Don Camillo 23: gli eroi borghesi di Guareschi e Barzi
Prosegue la serie di ReNoir dedicata all’adattamento fumettistico del “Mondo Piccolo” di Guareschi, probabilmente da tempo il più vasto ciclo di adattamento di un singolo autore, almeno in Italia. La longeva operazione editoriale, in corso dal 2010, è come al solito coordinata dallo sceneggiatore Davide Barzi, che firma gli adattamenti, col supporto di Matteo Laudiano (e la supervisione di Alberto Brambilla). In questo volume 23 siamo ormai giunti al 1952 (le storie sono adattate in ordine cronologico).
La bella copertina di Elena Pianta è dedicata alla storia che dà il titolo alla raccolta, “Emporio Pitaciò”, in cui torna centrale uno dei temi ricorrenti del mondo di Don Camillo, l’amore per l’opera lirica verdiana. Si tratta anche, probabilmente, della storia che offre la scena più spettacolare, efficacemente interpretata dall’autrice: le altre storie, anche notevoli, come diremo, presentano situazioni più consuete del mondo guareschiano.
Il testo come al solito si apre con la prefazione di Alberto Guareschi, il figlio dello scrittore.
Come al solito, ogni episodio è introdotto da un accurato testo di spiegazione del team redazionale, a cura di Maurizio Carnago, che offre qualche informazione in più sulla storia adattata. Il montaggio delle storie, come al solito, ricorre a una griglia francese, su quattro strip, col frequente uso di vignette “cinematografiche”, ovvero in cui l’intera strip è dedicata a una singola vignetta. Per quanto siano occasionalmente presenti variazioni, tendenzialmente la struttura è mantenuta costante. Lo stile è tendenzialmente quello realistico che è stato tipico della serie, anche se vi sono ovviamente variazioni stilistiche in base ai singoli autori. Ad esempio, nella prima storia, quella che dà il titolo al volume, Alberto Ricci ha un segno più cartoonesco della media, specie nell’espressione dei personaggi.
Le storie sono questa volta tutte vicende volte ad esplorare una singola figura del Mondo Piccolo posta al centro della narrazione, con l’assenza di storie più corali, collettive o in qualche modo eterodosse.
Emporio Pitaciò, della prima storia, è un “eroe borghese” tipicamente guareschiano. Disprezzato dal gretto borgo natio per la volontà di elevarsi, che ne fa agli occhi del popolo un eccentrico da ridicolizzare, Emporio abbandona il paese. Quando poi il protagonista giunge alla gloria all’estero tramite la sua bravura per il canto, il paese si fa servile nei suoi confronti. In questa satira della grettezza della provincia agraria c’è qualcosa di quasi verghiano in Guareschi, fino al finale poetico che, come tipico dell’autore, riscatta la situazione. La cosa singolare è che Guareschi amava profondamente quel Mondo Piccolo di cui fu il cantore: ma il suo sguardo non diviene mai accecato e ne coglie, con una spietatezza chirurgica, i limiti, solo in parte stemperati dal suo umorismo e dal suo umanesimo. Sì, nel finale, tramite l’universalità dell’Arte, c’è una forma di conciliazione tra paese e Emporio; tuttavia non redime, narrativamente, la meschinità dei provinciali.
Come al solito la sceneggiatura di Barzi è efficace ed elegante: si veda il rapporto tra le prime due vignette di p. 7, la prima tavola della storia, e le prime due di p. 26, l’ultima tavola: nelle prime è la voce irruenta di Guareschi che distrugge il soffione (Pitaciò, appunto, come il soprannome del protagonista); nel secondo, la voce dell’eroe della storia che agita il soffione con delicatezza divina.
Anche il protagonista de La Buona Terra, storia disegnata da Francesco Petronelli (dal segno più realistico, ma anch’egli con qualche riuscita caricaturalità), è un eroe borghese, benché diverso da Pitaciò: egli sceglie infatti la strada dell’agricoltura, la più classica nella sua zona, ma il gusto di eccellere nella qualità del proprio lavoro fine a sé stesso, non per arricchirsi (che è il vero fulcro dei “valori borghesi” di Guareschi e, in generale, della vera cultura liberale), lo fa identificare ugualmente come un eccentrico. E, infatti, pur ottenendo una vittoria morale, anche lui deve andare in esilio, partendo per il Sudafrica per edificare ancora una volta la sua fortuna. Una parziale sconfitta che, però, è la vittoria morale del protagonista, affascinato in realtà dalla nuova sfida e disinteressato al denaro, se non come mezzo per migliorare ancora la propria attività.
