Non è un paese per monaci: Manara rilegge il Nome della Rosa
Come ho avuto modo di scrivere già ieri, il Premio Giuseppe Coco di Etna Comics di quest’anno, dove ho il piacere di essere in giuria, ha individuato una rosa interessante di fumetti italiani selezionati da una giuria che riunisce alcune delle migliori penne italiane della cultura fumettistica e non solo, sotto la guida del collega Alessandro Di Nocera.
Quest’anno mi ha fatto poi particolare piacere un significativo riconoscimento al fumetto legato all’adattamento letterario, con tre opere che in qualche modo rientrano nella categoria, accanto a fumetti di altro tipo. Miglior autore completo è risultato infatti Celoni, con il suo notevole lavoro originale a partire dalla sceneggiatura perduta del Don Chisciotte che Totò avrebbe inteso portare in scena al cinema. Ne ho scritto qui:
Il Don Chisciotte di Celoni (e Totò) – Come un romanzo (lospaziobianco.it)
Già in precedenza avevo inoltre scritto del fumetto premiato come migliore opera, la biografia della Fallaci a fumetti di Galeani e Cannatella. Anche qui, un lavoro di ricostruzione accurato e minuzioso, un lavoro dettagliato e pensato che ha il merito di riproporre – come coglie bene Di Nocera nella sua motivazione del premio – le sfaccettature di un’autrice troppe volte schiacciata solo sulla sua percezione più recente, legata alle dichiarazioni post-11 settembre, certo discutibili ma appunto “da discutere”, da inquadrare in un contesto. Quest’opera lo fa in modo accurato, serio, rigoroso. Ne ho scritto più ampiamente, come detto, qui:
La Fallaci a fumetti – Come un romanzo (lospaziobianco.it)
Infine, è stato premiato per il disegno Milo Manara, autore di un adattamento del “Nome della Rosa” per Oblomov molto riuscito, nonostante fuori dalla sua zona di comfort: “Non sono certo famoso come disegnatore di monaci” spiega ironico lo stesso Manara. Qui “Lo Spazio Bianco” ha effettuato una intervista all’autore che sviscera bene l’approccio al testo:
Milo Manara fra monaci, IA, erotismo, censura e Umberto Eco – Lo Spazio Bianco
“Il Nome della Rosa” (1980), romanzo d’esordio di Umberto Eco, è stato un lavoro di grande successo, ottenendo una nota trasposizione cinemica con un notevole Sean Connery in un ruolo “maturo”, che supera 007 e quasi anticipa il prof. Jones de “L’ultima crociata”. Qui invece Manara sceglie Marlon Brando e resta più vicino al Baskerville ideato da Eco come suo investigatore e protagonista, che deve richiarare l’Holmes archetipo, segaligno, senza barba, di un acutezza penetrante ma nervosa, inquieta (e il Connery maturo promana forza intellettiva ma fin troppo sicura e stabile, a mio avviso).
Come riportato anche nella motivazione del premio (qui), Manara si dimostra consapevole di una dimensione “politica” sottile di questo lavoro, che non è solo un giallo medioevale (primo livello) ma che cela un livello allegorico e uno morale, come nella Commedia dantesca (il quarto senso “anagogico” è quello che rimane più esoterico da cogliere). La Lupa simboleggia, per dire, l’avidità, e a un livello morale-storico è la chiesa di Roma corrotta sotto Bonifacio VIII.
Così, in Eco, la lotta dei poveri schiacciati dalla Impero e dalla Chiesa (qui più evidente) diviene una satira del mondo suo contemporaneo: in sintesi, i benedettini sono la DC, l’inquisizione domenicana di Gui l’MSI e le trame nere golpiste, il PCI è rappresentato nei francescani, mentre i fraticelli eretici sono i gruppuscoli extraparlamentari fino al terrorismo rosso delle BR.
Ma in Eco ciò resta anche volutamente “sovrastorico”, messa in scena di un eterno scontro tra ricchi, potenti e colti corrotti e la grande massa degli oppressi (in tutto, a mio avviso, c’è un forte influsso di “Mistero Buffo” di Fo).
