Tre storie dai Promessi Sposi, di Milani e Micheluzzi
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Tre storie dai Promessi Sposi, di Milani e Micheluzzi


Su questo blog, come noto, mi occupo del rapporto tra letteratura e fumetto. È quindi con particolare gioia che ho accolto la bella edizione, da parte di NPE, di queste tre storie tratte dai Promessi Sposi, uno dei capolavori meno conosciuti del fumetto italiano nel campo dell’adattamento fumettistico. Si tratta di un raffinato lavoro di due maestri del calibro di Mino Milani e Attilio Micheluzzi, che vanno ad aggiungersi a un ricco novero di fumetti manzoniani di cui ho scritto ampiamente sul blog (di recente, sul fumetto manzoniano mi è capitato di contribuire a un saggio su Loescher, di cui parlerò a breve).

In questo caso, è bene precisare che non siamo di fronte a un classico adattamento manzoniano a fumetti (né in forma seria, né tantomeno parodistico-umoristica) ma a qualcosa di molto interessante. I due autori hanno infatti estrapolato tre narrazioni tra quelle che si intrecciano nell’opera, la vicenda di Fra Cristoforo, quella dell’Innominato, quella di Don Rodrigo, che campeggiano anche nella bella copertina del presente volume, assieme al grande redentore, il Cardinal Borromeo.

L’opera gode anche di una bella prefazione e postfazione di un critico del fumetto del livello di Loris Cantarelli, direttore di Fumo di China, che è una premessa importante sul ruolo fondante dei Promessi nella nostra cultura, opera maturata in un lungo processo dal 1821 al 1842, e poi adottata nelle scuole italiane come lettura obbligatoria fin dagli anni ’70 dell’Ottocento, appena dopo la scomparsa dell’autore. Manzoni, nominato senatore sabaudo nel 1860, si occupò della commissione della lingua e, logicamente, pose a livello nazionale quelle scelte che aveva adottato per il suo romanzo, “risciacquando i panni in acqua d’Arno” e consolidando così l’adozione del fiorentino parlato (sulla scia naturalmente di una potentissima tradizione preesistente).

Si tratta dunque di una premessa importante per capire l’importanza anche di quest’opera, di cui quindi riferiremo per sommi capi: soprattutto la postfazione, in cui si ricostruisce l’intreccio importante tra Promessi, illustrazione, protofumetto e fumetto.

Cover

Promessi, Illustrazione, Protofumetto.

L’edizione quarantana, dunque, ha rilievo particolare per la storia del libro illustrato e del protofumetto perché Manzoni volle farne una edizione illustrata di pregio che spiccasse sulle molte edizioni illegali, e per questo commissionò oltre 400 illustrazioni a Francesco Gonin (1808-1889), autore emergente – di fede valdese, anche se poi convertitosi per il matrimonio, proprio come la prima moglie protestante di Manzoni.

Gonin, allievo dell’Accademia Albertina (1820-1828; il nome è successivo) era esponente della nascente scuola romantica, con un penchant forte per l’incisione. Il suo “Viaggio romantico” con cui illustra le bellezze del nord Italia, dal 1824 al 1834, aveva ripreso gli analoghi “Viaggi romantici” francesi di Nodier con alcuni illustratori, dal 1820.

Nel 1833 aveva illustrato l‘Ettore Fieramosca di Massimo d’Azeglio (conosciuto dal Gonin nel 1830: pittore, scrittore, e primo ministro sabaudo del Risorgimento, secondo solo a Cavour).

Dal 1834 al 1850 (fino alla morte del sovrano) l’autore è prescelto da Carlo Alberto per cui realizza affreschi anche nelle prestigiose dimore sabaude (tra cui una sala riservata nella stazione ferroviaria di Porta Nuova, esistente ma non visitabile).

Manzoni lo conosce nel 1835, a Milano: nel 1832 Gonin aveva illustrato “L’arresto del conte di Carmagnola” in un grande quadro, soggetto ispirato al dramma manzoniano che metteva al centro una figura connessa con un dominio sabaudo nel titolo. La sua scelta ha anche, in quell’epoca fatta di sottigliezze patriottiche, un senso filosabaudo e filorisorgimentale nel clima austriaco.

