Gillo Dorfles e il fumetto.
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Gillo Dorfles e il fumetto.

All’inizio di questo mese, il 2 marzo 2018, è scomparso Gillo Dorfles, il decano della critica d’arte italiana, alla veneranda età di 107 anni. Dorfles era infatti nato nel 1910, in quella Trieste mitteleuropea che vedeva fiorire in quegli anni intellettuali del calibro di Italo Svevo e Umberto Saba (anch’essi fra l’altro, come lui, con radici ebraiche), e dove si laurea in Psichiatria.

Attraversando tutte le epoche della storia dell’arte del Novecento, il suo ruolo critico acquisì sempre maggiore autorevolezza. Nell’immediato dopoguerra, nel 1948, prese parte attivamente al MAC, il Movimento per l’Arte Concreta, fautore di un astrattismo liberato da ogni riferimento alla figurazione.

Però, subito dopo, è tra i primi a cogliere, con “Barocco nell’architettura moderna” (1951), l’elemento neobarocco dell’arte contemporanea, una modalità di lettura che avvicina il postmoderno, con il suo gusto involuto e citazionistico, alla grande esperienza dell’arte secentesca, che ha il suo fulcro nei paesi cattolici, massimamente in Italia e in Spagna. Intuizione particolarmente precoce, che venne poi ampliata e sviluppata in riferimento a tutte le arti solo nel 1987 dal semiologo Omar Calabrese (l'”Alter Eco”, come veniva spesso definito).

Questo studio sul “barocco contemporaneo” sfocia nella più nota riflessione sul Kitsch, che abbraccia anche il ragionamento sul fumetto. Riferimenti al medium appaiono nell’autore già in Ultime tendenze nell’arte d’oggi (1961), dove inizia il lavoro di riflessione sul fumetto seriale come materiale Kitsch che viene rielaborato in chiave artistica (il riferimento è al lavoro di Roy Lichtenstein, che pur operando artisticamente – dal 1957 – nella stessa chiave di lettura critica che dà Dorfles, è fondamentale nell’inserire il fumetto in un discorso “alto”).

La riflessione si amplia con un saggio su Aut Aut del 1963 (Kitsch e cultura) e poi nel saggio del 1968 (Il Kitsch. Antologia del cattivo gusto), dalla cover volutamente kitsch a sua volta; e prosegue con opere successive, in cui precisa maggiormente il suo studio del fenomeno. Lo stesso termine Kitsch viene introdotto in italiano dal saggio (in USA, era stato studiato da Clement Greenberg già dal 1938 con Avantgarde e Kitsch), ed ha poi grande successo come chiave interpretativa delle grandi evoluzioni dei costumi – estetici e non solo – dell’Italia del periodo. Si è appena concluso il boom economico (1958-1963) che ha portato l’Italia nella modernità industriale in modo tumultuoso, e la nuova estetica di massa è caratterizzata da un “cattivo gusto” diffuso.

Tuttavia per Dorfles il kitsch non può essere ridotto a facile etichetta negativa: esso è, innanzitutto, anche la cartina al tornasole in confronto del quale può riconoscersi il bello artistico. Come già in parte in Greenberg, “Avanguardia” e “Kitsch” possono essere visti come due estremi anche dell’aggiornamento del gusto e del banalizzarsi di un’estetica più questa aumenta la sua diffusione. In questo senso, quindi, il Kitsch acquisisce una sua possibile funzione, ed è comunque degno di studio in quanto fenomeno sociologico, se non estetico e artistico in senso stretto, o “elevato”, del termine.

Come osserva Dario Pappalardo nel necrologio apparso il 4 marzo nelle pagine culturali de La Stampa, in questo ambito di Kitsch degno di nota Dorfles inserisce, assieme a filmetti rosa e romanzetti d’appendice, anche i “fumetti fotografici” (i fotoromanzi, o i fumetti dal realismo “fotorealistico” di certa Bonelli?). Se la Pop Art cerca di sanare la frattura kitsch della post-modernità criticandola tramite una ironica ripresa (lo stesso Andy Warhol usò il fumetto in alcuni suoi detournement, non solo Lichtenstein), Dorfles invece prende la cultura pop come fatto serio, criticabile in ampli tratti, ma studiabile.

Appare evidente che, in un’epoca che bistratta ancora il fumetto escludendolo dagli oggetti degni di qualsiasi indagine, la posizione di Dorfles permette di scardinare certe resistenze. Certo, vi è già l’eccezione delle pagine di Apocalittici e Integrati del semiologo Umberto Eco del 1964 (dove, oltretutto, il fumetto ha una valenza “neutra”), ma sono qualcosa di ancora isolato e provocatorio; c’è Linus, dal 1965, ma è qualcosa inizialmente ancora “interno” al mondo del fumetto, a suo modo, anche se conquista sempre nuovi lettori colti al medium.

Nel 1996, ne Le nuvole parlanti di Pietro Favari, Dorfles appare più sistematico e più positivo, superando la mera etichetta del kitsch, in una breve prefazione che anticipa quella di Umberto Eco.

La riflessione di Dorfles pare qui aver subito l’influsso – diretto o indiretto – del concetto di Sequential Art introdotto da Will Eisner nel saggio omonimo (1985, 1990) e da Scott McCloud in Understanding Comics (1993), saggio “a fumetti” sul fumetto. La “nobilitazione” del fumetto con paralleli che ne estendessero l’esistenza all’indietro nel tempo, prima del convenzionale Yellow Kid del 1895, era frequente già prima; ma con i due autori americani, tramite la nuova categoria della sequenzialità, acquisisce una maggiore sistematicità. Dorfles, da coltissimo critico d’arte qual è, estende i possibili paralleli in modo molto vasto e libero, quasi indefinito, con spunti però che vanno dall’ovvio (i citatissimi geroglifici egizi accompagnati alle pitture murali) a brillanti paradossi meno apertamente citati (il disegno-scrittura delle architetture sacre islamiche).

