I Guareschi a Venezia

 

 

Esce in questi giorni un secondo volume, per ReNoir, dedicato al Corrierino delle Famiglie, la serie di racconti dedicati da Guareschi alle sue vicende famigliari: un’opera molto meno nota dell’iconica serie di “Mondo Piccolo” con al centro Don Camillo e Peppone, ma anche un esempio di umorismo delizioso, che merita – a partire dal fumetto – riproporre e riscoprire.

Già è meritorio il lavoro a fumetti di ReNoir su Mondo Piccolo, coordinato dallo sceneggiatore Davide Barzi (un lavoro molto più fedele delle pur notissime trasposizioni cinemiche), che tiene in vita la fama di questa opera; ma è ancor più interessante questa riscoperta.

Questo nuovo numero, disegnato da Adriano Fruch, contiene molte storie interessanti e significative. La prima, “Ma il mio mio cuore è rimasto in Polonia”, è uno dei racconti più toccanti di Guareschi, reso qui con grandissima delicatezza dalle matite di Fruch che evocano il lager e lo sdoppiamento che induce nell’autore, diviso allora in due, e ancora diviso anche tornati al tempo di pace. Il finale umoristico è un segno della magistralità di Guareschi: da un lato stempera il rischio di eccessi di patetismo, dall’altro però non giunge a rovesciarlo del tutto in un finale completamente conciliatorio.

 

 

Ci sono tutti gli elementi del Corrierino delle Famiglie al meglio: il potentissimo complesso di Elettra della Pasionaria, e lo spettro della povertà che grava su un “borghese povero” come Guareschi, con un benessere ancora appeso al filo di lana. Se in altre storie il tutto è più elaborato verso il lato dell’humour (e non tutte, ovviamente, raggiungono i vertici dell’umorismo o del lirismo), qui la finezza è notevole.

L’abilità di Barzi, qui come altrove, è saper “sparire” come sceneggiatore, facendo un lavoro che si intuisce enormemente complesso al solo fine di non turbare il lavoro perfetto di Guareschi.

Altrove Barzi sa anche mettere in scena la sua bravura, con alcuni virtuosismi in altri adattamenti guareschiano e non, e nelle storie di suo soggetto, dove – come nel suo Lombroso o nei suoi Mystere – può dar sfogo al gusto per la documentazione accurata, con un gusto ludico per un’erudizione sorprendente, sempre al servizio della storia.

Anche di Fruch si può apprezzare il gusto della misura, nella capacità calibrata di non caricare né in un senso troppo veristico e drammatico le scene del lager – che, salva la leggerezza della scrittura di Guareschi, o forse proprio grazie a questo, sono strazianti a ben leggerle – né il senso troppo cartoonistico nella scena famigliare, mai troppo serena. In certo qual modo, il disegnatore si rivela perfetto per questo Guareschi più intimo e famigliare, ma solo apparentemente disimpegnato, grazie a un segno più morbido, meno squadrato rispetto a quello congeniale per il “neorealismo di destra” del Mondo Piccolo.

“”Fra vent’anni chi lo ucciderà?” pensavo allora. “Un russo o un tedesco?” Dice il Guareschi nella sua tiepida casa, fissando un bambino in cortile: e letta oggi, per comprensibili ragioni, suscita un brivido in più.

 

 

Notevole anche “Alla Fiera”, celebrazione raffinata dell’orgoglio dell’Italia del boom (quello che, in modi più nettamente comici, appare spesso anche in Don Camillo e soprattutto Peppone). Qui il tutto è filtrato tramite il sottile gioco famigliare; notevole è il contrappunto delle ultime due vignette di p. 24, dove la “uscita dalla vignetta” viene usato, in sequenza, in due modi differenti. Prima è il passo di Carlotta che trascina con se Giovannino all’avventura, poi è la grandiosità dell’industria italiana che conquista il suo posto nel mondo (“Compramelo” ordina infatti Carlotta).

 

 

“La danza delle ore” si apre con una frecciata profetica contro il presidente Luigi Einaudi, mio illustre conterraneo (tra Dogliani e Carrù) teorico faro della cultura liberale, non privo di ombre. Con un’accusa di vilipendio oggettivamente risibile mossa a Guareschi, Einaudi creerà le condizioni – bruciandogli la condizionale – che permetterà alla DC di farlo incarcerare per le accuse più gravi da lui mosse a De Gasperi (dove, in questo caso, a suscitare dubbi fu poi l’andamento del processo). La questione viene poi ben ricostruita nelle eccellenti schede di approfondimento che sono una caratteristica di questi volumi.