Manzoni intrattenne una fitta corrispondenza con Gonin dando indicazioni precise per le illustrazioni, quasi in un ruolo da proto-sceneggiatore per le immagini che intersecano e costellano il testo, anche più di una per pagina a tratti. Gonin d’altro canto si prestò con passione a un lavoro di intensa e accurata documentazione, contribuendo in modo significativo al successo dell’edizione, che ampliò ulteriormente l’apprezzamento dell’opera.

La fortuna visuale dei Promessi, dopo Manzoni/Gonin

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Sempre nelle ricche schede di Cantarelli (in chiusura dell’opera quelle sugli adattamenti) si legge dell’approvazione di Ippolito Nievo, e in generale universale, della lettura grafica di Gonin-Manzoni che diviene il riferimento visuale centrale anche per il fumetto. Dopo opere liriche (1856, 1869, 1872) altri artisti propongono una “illustrazione di autore” del Manzoni: non solo illustratori professionisti, ma anche artisti di primo piano, come Gaetano Previati, che inizia a lavorarvi dal 1885, cui seguiranno letture “moderne” di Giorgio De Chirico e Aligi Sassu (a riprova della vitalità e rilievo dell’opera anche per i grandi artisti del XX secolo).

Anche il cinema si occupa di Manzoni (1908, 1913) e proprio dal film di Ridolfi del 1913 si traggono una serie di cartoline, quindi poi di figurine Liebig (1926) che sono le prime trasposizioni popolari-sequenziali.

Nel dopoguerra giunge il fumetto vero e proprio: un adattamento topolinesco probabilmente di Martina, nel 1948, in due pagine; poi la parodia del Marco Aurelio nei primissimi anni ’50, quindi nel 1953 esce, “serio”, adattato in formato striscia, nel 1953 un fotoromanzo Bolero, nel 1955 un cineromanzo sul cattolico “Lo scolaro”.

Nuovi adattamenti nel 1967 e sul Corriere dei Piccoli, con anche l’adattamento erotico di Tabù del 1973 e “I Prosposi Messi” del 1975, e “I Promessi Paperi” su Topolino nel 1976, “I compromessi sposi” di Lunari nel 1977. Il lavoro accurato di Canterelli ricostruisce bene questa fioritura, con più dettagli nell’opera. Appare interessante, come qui accennato, un intensificarsi dei tentativi dal 1973 al 1977, con un’opera all’anno, che prelude quasi al lavoro dei nostri.

Il lavoro di Milani/Micheluzzi

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Si giunge quindi al grande adattamento del Giornalino, di Nizzi e Piffarerio, del 1984, ritenuto giustamente un capolavoro. Tuttavia questo adattamento del MeRa lo anticipa ed è per certi versi più coraggioso nelle scelte. Ovviamente lavori simili, di adattamento e riscrittura, procedono anche dagli anni ’80 in poi.

L’adattamento di Milani e Micheluzzi viene realizzato nel 1981 per il Messaggero dei Ragazzi, nella serie dei “Classici a fumetti”. La rivista, legata al mondo cattolico e in particolare al Messaggero di Sant’Antonio da Padova, è particolarmente rilevante. La testata è del 1922, prendendo l’attuale nome nel 1963; essa predata quindi Il Giornalino dei Paolini di Alba, nato nel 1924 (dall’ordine voluto espressamente da Don Alberione per l’apostolato cattolico della stampa) e che si può inoltre ritenere una reazione alla nascita de “Il Balilla” (1923) con cui i fascisti a loro volta miravano a un estensione della loro propaganda sulla fascia infantile, scalzando il predominio fino allora assoluto delle riviste “laiche” come il Corriere dei Piccoli (1908).

