ai limiti dell’ossessione.
Frank non rivoluzionò però solo il modo di fare fumetti, ma anche quello di produrli.
Mentre dall’Europa arrivavano dalla redazione di Metal Hurlant (e non solo) fumetti di grande formato, stampati su carta di pregio e con edizioni dignitose, con soggetti e disegni di tutt’altra pasta, e dal Giappone sorgevano nuove frontiere visive, che sfruttavano idee narrative fresche ed inusuali, in USA gli occhi erano puntati verso questo Vecchio Mondo e le bocche erano spalancate, ma nessuno riusciva a reagire.

Kimberly Cox e Frank Miller
Con il suo Ronin, Miller convogliò tutte le tendenze provenienti dall’estero nella sua opera, e fece vedere ai suoi colleghi cosa si potesse davvero fare con quel mezzo di comunicazione. E non è tutto.
Le battaglie di Miller e molti altri per riuscire a far acquistare dignità agli autori di fumetti, prima e vera condizione necessaria per far fiorire questa realtà culturale, le lotte legali per i copyright e i diritti sulle proprie opere, che fino a quel momento erano state di uso esclusivo delle case editrici, iniziarono a dare i loro frutti.
Miller fu forse uno dei primi ad avere davvero un ruolo paritetico all’interno di una redazione: i tipi della DC Comics, e in particolare Jenette Kahn, visti i suoi lavori su Daredevil, decisero di lasciargli carta bianca.
Ronin fu stampato su una carta che esaltasse le qualità dei colori di Lynn Varley, altra grande protagonista di quest’opera, e Miller vi infuse dentro tutti i suoi amori: dalle ispirazioni del fumetto europeo fino a quelle proveniente dal Giappone, valorizzando peraltro la figura peculiare di una protagonista femminile, fornendole gran carattere e profondità.
Insomma, fu un vero e proprio miracolo editoriale, per contenuti, stampa e manifattura del prodotto, per il ruolo che l’autore assunse rispetto al suo editore e la sua opera, per la capacità di dare finalmente rilevanza a figure non maschili su un fumetto tutto sommato popolare, oltre ad aver colto le potenzialità della filiera distributiva delle fumetterie, all’epoca ancora adombrate dalla vendita in edicola.
Tutto ciò però è ormai Storia, ma quel che mi premeva mostrare in questo “speciale”, non è tanto cosa Miller ci abbia lasciato, quanto esaminare ciò che più lo ha ispirato; un approccio che finora è stato forse trascurato.
Lasciamo allora parlare le immagini:
Qui sopra ho accostato due tavole, la prima tratta dal ciclo di trasposizioni teatrali di Gianni De Luca, e la seconda di Miller comparsa su Elektra vive ancora.
Mi pare sia evidente l’influenza che l’autore italiano ha avuto su quest’opera, e non solo su questa.
L’espediente architettato da De Luca fu proprio una sorta di fumetto-teatro, che non solo si adattasse a quanto si andava a raccontare, ma costituisse una nuova via narrativa, del tutto inusuale per un fumetto: il fondale fisso diveniva un vero e proprio palcoscenico e la tavola non era più partizionata in vignette e aveva un unico sfondo a singola o doppia pagina su cui i personaggi recitavano e si muovevano.
Vedere questi meccanismi narrativi proposti sin dal ciclo su Daredevil applicati su un fumetto popolare americano e presentati ad un pubblico perlopiù avulso da questo tipo di letture, fu davvero una piccola rivoluzione.
In alto ho invece giustapposto una tavola tratta dal Garage Ermetico di Moebius e una da Sin City.
Anche qui pare piuttosto facile ricollegare il gioco: Miller sfrutta uno scenario che è allo stesso tempo claustrofobico ma profondissimo ed alimenta la sensazione con i ricami simmetrici dei mattoni sul muro e sul pavimento, ad enfatizzare una scena ricca di pathos in cui il protagonista è austeramente presentato di spalle.
Certamente cambia il tipo d’inquadratura, ma l’idea globale e la geometria della scena erano ben presenti a Miller, che ha poi aggiunto qualcosa di suo.
Quassù abbiamo altre due tavole tratte rispettivamente da L’Incal di Moebius e Jodorowsky e da Ronin di Frank Miller.
Salta subito all’occhio la ripresa delle coppie di colori, giallo-verde e grigio-blu, oltre che il vestiario nella prima coppia di tavole e le ambientazioni degradate nella seconda.
Queste due tavole in sé rappresentano poco, ma sono una testimonianza di come tutta l’opera di Ronin sia intrisa della vena fantascientifica e postapocalittica e del tratto sinuoso di Moebius, oltre alle sue enormi e dettagliatissime splash pages, di cui Miller fa qui un uso enorme. Non è stata solo un’ispirazione di forma, ma anche di atmosfere.