Manara tiene, in sintesi, questo livello “politico” del romanzo storico, pur nella costrizione evidente a sintetizzare molto in un romanzo coltissimo, e si mantiene ad esempio con forza l’elemento delle tensioni pauperiste tenute a bada in modo faticoso dalla chiesa più cupa, tramite l’inquisizione di Bernardo Gui (e di Baskerville, inquisitore ormai preda del dubbio). Elemento conservato nel film e nella serie tv derivata, ma a mio avviso in modo più infedele da quanto invece compiuto da Manara in questa prima parte.
Una accuratezza che passa non tanto, non solo dalla ripresa dei testi di Eco, ma tramite l’elemento del disegno che in Manara è magistrale. I volti, e ancor più i corpi, sono sempre in Manara “carnali”: sensuali, quando egli vuole, ma è in grado di far dire loro molto di più, come avviene nelle opere in cui l’erotismo non è così centrale da offuscare la resa comico-satirica dei comprimari. Penso alle opere con Pratt, ma non solo, in cui comunque c’è sempre il (sacrosanto) elemento erotico. Qui Manara lo toglie, per fedeltà al testo (salvo in alcune apparizioni, fedele all’originale, ma senza mai approfittare in modo compiaciuto), e per certi versi mostra così appieno con quest’opera la sua potenza del segno maturo anche al di là dell’eros.
Manara però non si limita al piano storico, ma coglie anche un altro livello simbolico, quello dell’Eco semiologo.
In Eco romanziere il livello simbolico gioca con l’Eco studioso, che fonda la semiotica sul nominalismo medioevale (“stat rosa pristina nomine”): è il livello pressoché impossibile da trasporre a fumetto perché passa per lunghi dialoghi affascinati ma prolissi e cervellotici per precisa volontà dell’autore.
Ma c’è anche un rimando a Eco cultore del fumetto: l’opera infatti ha un complesso inizio a cornice (un tema molto studiato dalla narratologia) ma il vero inizio cita in modo dichiarato lo Snoopy di “Era una notte buia e tempestosa” (mascherandolo in “Era una bella mattina di fine novembre”).
Nel prosieguo, evidenziata la citazione del giallo (Baskeville/ Holmes e Adso/Watson) emerge chiaro che tutto sarà giocato sulla potenza delle immagini: il portale che stordisce Adso all’ingresso all’abbazia richiama le pagine miniate della prima vittima della serie infernale, che non si limitano a usare il potere dell’immagine per incutere terrore “gotico”, ma la usano per colpire, stupire, indurre alla riflessione comico-umoristica.
I “marginalia” di Adelmo da Otranto (nome che cita sia una città nota per la cattedrale dagli intricati mosaici simbolici, e “il castello di Otranto”, fondamento della gothic novel) sono tutto meno che marginali, come capiamo, dato che attorno a essi è nato il “dibattito sul riso” che è uno dei fulcri del mistero. Un dibattito sulla comicità e sull’immagine: sui “comics”, in pratica, e come teme Jorge da Burgos (citazione di Borges, “perché i debiti si pagano”) il giorno che un saggio autorevole legittimerà la comicità in tutte le sue forme, senza confinarla al “carnevale” in senso deteriore ed effimero, sarà la fine del mondo (di quello di Jorges).
Ora, Eco pensa a un libro preciso, diverso da tutti gli altri, che è al centro del mistero (come si comprende subito): ma è possibile un rimando ironico al suo “Apocalittici e Integrati” (1964), primo saggio di un autore ben inserito nell’accademia “alta” che legittimasse appieno il fumetto (e, in misura minore in quanto già in parte avvenuto, la fantascienza, il giallo, l’horror).
Manara coglie bene questo aspetto destinando grandi quadruple alle scene incentrate sul trionfo dell’immagine e della sua seduzione (anche, architettonicamente, quello dell’abbazia: in una progressione interessante, l’edificio come mole, poi le sue decorazioni – il portale – e poi i libri illustrati, nuova “biblia pauperum” portatile e come coglie Jorge più infida, meno controllabile). L’elemento è reso centrale fin dalla magnifica Cover, dove i personaggi escono, in pratica, da una delle miniature di Adelmo, rivelando la loro natura di comics.
Il tutto si esalta anche grazie alla elegante poetica del colore, messa in campo dalla colorista Simona Manara, che evoca il giusto tono emotivo e una verosimile cromia storica, dove il predominare di toni grigiastri, azzurrati e seppiati dà ancor più forza al periodico esplodere del colore.
Un volume quindi di grande interesse, che sono contento sia risultata premiata.