Mino Milani (1928-2022) è ricordato forse meno di quanto la sua importanza nel fumetto italiano richiederebbe. Laureatosi in lettere nel 1950, dal 1953 inizia a collaborare col Corriere dei Piccoli dell’immediato dopoguerra, contribuendo quindi a determinare stilemi del fumetto per ragazzi che si sarebbero conservati in tutta la produzione successiva italiana. Egli raccoglie l’eredità di Giovanni Mosca e guida la trasformazione in Corriere dei Ragazzi, dove lavora a innumerevoli serie con un linguaggio innovativo e moderno, fino al 1977. Gianni Rodari, grande autore per l’infanzia (e grande autore in generale), riconosce questo suo ruolo di innovatore del linguaggio fumettistico italiano: “uno scrittore d’oggi, contemporaneo del cinematografo e della TV, due invenzioni con le quali ha fatto da un pezzo i suoi conti, traducendo in una tecnica moderna la loro grande lezione: narrare per immagini ritmando velocemente l’azione”.

Attilio Micheluzzi, classe 1930, istriano ed esule, nel 1961 si era laureato in architettura trasferendosi immediatamente in Africa con una brillante carriera, fino a divenire nel 1969 l’architetto reale della Casa Reale libica due mesi prima della presa di potere di Gheddafi. Tornato precipitosamente in Italia, dove dopo difficoltà nel reinserirsi qui nella professione e avendo conosciuto Mino Milani, nel 1972 esordisce (inizialmente sotto pseudonimo) sul Corrierino, con Milani come sceneggiatore. Nel 1974 crea il suo Johnny Focus per il Corrierino, poi nel 1976 passa sul Capitan Erik (1972) del Giornalino su testi di Nizzi; qui creerà poi la sua “Petra Cherie” (1977).

L’opera quindi risente di questi autori di primo livello e del clima particolare della rivista: rivista di fumetti cattolica per ragazzi che, tuttavia, tenta un approccio di fumetto d’autore, pur mediato con le specifiche del pubblico a lei proprio.

Il MeRa, forse perché più piccolo, mi pare aver avuto in quegli anni una libertà ancor maggiore del già innovativo Giornalino dei Paolini, sul fumetto. Questo “Promessi sposi” è quindi da un lato perfetto per il contesto, ma con una interpretazione molto adulta, nel senso di matura.

Come detto in introduzione, la trama del Manzoni, col ritmo affascinante ma lento del gran romanzo ottocentesco, è segmentata in tre racconti brevi, ognuno incentrato su uno dei personaggi importanti di contorno, mentre i “Promessi”, centrali nel titolo, passano sullo sfondo.



Sommati, tuttavia, questi tre racconti ri-formano in qualche modo la vicenda, colta però solo da tre differenti punti di vista “a margine”. Un esperimento, quello di Milani, modernissimo nel fumetto, che pare riprendere alcuni degli esiti più avanzati del cinema, derivati si ritiene da “Rashomon” di Kurasawa che, forse per primo, aveva qui introdotto questo tema della frammentazione dell’osservatore (in Rashomon è ovviamente più evidente l’impossibilità di ricondurre il tutto a una unità, ma anche qui le tre prospettive sono colte nella loro originalità). Un tema che, nel cinema, tornerà di moda negli anni ’90, col postmoderno cinemico di Tarantino e soci (l’opera “alla Rashomon” è Jackie Brown). Ma all’epoca queste suggestioni (che, tra l’altro, non sono state molto colte dal fumetto italiano, che ha più citato altri aspetti del cinema postmoderno, come in John Doe) erano piuttosto sottili, e rendono l’opera molto moderna.

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Un altro influsso che sarà poi determinante sul cinema postmoderno, e che qui si percepisce sia pure impalpabile e sullo sfondo, è quello dello Spaghetti Western. Non un impatto pesante e, forse, nemmeno così voluto: ma quei volti scavati, quei paesaggi, quella durezza di fondo, quel montaggio cinematografico e nervoso possono far pensare al mondo di Sergio Leone, Corbucci e soci, proprio grazie alla grande “asciugatura” di stile che Milani e Micheluzzi compiono su Manzoni e Gonin. Giustamente, l’editore NPE fa riferimento anche, online, al rimando al neorealismo cinematografico, che del resto ha indubbiamente a sua volta un influsso su un western più sporco, più realistico, meno patinato.