 

 

Il racconto mette poi al centro un altro aspetto dell’umorismo guareschiano, ovvero il melanconico, filosofico esistenzialismo di Margherita (sempre contrappuntato dal complesso di Elettra della Pasionaria, simmetrico al complesso di Edipo più timido, più passivo-aggressivo di Albertino). Guareschi mostra anche in questo una eccezionale raffinatezza. La moglie che si perde in paturnie mentali derivanti dalla sua scarsa conoscenza del mondo maschile – la politica, il lavoro, le macchine – è un meccanismo umoristico con un fondo di misoginia, che apparentemente Guareschi riprende con garbo (e sa riprendere: la scena iniziale dello “spinterogeno” che angustia Margherita). Tuttavia Guareschi ha la finezza di spingersi oltre: Margherita imbastisce un castello di speculazioni su ogni cosa minima, ma quando iniziamo a seguire il suo ragionamento ci accorgiamo che non sono affatto banalità, ma partendo da uno spunto comico ci conduce a riflessioni esistenziali dotate di un loro spessore, che spiazzano Guareschi e il suo lettore.

 

 

Poi, naturalmente, qualche elemento spezza l’incanto e si torna al momento comico, e Guareschi volutamente lascia il dubbio che si tratti solo di uno scherzo bonario: ma non è ovviamente così, e la malinconia di fondo resta.

Il successivo racconto, quello di Venezia che dà il titolo, mette più protagonista il complesso edipico di Albertino, meno evidente di quello della sorella ma similmente presente verso il padre visto come figura ingombrante. “I figli ci guardano con l’occhio gelido del goniometro dell’agrimensore” esplode Margherita, e viene il dubbio che Guareschi stia citando anche Kafka, oltre a Freud, sia nel richiamare l’agrimensore K. del Castello, sia la fredda lucidità con cui Kafka analizza il suo pessimo rapporto col padre.

 

 

Nella sua finzione di anti-intellettualismo (in un’insofferenza degli intellettuali organici, piegati al PCI e a Stalin per stupidità o per vigliaccheria) viene il sospetto che Guareschi sia più colto di tanti più omaggiati nelle antologie, che i rimandi freudian-kafkiani magari li ostentano, ma li colgono meno nella loro essenza.

“È il nuovo mondo della materia che cozza contro il vecchio mondo dello spirito. Quando moriremo, i nostri figli osserveranno: “La bara di mia madre ha un volume di metri
cubi tot” osserva Margherita, e riecheggia “Lo straniero” (1942) di Camus, che inizia con la sua indifferenza al funerale materno.

Tutta la modernità è già in Guareschi, e Barzi e Fruch sono adattatori fedeli. Ma Barzi è bravissimo a selezionare, evidenziare tutto ciò che segna questa eccezionale modernità di Guareschi, in un’opera apparentemente minore (ad esempio, Guareschi ironizza sui ruoli di genere: si regala un bullone alla Passionaria e una pentola ad Albertino, con naturalezza: e l’umorismo è verso lo stupore del commesso, non verso la “stramberia” della madre, che è invece consequenziale nei suoi doni). Il tutto mantenendo la gradevole scorrevolezza di questi racconti, che al primo livello restano godibilissimi. E Fruch, come detto, è congeniale a rappresentare con garbo.

Sono racconti “perfetti” in sé, ovvero conchiusi in un equilibrio sottile ma delicato, non sono testi “sgangherabili” (secondo la definizione di Eco) ovvero aperti a molte e diverse rielaborazioni (salvo perderne lo specifico e scendere di diversi gradi nella qualità). Il lavoro dei due autori del fumetti è quindi – deve esserlo – impalpabile, ma difficile.

 

 

Altri racconti indagano altri aspetti del mondo guareschiano, con una accurata ricostruzione dei retroscena reali, dalla goliardia bolognese di Guareschi alla villeggiatura della famiglia a Garessio (un altro più lieto legame di Guareschi col mio territorio). Qua e là Barzi e Fruch non mancano anche di inserire qualche citazione, come l’incontro tra Guareschi e Spirou. La citazione di Scerbanenco è invece originale di Guareschi, che in questo modo omaggia il grande giallista italiano di origine ucraina, suo collega redazionale da lui.

Ancora una volta, il vasto ciclo guareschiano supervisionato da Barzi – che è sicuramente ormai il più vasto ciclo unitario di adattamenti dedicato a un autore italiano – unisce l’alta qualità dell’autore originale con l’alta qualità dell’adattamento. Chissà che in un futuro non si possa vedere un graphic novel tratto da “Il destino si chiama Clotilde”, a mio avviso un altro dei capolavori guareschiani, che meriterebbe anch’esso un suo posto nel canone, con una nuova e differente declinazione dell’umorismo dell’autore.

Su tutto, resta ben trasmessa, oltre all’ovvia godibilità umoristica, la modernità di Guareschi e della sua visione ironica, talvolta all’apparenza burbera, ma in realtà più sovversiva delle regole del reale nel suo umorismo che ha tra le sue radici un certo spirito surreale.

Se nel “Mondo Piccolo” egli deve assumere la visione di Don Camillo e Peppone, quindi diverse da quella sua, di borghese milanese povero ma colto (sotto un certo understatement di dissimulazione), qui appare il punto di vista suo e della famiglia, nella modernità che abbiamo indicato (come detto, i complessi di Edipo e di Elettra, l’esistenzialismo drammatico della moglie e quello ironico e rassegnato di Guareschi, la figlia portata per la meccanica e il figlio che gioca con le pentole, tutto presentato come divertito dato di fatto a volta soffuso di nostalgia).

 

lità