In qualche modo, anche “Comunque” è una figura del nuovo che avanza, di quell’Italia del nascente “ceto medio”, anche se Guareschi non può che guardarlo in cagnesco: è infatti il nuovo dirigente comunista, meno corrusco, più affabile e duttile del ruvido Peppone, in grado di aggirare con abili trucchi retorici la dialettica diretta di Don Camillo. La storia è disegnata sempre da Petronelli, che rende con particolare efficacia, a mio avviso, l’ultima vignetta di p.51, dove “Comunque”, in guerra, fa saltare in aria tre artiglieri russi. L’immagine riesce a essere relativamente forte anche se, con l’abile uso del controluce, riesce anche a non ricadere in uno “splatter” che sarebbe fuori tono.
Ciò è essenziale alla buona riuscita della storia a fumetti, che come sempre in Guareschi mette in campo dei dissidi etici autentici, non macchiettistici: il distinto compagno “Comunque” non rinnega la sua esperienza bellica, anche se una guerra di aggressione contro il popolo russo, e rivendica quello che ha compiuto senza rinnegare il comunista che è ora. Guareschi ne fa una figura dotata di dignità pur rappresentando un avversario politico, anche in un contesto in cui gli sarebbe stato facile sfruttare l’occasione per una critica del suo anticomunismo viscerale e al vetriolo (oltretutto, come ricorda Barzi nelle note introduttive, il fatto richiama figure storiche del mondo social-comunista italiano).
“Menelik”, coi disegni di Tommaso Arzeno, è invece una figura del vecchio mondo contadino che scompare, e se Guareschi lo guarda spesso con ammirazione, non esita a tratteggiarne le durezze, che nel protagonista Giaron non ha alcun elemento a redimerlo: gretto, mediocre carrettiere avvinazzato, un vinto della storia (i camion stanno ormai rendendo vano il suo lavoro) anche se ovviamente anche lui, per il cristiano Guareschi, ha diritto al perdono di Dio. È interessante il controcanto con “La cavallina storna” di Pascoli, perché nel grande poeta l’azione della cavalla che riporta a casa il padre assassinato è l’azione di Dio nei confronti del giusto per eccellenza, il padre ucciso barbaramente e a tradimento (nel X Agosto, Pascoli ne fa, di fatto, figura di Cristo).
Guareschi, al di là delle sue dissimulazioni, è autore raffinato e sicuramente il contrasto è voluto: Dio non interviene solo benevolmente verso i giusti, ma anche verso peccatori che appaiono indegni di ogni misericordia. La cosa non è però particolarmente sottolineata (nemmeno nel racconto originale), forse anche per una certa insofferenza di Guareschi verso gli eccessi retorici. Il segno di Arzeno, più realistico rispetto agli autori precedenti, è efficace nello studio di espressione del protagonista, stolido e odioso nel suo sguardo vacuo e arrogante che, però, maschera sempre di più una solitudine disperata nel procedere verso il finale.
“Nel paese del melodramma” è forse una delle storie più difficili da adattare di Guareschi stesso, in cui si mostra la bravura di Davide Barzi nell’adattare anche le storie più delicate. Qui la delicatezza dipende dal contrasto che si crea nel protagonista tra “ieri”, il lager, e “oggi”, la vita nell’Italia della ricostruzione, che è per il protagonista la vera angoscia: nell’orrore del lager c’era almeno la speranza del futuro, qui, in una Emilia che va verso la prosperità, per lui non c’è speranza, o almeno non la vede.
Un racconto che, per certi versi, poteva scrivere solo chi, come Guareschi, nel lager vi era stato, oltretutto nel suo caso volontariamente (rifiutando di arruolarsi per Salò), vivendo oltretutto un episodio analogo a quello del protagonista, durante la sua prigionia. La storia, che ha una sua autenticità, è però difficilissima a mio avviso da adattare, basta una sbavatura a far sembrare il discorso poco credibile e falsato. Barzi ha però ormai sviluppato una consuetudine e una fedeltà a Guareschi che gli consente di muoversi in modo aderente al testo, restituendone il dramma con efficacia, anche grazie alla simmetrica bravura e cura di un professionista del calibro di Werner Maresta, e al suo accurato e delicato lavoro di evocazione.
Chiude l’albo “Commercio”, già apparsa nel “film a fumetti”, “Il ritorno di Don Camillo”, disegnata da Italo Mattone. Si tratta di uno degli episodi più celebri dei film (e dei racconti) guareschiani, la vendita dell’anima di un “nuovo comunista” sprezzante verso il sacro (Peppone, mangiapreti senza concessioni ma uomo all’antica, lo guarda con costante disprezzo) fino alla finale crisi di coscienza. Le tavole di Italo Mattone funzionano molto bene anche in questa nuova versione del racconto restituito alla sua forma originaria, separata dal “film a fumetti”. Il segno dell’autore rende bene l’espressività dei volti e la recitazione dei corpi, fondamentali alla riuscita del racconto, tenendolo efficacemente in bilico in quell’umorismo guareschiano, senza cadere né nella tragedia né nella farsa, fino al lirismo dell’ultima efficace vignetta.
Un volume quindi interessante, grazie anche all’oggettiva alta qualità della narrazione di Guareschi, su cui Barzi si muove ormai con una fluidità acquisita.