
La misura del ricordo
Si può raccontare una storia tragica senza ridurla a una poltiglia di melassa retorica? Me lo domando nel giorno del ventennale dell’11 Settembre 2001.
E non posso che tornare all’illustrazione scelta dal New Yorker per la sua copertina commemorativa del 24 settembre 2001, quando a pochi giorni dell’attentato alle Twin Towers fu la matita di Art Spiegelman a farsi carico del dramma vissuto da un’intera Nazione.
All’autore di Maus, bastò stilizzare la silhouette nera degli edifici su sfondo neutro per accogliere in quel buco nero, dalla geometria definita, tutte le inquietudini di un’America ferita e affranta, incapace di elaborare il lutto.
Ciò che mi colpisce, nel riguardare il lavoro di Spiegelman, è come abbia lavorato per sottrazione. Come abbia intuito, fin dal principio, che uno dei problemi nel raccontare questa storia fosse la sua, colossale, deflagrazione visiva.
Col tempo ce ne siamo accorti tutti.
L’11 Settembre è stato il primo racconto mediale, planetario, in cui l’istantanea disponibilità della tecnologia digitale ha fatto debordare ogni equilibrio dello sguardo.
Giorno dopo giorno, mese dopo mese, siamo stati sommersi da migliaia di foto e centinaia di video: le Torri hanno continuato a bruciare davanti ai nostri occhi per un tempo (mediaticamente) infinito. Che sia stato un effetto pilotato, o il moto spontaneo di una sensibilità diffusa, è materia per gli studiosi dei media e ho l’impressione che lo sarà per molti anni ancora.
Ciò che Spiegelman e quelli del New Yorker resero evidente da subito è che questo enorme, colossale, mausoleo del dolore poteva essere raccontato, comunque, senza esibire pornograficamente gli aspetti orrorifici. In questo senso, quella copertina si trova agli estremi rispetto alla fotografia del Falling man, scattata da Richard Drew.
Vent’anni dopo siamo ancora fermi lì: a cercare di stabilire quale possa / debba essere la misura del ricordo. E, per quanto mi riguarda, nulla di quello leggerò o ascolterò ancora in queste ore, potrà togliermi dalla testa che Art Spiegelman ce l’abbia già raccontato.
Può aver senso dire che l’illustrazione di Spiegelmann astrae dal dramma umano e si concentra sull’aspetto simbolico, perché mostra l’assenza/perdita di un’icona cittadina?
Fra l’altro, la silhouette dello skyline (dl mare) è una delle immagini più usate per evocare NY; il richiamo è inevitabile (ma non saprei su due piedi elaborarne un senso).
Vero.