I Fedeli di A.Moore: il Grande Quando e l’era di Moore romanziere
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I Fedeli di A.Moore: il Grande Quando e l’era di Moore romanziere

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Come noto a tutti gli appassionati di fumetto, Alan Moore ha lasciato la produzione fumettistica con la chiusura del suo Cinema Purgatorio nel 2019 (da amante dell’esoterismo e della numerologia come lui, mi piace pensare che abbia voluto segnare il 2020 come fase di passaggio anche a livello suo personale, dato che gli “anni doppi” sono usualmente di transizione a livello esoterico).

In ogni caso, l’abbandono e la sfiducia nel mondo del fumetto non è coincisa con la fine della sua produzione: il settantenne Moore continua con convinzione una produzione letteraria, avviata già con i racconti interconnessi di Voice of the fire (1996) e proseguita con l’elefantiaco Jerusalem (2016) dopo un interludio ventennale. Lo stop del fumetto ha prodotto una ripresa di produzione narrativa, con i racconti di Illuminations (2023), di cui ho scritto qui, e ora questo The Great When (2024) in forma romanzesca.

Questo Grande Quando è il capitolo iniziale di una pentalogia, anche se il romanzo è leggibile in modo autonomo, e va a esplorare Londra e il suo doppio esoterico.

Mi pare che in tutta questa svolta incida molto la grande opera di Moore negli anni 2010, il combinato di Neonomicon e Providence, dedicato alla rilettura di Lovecraft, autore che, col fantastico, ha scavato nella sua America profonda, il suo New England, così come Moore, indubbiamente, scava nella sua Northampton, specie in letteratura (dalla Voce del Fuoco in poi) e nella sua Old England.

Lovecraft, colto come bardo di Providence, opera la sua trasmutazione tramite il Libro, il “Necronomicon”, il “Libro di Black” come apprendiamo, tramite le vicende dell’Araldo che prepara la sua venuta come Messia. La percezione è che, insieme ad altri fattori, in Moore sia maturata una nuova propensione verso la parola scritta, e non il combinato parole-immagine.

A una “tradizione egizia” della magia, da sempre esistita, incentrata sull’uso esoterico delle immagini e dei testi congiunti in chiave narrativa (i tarocchi come Libro di Toth, e così via) si è sempre opposta la tradizione della permutazione della parola pura, inscritta nella cabala ebraica e poi nella sua ricezione cristiana a vari livelli.

Una via che, oltretutto, offre a Moore un maggior controllo sulla sua scrittura come atto magico (linea sempre dichiaratamente perseguita da Moore), senza condividere l’incantesimo con il disegnatore inevitabilmente concelebrante (non a caso, si è giunti a una rottura con molti di essi, incluso il Dave Gibbons di Watchmen).

Questo “Grande Quando” è ora portato in Italia da Fanucci con la traduzione di Tessa Bernardi, che ci consente un’immersione nella Londra mooriana. Al centro rimane la concezione palesata già in Providence, anche oltre l’opera lovecraftiana: il libro, ogni libro, è un oggetto magico in grado di modificare la realtà, diffondendosi come un virus nelle coscienze.

La Bibliofilia, già presente in Providence, diviene centrale qui come milieu, sempre ai confini della Bibliofollia, secondo un noto calembour. La continuità, se vogliamo, è segnata anche dal fatto che l’opera al centro della cerca del Graal testuale è, in questo caso, uno pseudobiblion di Arthur Machen, considerato uno degli ispiratori di Lovecraft. La scelta di Moore ha a mio avviso una implicazione, che nulla toglie alla bravura della traduttrice, che rende il testo scorrevole e di gradevole lettura: è, intenzionalmente, intraducibile nel suo senso profondo. Ogni libro è, ovviamente, intraducibile in forma perfetta; ma Moore nelle sue opere inserisce spesso dei calembour significativi, che talvolta si intuiscono, già presenti nel fumetto ma, forse, là meno centrali per l’elemento immaginifico che prende molta scena.

Qui, invece, l’autore appare fedele alle sue recenti dichiarazioni, coerenti con la tradizione della “magia testuale” e che si trovano simili in autori precedenti (Crowley, su tutti, ma non solo) per cui “to spell”, fare incantesimi, è letteralmente “fare lo spelling”, scandire le parole ad alta voce e, quindi, osservarle attentamente, coglierne il potere simbolico complesso. Una tradizione che parte dall’allegoria medioevale e arriva al simbolismo: e forse non a caso Moore ne mette un esempio ben riconoscibile (anche nel velo della traduzione) all’inizio dell’opera.