Stando a quanto riportato qui, Dorfles avrebbe infine (2002) dichiarato: “Il problema del fumetto mi ha sempre non voglio dire entusiasmato, ma sconcertato, perché credo che non ci sia altra forma di comunicazione visiva-verbale che sia così complessa e così mal conosciuta o maltrattata. Che cosa è il fumetto? E una forma d’arte? È solo una forma di comunicazione? È una forma di cattivo gusto? Si può confrontare con la pittura? Esisterebbe senza la nuvoletta e le parole? Esisterebbe senza le immagini riconoscibili? In realtà, credo che nessuno dei fumettologi potrebbe dare una risposta esatta a questo problema perché, in fondo, abbiamo dei fumetti che vivono solo per le parole e dove le immagini quasi non si riconoscono; abbiamo dei fumetti dove l’immagine è tutto e dove la parola è unicamente un racconto “mercenario”; abbiamo dei fumetti elitari dove sono implicate delle personalità di estrema raffinatezza e cultura; abbiamo dei fotoromanzi a fumetti che, quasi sempre, sono di una volgarità totale ed estrema… Basterebbero queste poche osservazioni per dire che dobbiamo occuparci del fumetto da un punto di vista non solo estetico, ma anche antropologico. In fondo il fumetto è una delle poche forme visivo-verbali dei nostri tempi che continua a raccontare qualcosa.”

(Gillo Dorfles, “Il fumetto tra disegno e racconto” in Poema a fumetti di Dino Buzzati nella cultura degli anni ’60 tra fumetto, fotografia e arti visive, Atti del Convegno internazionale a Feltre – Belluno (a cura di Nella Giannetto), 12-14 settembre 2002.)

Notiamo che, sia pure in un oratio obliqua che non è una pura esaltazione del medium, si ripropone dubitativamete il problema se il fumetto sia etichettabile tout court come kitsch (“cattivo gusto”), posizione sicuramente prevalente negli anni in cui egli avvia il suo studio sul tema. Si riconosce lo scarso riconoscimento e studio del medium (ancora), si pone il problema se definirlo comunicazione o arte e, in tal caso, e quello del suo rapporto con le altre arti visive (mantenendo in vita, va detto, problemi teorici che il mondo fumettologico, tendenzialmente, vedrebbe ormai più come risolti in favore di una visione artistica: ma è un ottimo riscontro per constatare la percezione “esterna” in uno dei massimi critici dell’arte).

I dubbi che pone sui due elementi ritenuti fondanti (“le parole” e “le immagini riconoscibili”) rimettono in parte in discussione il valore prima riconosciuto a sequenzialità e la closure (a parte il fumetto muto, una sequenza di immagini totalmente astratte, purché riconoscibile intenzionalmente come tale, sarebbe identificabile per McCloud semplicemente come un “non sequitur”, ma pienamente fumettistico). Forse c’è in mezzo la percezione che la linea di studi della sequential art (che personalmente trovo convincente) non è universalmente accettata (si vedano le autorevoli obiezioni di Matteo Stefanelli) quindi il dubbio di Dorfles resta tutto sommato significativo.

L’esautorazione dei “fumettologi” perché il fumetto è estremamente vario nelle sue declinazioni è un po’ ingenua (e un po’ pro domo sua, benché i contributi della critica extra-fumettistica siano molto preziosi nel dare nuove prospettive e multidisciplinarietà all’ambito di studio), e si torna alla – giusta – consueta considerazione di Dorfles di uno studio che deve essere sociologico, antropologico e non solo estetico. La chiusura, per quanto probabilmente un po’ concessione “d’occasione”, è un enorme endorsement al medium: “il fumetto è una delle poche forme visivo-verbali dei nostri tempi che continua a raccontare qualcosa”.

Chiudiamo ricordando il lungo lavoro di pittore di Dorfles, tenuto a lungo sottotono per via del contrasto con la sua dimensione di critico (per ovvi, possibili “conflitti d’interesse”) e riscoperto con la mostra “Vitriol” del 2017. Vitriol, personaggio ricorrente nei vari dipinti, che rimanda a un motto esoterico associato al vetriolo (Visita Interiora Terrae Rectificando Invenies Occultum Lapidem: “Visita le interiora della terra, correggendo trova la pietra nascosta”) e che diviene un motto dell’alchimia come ricerca della pietra filosofale. Orbene: è evidente (si veda sopra) la potenziale natura “fumettistica” (forziamo un po’ la mano, d’accordo: ma Dorfles fa a volte paralleli anche più arditi, come abbiamo visto), dato che non solo abbiamo compresenza di scritte e disegno, ma le scritte, inserite talvolta nella bocca del personaggio, appaiono quasi una forma alternativa di balloon (a volte usata anche nel fumetto).

Una lezione, quindi, quella di Dorfles, che merita di meditare e riprendere, e che ha ancora molto da insegnare al fumetto nel suo costante processo di crescita come arte giovane ma sempre più, giustamente, riconosciuta.

3 thoughts on “Gillo Dorfles e il fumetto.

  1. Grazie, spunto molto interessante. Il tema della sequenzialità e delle sue varie declinazioni mi ha sempre affascinato; questo raffronto tra l’opera di Joe Sacco e l’Arazzo di Bayeux è illuminante al riguardo.

  2. E’ un tema particolarmente spinoso ancora lontano dall’essere risolto. Dopo aver letto l’articolo con le considerazione di Dorfles e con il link alla pagina di Stefanelli mi rendo ci sono ancora più implicazioni di quanto io abbia immaginato.

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