In alto abbiamo invece un accostamento in verticale da Lone Wolf & Cub di Kazuo Koike e Goseki Kojima e Ronin di Miller.
Ciò che più adoro in questo strano rapporto di influenze è che Miller non poté leggere i testi di Lone Wolf & Cub perché non ancora tradotti, per cui si limitò a divorare le tavole di Kojima saltando i dialoghi e restando letteralmente fulminato.
Da lui riprese l’impostazione orizzontale delle scene dinamiche e di battaglia, una scelta che gli permetteva di sviluppare le lotte in serie su un’unica doppia tavola, creando dei combattimenti spettacolari e cinematografici, che si leggevano con una fluidità bruciante e adrenalinica.
Probabilmente la totale assenza di dialoghi o didascalie in queste scene mute, in cui a parlare erano solo le spade, e la sua capacità sintetica di dosare la scrittura, furono proprio dovute al fatto che Miller riuscì ad apprezzare la potenza di queste opere per la sola forza delle immagini, che da sole bastavano a tenere il ritmo narrativo, escludendo i testi.
Fu proprio questo incrocio eterogeneo di influenze, dalla fantascienza postapocalittica di Moebius al Giappone feudale di Kojima, a creare quello strano mix di generi narrativi che è Ronin.
Qui abbiamo invece un accostamento fra Daredevil e un frontespizio tratto da The Spirit di Will Eisner.
Eisner fu forse la più grande fonte d’ispirazione per Miller, proprio per la sua rivoluzionaria capacità di trattare uno pseudo eroe come The Spirit in maniera esplosivamente innovativa e per i toni investigativi della serie, tanto cari a Miller.
Eisner fu inoltre molto legato alla rappresentazione diretta e cruda della quotidianità dei quartieri bassi newyorkesi e dei nullatenenti che si avvicendavano nella metropoli, dell’intreccio di vite, culture, aspirazioni ed enormi fallimenti di intere generazioni.
Un affresco completo e complesso che potremmo avvicinare alla letteratura naturalista o verista, che certamente influì molto sul realismo supereroistico milleriano del suo Daredevil.
In questa tavola entrambi gli autori sfruttano alla meglio lo spazio bianco della pagina e la gestione del tempo fra le vignette: a sinistra abbiamo un tragico ed involontario suicidio che si consuma in contemporanea a un impotente Matt Murdock che prova a salvare un ragazzino devastato da una potente droga. Nella tavola a destra vediamo delle finestre-vignette incastonate in uno sfondo vuoto, con un andamento vertiginoso in diagonale della tavola, che si conclude in un salto nel vuoto che non poteva essere rappresentato meglio se non utilizzando proprio la potenza di un foglio in bianco.
La scena è caricata di tensione e sapiente mistura di tempi, riuscendo ad isolare, e dunque valorizzare al meglio, il movimento della caduta: una regia perfetta.
Qui abbiamo un accostamento non troppo pertinente, ma iconico (non sono riuscito a reperire tavole più adatte in rete) delle influenze di Sergio Toppi sul fumetto di Miller.
In primis l’impostazione verticale e statica di questa tavola che conferisce alla scena un sapore epico e nostalgico.
Da Toppi Miller imparò soprattutto la lezione di composizione, di posizionamento e pose dei personaggi, l’andamento della narrazione per linee guida visive che si slega da una mera logica di vignette susseguenti in griglia classica, oltre ad un tratteggio decorativo ed elegante.
Infine, dal nostro Hugo Pratt, vero e grande amore spudorato di Miller, l’autore americano derivò la maturità letteraria dei suoi racconti, l’ambigua forza spirituale ed ermetica di protagonisti come Corto Maltese, e una predilezione per caratteri femminili sensuali e ammalianti.
Oltre alla rappresentazione grafica di questi sguardi femminili allo stesso tempo provocanti, mascolini e rozzi, evidenti in entrambe le tavole, Miller prese spunto dalle grandi donne di Pratt per il loro enorme pragmatismo, la loro vena attivista e la loro salda capacità di mantenere posizioni dominanti e mai di sfondo.
Le eroine di Miller hanno una personalità vulcanica, inarrestabile e sfaccettata, mostrando un carattere forte che arrivò come una ventata d’aria fresca su quelle pagine.
Ci sarebbe molto ancora da dire, molto altro da mostrare, ma mi fermo qui. Lascio a voi e a me il piacere della scoperta, la curiosità di ritrovare questi accostamenti nascosti disseminati lungo un’intera produzione fatta di riprese e rielaborazioni mai sterili.