Il signore delle mosche, a fumetti
Su questo blog mi occupo, come noto, del rapporto tra letteratura e fumetto. Ho accolto quindi con molto interesse questo adattamento fumettistico de “Il signore delle mosche” (1954) in occasione dei settant’anni dell’opera originale, pubblicato in Italia da Oscar Ink. Si tratta infatti di un’opera cruciale, che segna il passaggio a un “nuovo” romanzo sui ragazzi e per ragazzi, molto più cupo e pessimistico.
Del resto William Golding (Cornovaglia, 1911 – 1993), dopo aver studiato a Oxford si arruolò nella Marina partecipando nel 1944 allo sbarco in Normandia, vivendo in prima persona l’esperienza dell’orrore del conflitto. Insegnante di inglese, filosofia e greco, esordì e raggiunse il successo nel 1954 con Il Signore delle Mosche, che rimane nettamente la sua opera più famosa, e che sicuramente contribuisce al Nobel nel 1983. Siamo nell’apice della Guerra Fredda: Stalin è appena morto, la Guerra di Corea si è conclusa con un nulla di fatto dopo tre anni di nuovo conflitto sanguinoso, inaugurando la lunghissima stagione di Proxy War tra USA e Russia, sta per sorgere il Patto di Varsavia ad opporsi alla Nato.
L’autrice dell’adattamento è una delle molte brillanti firme della scena francese. Aimée de Jongh, nata nei Paesi Bassi nel 1988, nel 2014 ha pubblicato il suo primo graphic novel, The Return of the Honey Buzzard, vincendo il premio Saint Michel. Tra i suoi libri, pubblicati in oltre trenta Paesi, Days of Sand (2021), nominato Best Comic & Graphic Novel dell’anno dal «Guardian», e Sixty Years in Winter (2022). Più volte nominata agli Eisner Award, si occupa anche di animazione (suo il cortometraggio Aurora) e graphic journalism.
Come diremo, si percepisce in molti elementi un lavoro convinto e appassionato, a partire dalla lettera di introduzione al lettore, non così frequente. L’autrice sottolinea il profondo impatto dell’opera nell’adolescenza, come per molti lettori, e come la ritenga l’opera più importante che riflette sui limiti della nostra civiltà, su come sia facile, dopo aver scalfito appena la superficie, trovare una violenza primordiale che in essa si cela.
La lettera introduttiva chiarisce anche la forte consapevolezza del medium: l’autrice rivendica l’opera come una opera nuova, non il mero adattamento dell’originale. Da un lato, i testi sono fedeli in modo assoluto a Golding, ogni riga di dialogo è sua (e gli eventi sono trasposti fedelmente). Per contro, l’autrice dichiara – e lo effettua – di intervenire profondamente con i mezzi del fumetto: il segno, il colore, il montaggio.
Questa potenza del fumetto è ben chiarita dalle magnifiche tavole mute – molte splash pages, come in tutta l’opera – che aprono il volume in una cinematografica “scena prima dei titoli”: vediamo Jack, il protagonista, dal cui punto di vista seguiamo le vicende, inoltrarsi nella magnifica giungla. Il fumetto dispiega subito la sua potenza, perché laddove il testo può raccontare l’esperienza, il disegno può trasmetterla e amplificarla con la bellezza delle immagini. Oltre alle numerose splash pages, spesso le vignette sono “a sviluppo orizzontale”, occupando l’intera striscia, richiamando uno la grandiosità visiva dello schermo cinematografico.
Un espediente frequente nel fumetto, specie quello più moderno, cui la griglia europea di fitte vignette quadrate va sempre più stretta, ma che qui si coniuga benissimo al protagonismo della magnificenza naturale (che fa da sfondo, e contrasto, con lo sviluppo della crudeltà umana).
Fin dalla prima scena dialogata, dopo i titoli, appare evidente il forte elemento interpretativo. Il giovane protagonista Ralph appare subito più infantile e più innocente di quanto lo troviamo nel romanzo. Una cosa che passa non solo per il disegno dell’autrice, morbido e tondeggiante, quasi avvicinabile a certi tratti dell’euromanga e della nuova disney ma in una sintesi fortemente d’autore. Ma anche per la recitazione accurata del volto e ancor più del corpo dei giovani protagonisti, qui liberi di usare una espressività corporea totale, quasi ancestrale, rispetto alla maggiore fissità che avrebbero in un contesto urbano.
Il fatto che Ralph scherzi sul nomignolo di Piggy e lo riveli subito agli altri è presentato dunque più come parte della sua incosciente esuberanza, e non come il fatto che possiede una certa aggressività, pur disciplinata (rispetto ai suoi rivali, che la fanno esplodere subito in modo compiaciuto).