Quando nella scena iniziale, nella libreria, il cartello passa da Chiuso ad Aperto, sicuramente da CLOSE ad OPEN,  una lettera del cartello è coperta e si passa quindi da LOSE (perdere) a PEN (penna, scrittura). Il senso è evidente: il protagonista sta per passare dal suo ruolo di “loser” a uno stadio piu’ avanzato grazie alla scrittura (tramite nuove letture che gli aprono la mente e lo trasportano, alla lettera, in luoghi incantati, e poi passando alla scrittura vera e propria).

Il romanzo tradotto non dà ragione di questo passaggio (il lettore può coglierlo dall’insistenza sul dettaglio, che ha senso solo retro-traducendo il calembour mooriano) ma probabilmente in modo simile molti altri simbolismi vengono perduti.

Per citare un altro esempio, meritoriamente mantenuto, “orwellgasm”, che fonde well + orgasm ma anche Orwell, rimando alla distopia: il ragazzo protagonista ha appena letto “1984” (siamo nel 1949) e si compiace di fantasticare avventure simili a Winston Smith. Un amplesso con la distopia prossima ventura, un monto controllato e monitorato tramite dispositivi video onnipresenti (non la televisione anni ’40 di Orwell, ma il miniaturizzato schermo dei cellulari, lascia intendere Moore). Una tradizione diversa di quel difficile orwellgasmo avrebbe fatto perdere questa sfumatura, ma probabilmente altre sono slittate.

Naturalmente, è una scelta commerciale anche logica quella di non appesantire con note a pié di pagina o simili. Ma, in qualche modo, Moore appare “sigillare” la possibilità di comprensione quando si ricorra alla mediazione di un traduttore. Un “trobar clus”, verrebbe da dire, strettissimo, comprensibile solo ai veri Fedeli d’Amore (o Fedeli di A.Moore).

L’importanza del 1949 come anno, oltre che dall’anno Orwelliano (morte e profezia di 1984), è data dalla scena introduttiva, lievemente precedente, che sottolinea, a posteriori, come il passaggio al 1950, lo scavallamento di metà secolo, porti alla perdita di molti grandi dell’occulto, segnando una “Nuova Era” nettamente staccata dalle precedenti.

Il colloquio tra Crowley e Dion Fortune che apre il libro, dove i due massimi esoteristi inglesi commentano la fine della seconda guerra mondiale, è un reale incontro avvenuto nel 1945. E la fine degli ultimi Grandi, prefigurata, annuncia un’era in cui il sapere è solo librario: “Per gli esoteristi che verranno dopo di noi, l’occulto esiste solo sui libri”, si dice, mentre appare Kenneth Grant, custode della fiaccola crowleyana e interprete esoterico del Necronomicon su cui Moore si è fondato in Providence (facendolo apparire apertamente come figura).

Poi si introduce il protagonista, l’anonimo diciottenne Dennis Knuckleyard, dickensiano commesso di libreria, e nel secondo capitolo si sviluppano le sue avventure, a caccia di libri per la sua datrice di lavoro e padrona di casa, opprimente virago che, però, offre al ragazzo l’occasione di leggere con ampio anticipo ogni testo. Un espediente, ovviamente, che permette a Moore di dargli una cultura libraria sufficientemente ampia e aggiornata.

Interessante notare come la mostruosa Ada segna il suo essere malvagia soprattutto nel distruggere un libro in apertura dell’opera, come si apre e chiude Providence. Le pagine stracciate da Ada però sopravvivono nel testo, e qualche frammento svolazzante lo cogliamo qua e là nel corso di tutta la storia. I volumi stracciati in Provindence, infatti, sono manoscritti: questo è un libro a stampa, piu’ difficile da cancellare con la mera distruzione.

Lo pseudobiblion al centro della storia è qui un immaginario scritto di Thomas Hampole, “Una passeggiata per Londra” (1853), che appare in Machen, e che viene dalla “altra Londra”, il pericoloso mondo incantato dove esistono le creature letterarie e gli pseudobiblia. Un tema che Moore ha indagato dalla Lega dei Gentiluomini Straordinari in poi, ma che rimanda anche al tema degli “universi narrativi”, fissazione nel fandom fumettistico.

Si citano anche altri testi del genere, come “Fungoids” di Soames in Max Beerbohm, che appare in “Seven Men” del 1919 (anno di ambientazione di Providence, forse non casualmente un “anno doppio”, quello in cui il presidente Wilson proclama un “nuovo ordine mondiale”).

La tradizione dell’immagine magica, cui è legato anche il fumetto, appare comunque tramite le carte surrealiste di Austin Osman Spare nel 1936, così chiamate così sull’onda della moda surrealista (Spare sarà visto come anticipatore di tale movimento e anche della pop art, per altri aspetti). Tuttavia tali carte sono menzionate come il pittore, che appare in molte scene, ma non hanno il potere operativo che viene invece dato agli pseudobiblia.

Nella storia “N”, anche grazie alcune citazioni dallo pseudobiblia, Machen diffonde la teoria che la nostra realtà sia un velo sottile che basta pochissimo a dilaniare, anticipando alcune delle tesi rese celebri da Lovecraft.