Il tutto, e qui è il merito, con una fedeltà assoluta al testo letterario di partenza, riletto radicalmente ma con grande rispetto e conoscenza. Per dire, cinemicamente, un ottimo esercizio di stile è il “Romeo+Juliet” di Bar Luzhmann, dove il testo resta quello di Shakespeare ma diventa una tarantinata postmoderna con la raffigurazione di Montecchi e Capuleti come opposti gangster. Però qui la cosa avviene modificando apertamente il livello visivo: in Milani e Micheluzzi – che è più difficile – siamo sempre nel ‘600 del Manzoni, ma un ‘600 più duro e cupo ancora di quello manzoniano.

Si parte con l’Origin Story di Fra Cristoforo, che viene resa estremamente ricca di azione e dramma estrapolando i giusti passaggi manzoniani, fino a creare il personaggio di “vendicatore degli oppressi” mai interamente domo che c’è anche nei Promessi (ma il lettore moderno lo deve cogliere con più attenzione, bilanciato dalla globale prudenza manzoniana). L’indocilità di Ludovico è qui più marcata e presente.

Anche L’innominato è poi oggetto di una rilettura che riporta in evidenza ancor più le contraddizioni del personaggio, che Manzoni aveva limato in parte rimuovendo l’episodio del “Conte del Sagrato”, iniziale nome del personaggio, legato a un delitto quasi blasfemo, quasi sul punto di dissacrare un luogo di fede. Rendendo questi personaggi “più dark” li rende indubbiamente più interessanti e problematici agli occhi del lettore moderno, come in realtà già erano nella concezione del Manzoni prima che venisse in parte “dilavato” dalla continua rilettura educativa scolastica. Non va dimenticato che originariamente l’opera era stata sottoposta a un dubbioso vaglio dell’Indice dei Libri Proibiti, per la visione complessivamente negativa o problematica del clero, sotto le apparenze (e poi approvato anche sotto la spinta del grande successo popolare ormai ottenuto).

Infine, in Don Rodrigo vediamo il punto di vista dell’antagonista sulla vicenda. Questa parte riprende i passaggi celebri manzoniani sull’antagonista ma è anche la parte più innovativa, per certi versi, dove vengono quasi viste le ragioni dell’antagonista, pur rimanendo, fino alla conversione estrema, un personaggio negativo. Potremmo dire che Fra Cristoforo diviene più cupo rispetto alla lettura tradizionale, il contrasto dell’Innominato viene evidenziato molto bene e Don Rodrigo viene in parte liberato dall’immagine stratificata di villain macchiettistico restando un personaggio malvagio ma umano.

L’elemento unificante è il porre l’accento su tre storie di redenzione: precoce quella di Cristoforo, tardiva nell’Innominato, postrema in Don Rodrigo, eppure sempre il meccanismo paradossale e problematico della Grazia, caro al fervente (e tormentato) convertito Manzoni (che l’aveva indagata anche nel Cinque Maggio napoleonico).

La bravura di Milani è dunque indiscutibile; ma passa anche, è chiaro, in primis tramite Micheluzzi, che coopera perfettamente, alla pari, in questo processo di riscrittura del testo manzoniano. Come evidenziato anche dalla NPE nella promozione del volume, Micheluzzi non illustra, interpreta, qui come altrove. Senza quei volti scavati, quell’espressione corporea, quei tagli, quelle inquadrature, quei colori e quei chiaroscuri l’operazione non sarebbe stata possibile, e questo denota la riuscita piena dell’opera sotto un profilo fumettistico. Insomma, una coppia Milani/Micheluzzi che decostruisce quella Manzoni/Gonin: ma una decostruzione che ci invita a tornare all’opera originaria, e che ci guida in una nuova lettura più attenta.

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