In morte del Che
Da quanti punti di vista si può (guardare e) raccontare un evento? Qualche anno fa Horacio Altuna scelse di ri-narrare con una piccola storia a fumetti un frammento di grande “S”toria: la morte di Ernesto “El Che” Guevara.
Al guerrigliero argentino, protagonista della rivoluzione cubana e icona – già in vita – dell’immaginario di sinistra, era stata dedicata un’altra importante opera a fumetti. Quella Che. Vida de Ernesto Guevara, firmata da giganti del fumetto come Héctor Germán Oesterheld e Alberto Breccia (coadiuvato per la parte grafica dal figlio Enrique), diventata essa stessa – anche per il suo complesso destino editoriale – parte dell’immaginario colossale del Che. Senza dimenticare che anche il maestro Magnus si è misurato con il mito guevarista in L’uomo che uccise Ernesto Che Guevara, uno dei più intensi episodi della saga de Lo sconosciuto.
Altuna sceglie una strada completamente diversa dai precedenti. Il cartoonist si concentra su un singolo drammatico evento, la morte di Guevara, o meglio un concitato momento dopo l’assassinio da parte dei militari boliviani, esattamente 50 anni fa (il 9 ottobre 1967).
L’originalità espressiva dell’operazione sta nella scelta del punto di vista che Altuna adotta in questo gioiello narrativo, ritmato in cinque intense tavole. A partire dal titolo del racconto (Pastori) che confina il grande evento storico in una semplice didascalia, posta nella vignetta d’esordio.
9-10-67 La Higuera, BOLIVIA
Il racconto gioca così con le competenze di chi legge, delegando al lettore fin dall’incipit di completarne il senso. In primo piano, c’è la vicenda neorealista (alla Ladri di biciclette) di un pastore in cerca delle sue capre, sullo sfondo il racconto del cadavere del Che riverso su un tavolaccio per una foto destinata a fare il giro del mondo.
Il “Che” di Mantegna, il povero cristo di Altuna
Sappiamo come è andata la Storia. I soldati boliviani – e i loro più o meno occulti mandanti – avevano pensato che quella foto di Freddy Alborta avrebbe sancito di fronte al mondo il loro trionfo. E, invece, per paradosso quell’inequivocabile ritratto di morte avrebbe contribuito a dare vita imperitura al mito del Che.
Come suggerì il critico d’arte John Berger in un’analisi quasi “instantanea” diventata anch’essa celebre, l’immagine finisce (improvvidamente) per richiamare il Compianto sul Cristo morto di Andrea Mantegna (1303-1305), ammantando di un’aurea mistica il ritratto del guerrigliero martoriato.
Altuna ci racconta la (sua) versione della storia, rovesciando la scala dei valori. Per il pastore in cerca delle sue capre, la morte dell’eroe non ha nessuna importanza: l’immagine – che richiama la celebre foto- è confinata in una sola vignetta, in uno sguardo senza importanza gettato dal protagonista attraverso una porta aperta.
Il grande “Cristo laico” resta sullo sfondo per celebrare la vicenda di un “povero cristo” qualunque. Dalla sua prospettiva (visiva nell’inquadratura, “morale” nel racconto), il pastore non può comprendere il significato degli eventi. In fondo è solo uno dei tanti poveri cristi, angariati dai militari boliviani, per cui Guevara si stava battendo, incapaci di cogliere la qualità del suo impegno.
Così la battuta finale con cui il pastore commenta con la moglie la “brutta” giornata vissuta diventa la chiosa amara del racconto:
I militari ci hanno fregato di brutto
Una battuta che si può leggere a livelli diversi in modi diversi. E nell’ambiguità drammaturgica delle parole, Horacio Altuna definisce la sua marca d’autore e soprattutto la forza feroce del suo stile ironico e caustico.