Spare connette tale visione alla teoria del mondo delle ombre di Platone, che è quanto soggiace a tutta questa visione. Il rimando a Platone si lega anche alla sfiducia per l’immagine, che è l’ombra illusoria del reale di cui parla Platone stesso.

La nostra Londra è un’ombra sul muro, del fumo, mentre la Londra Profonda è il fuoco, codificato in immagine arcane come “La bellezza dei tumulti” (e altre). È qualcosa che risale a “prima dei romani”, all’età druidica o a un livello ancora piu’ ancestrale. Naturalmente, il richiamo di Archetipi / Arcani rimanda ai tarocchi, ma Moore sottolinea anche la loro irrappresentabilità, almeno non perfettamente precisa, così come impossibile è comprendere del tutto la Londra “sottosopra” in cui il protagonista dovrà avventurarsi per risolvere il guaio in cui si è cacciato. L’immagine è illusoria, “nomina nuda tenemus” come diceva Eco citando i medioevali.

La discesa nel sottosuolo è anche discesa nell’underworld criminale, e si incontra il Re del crimine di Whitechapel (il quartiere di Jack The Ripper, altro feticcio in negativo di Moore, che ritorna anche in questo romanzo, a margine): Jack Spot Comer, che diviene il leader dell’underground di Londra con i suoi Yiddishers, mafia ebraica, nel 1936, sconfiggendo anche i fascisti di Oswald Mosley: la Battle of Cable Street, dove 100.000 antifascisti sconfiggono 5000 fascisti protetti da 10.000 poliziotti, contribuendo a stroncare lo sviluppo del fascismo storico nel paese. Spot diviene il dominatore del West End fino al 1955. Sconfitto poi dal rivale Bill Hill, divenne negli anni del declino, pare, anche antiquario.

 

Se forse una struttura sottile può sfuggire forse in traduzione, resta una fantastica scorribanda affabulatoria, ricca di una trama avvincente e anche di molti aneddoti, sospesi tra verità e invenzione; alcuni confermabili con una rapida ricerca online, altri no. Nel 1936 ad esempio Spare, oltre a creare le sue immagini, rifiuta di ritrarre Hitler, e questi lo prende come un segno di cattivo presagio: “Se tu sei un superuomo sono lieto di essere un Animale” (AOS. Austin Osman Spare, si firmava ZOS in un senso di magica riscoperta della natura animalesca). Interessante anche come il telescopio di Newton venga collocato sullo Strand sul luogo di un palo dei riti fallici di età druidica, divenendo il moderno rituale fallicistico della scienza. Ma tutto il testo è intessuto di questi rimandi, che riescono nella magia di illudere il lettore di trovarsi immerso in quella scena caotica ma fervente di energie misteriche.

 

Il tema della “discesa agli inferi” appare già in Providence, dove Black parte dall’inseguimento di “Sous le monde”, romanzo francese sull’occultismo (proiezione di La Bas di Huysmans trasformato in pseudobiblion): il protagonista scende in un milieu, spesso fisicamente sotterraneo, dove minoranze, crimine, occultismo cialtrone, reali creature sovrannaturali si mescolano in un melange indistricabile. Ma, in fondo, dall’Inferno dantesco in poi (e anche prima, nei suoi modelli classici, fino ad Enea ed Ulisse) è il modello stesso del viaggio iniziatico, che Moore sa vivificare a partire dalla sua grande conoscenza del mondo occulto.

 

Nel 1998 l‘ultimo edificio bombardato di Londra viene eliminato, e questo chiude in sostanza l’epoca della ricostruzione londinese, di cui parla il romanzo, di striscio, prima di una altra grande data di transizione, il 1999. In questo modo il romanzo, benché aperto nello sviluppo di una pentalogia (numero del resto certo non casuale, con la sua evocazione pentacolare), è chiuso concettualmente nel rendere atto di una trasmutazione che cancella definitivamente la vecchia Londra, scindendo – pare di cogliere – definitivamente o quasi i legami col vecchio mondo, pericoloso eppure potente e affascinante. Ma per quanto questo testo sia decisamente soddisfacente, sarà più interessante vederlo all’interno del nuovo pentacolo mooriano, che si preannuncia interconnesso.

A differenza di Illuminations, come si vede, non vi è nemmeno fumetto “raccontato”: nella scelta dell’ut pictura poesis esoterico, ormai Moore ha scelto la parola scritta senza ripensamenti. Comunque, come si è accennato, l’affascinante interconnessione della sua opera fa sì che anche questa parte di stampo letterario vada integrata col lungo percorso nel fumetto per un vero apprezzamento, contribuendo a mantenere un solido ponte tra parola solo scritta e letteratura disegnata.

 

 

 

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