Appare così subito più netta la contrapposizione con i lugubri “mantelli neri” del coro, comandati da Jack. Gli elementi simbolici, ben presenti già nella storia originaria, appaiono ancor più evidenziati e sottolineati, come la Conchiglia quale simbolo fragile della democrazia, e la tecnologia, utilizzabile per il bene o il male (gli occhiali), contrapposta al Signore delle Mosche, che emergerà in seguito, come simbolo del ritorno alla barbarie diabolica (i ragazzi assegnano questo nome in modo “ingenuo”, non come richiamo culturale, ma Golding sa bene che è Beel Zebub, il Dio Baal pagano schernito come “signore delle mosche”, del nulla, dall’ebraismo, e poi confluito in Belzebù, il diavolo cristiano).
Non è solo Ralph, comunque, a essere reso più dolce e infantile dalla rappresentazione, ma tutte le figure dei bambini. L’atrocità della degenerazione nella violenza, già amplificata nell’opera originale dal fatto di svilupparsi tra preadolescenti (in cui ci shocka di più) è accentuata dal tratto raffinatissimo ma anche “grazioso” dell’autrice, che crea un ottimale contrasto con la situazione. Esattamente come il magnifico scenario naturale è ancora più bello nel disegno, così i fanciulli sono ancora più teneri.
Nel caso, normale nel lettore adulto, che si legga l’opera per la seconda volta, conoscendo già almeno per sommi capi l’originale di Golding, ciò acuisce un sottile senso di angoscia perché sappiamo già il destino che incombe sulla fragile società dell’isola (mentre nella lettura originale è più plausibile attendersi vari sviluppi possibili).
La bellezza del disegno rende sottilmente più paradossale anche la seconda parte, che porta verso la distruzione. Infatti, se nell’opera originale, pur conservandosi una prosa raffinata, c’era più il contrasto con la dissoluzione della bellezza dell’isola presentata nella prima parte, qui anche la distruzione nel fuoco assume una grandiosità neroniana, in tavole sempre di grande bellezza e grande dimensione.
L’elemento interpretativo dell’autrice è poi molto forte nel finale, dove sottolinea con cura alcuni elementi presenti in Golding, ma che lei mette in evidenza. Prima, in modo sottile, evidenzia come il tenente che giunge sull’isola a riprendere i ragazzi è armato di pistola, che stringe in pugno. In questo modo il loro arrestare il sacrificio umano non è per forza ritorno in sé alla visione di un adulto, ma anche semplice fermarsi di fronte a una possibile violenza superiore (in questo caso, certo, a fini di bene).
Molto evidente e sottolineato è quindi l‘elemento bellico finale, con il primissimo piano degli imponenti cannoni della nave da guerra giunta a salvare i ragazzi, che amplificano la pistola del graduato. Certo, l’intervento del mondo adulto ferma la violenza caotica e primordiale dei ragazzi, ma lo fa solo nel quadro di una ultraviolenza della società umana. La scena ha quasi valenza di una chiusura circolare, poiché i ragazzi sono giunti sull’isola dopo una evacuazione tumultuosa in seguito a una guerra tra le superpotenze nucleari in corso.
Uno scenario di incredibile attualità allora, nel contesto che avevamo delineato (Guerra Fredda verso il suo acme) e anche oggi, con una rinnovata attualità nella corsa verso la follia di una guerra globale a partire dal conflitto Russo-Ucraino.
Anche se sia Golding che De Jongh sembrano dirci che è un seme della follia piantato già in origine nell’essere umano: forse i ragazzi agiscono così sotto lo shock della guerra, può darsi, ma la forma che danno alla società è la prima organizzazione sociale, la divisione raccoglitori e cacciatori, coi secondi che inevitabilmente si ascrivono poi il monopolio della violenza e il dominio della società tramite di esso, anche nella forma ritualizzata del sacrificio umano ancestrale (Piggy non è, che so, processato come dissidente o traditore, cosa che sottolineerebbe la natura indotta della violenza è vittima sacrificale per placare gli dei).
C’è un gusto pacifista e illuminista in Golding e De Jongh: ma è molto più quello di Voltaire che quello di Rousseau.
L’opera quindi, come le migliori opere derivate, ci porta a riflettere, tramite il confronto, sull’opera originale e sulla sua importanza, aggiungendo ulteriori sfumature di senso e di significato. Un volume perfettamente accessibile anche ai ragazzi di medie e superiori, che però non dissimula per nulla, giustamente, la durezza del messaggio originale (senza caricarla inutilmente sul piano visivo, efficace proprio per il contrasto della sua morbidezza, secondo la lezione di Maus).