L’eleganza dell’inadeguatezza

Caro diario, settimana scorsa ho fatto un workshop di sceneggiatura di tre giorni.

Normalmente questa frase, pronunciata negli ultimi dieci anni della mia vita, aveva un solo significato: IO spiego come si scrive una sceneggiatura ad ALTRI.

Stavolta è stato il contrario. Un ALTRO spiega a ME come si scrive una sceneggiatura.

Dopo tanti, ma tanti, anni sono tornato alla forma alunno. Perché, mi ero detto, “ho ancora tante cose da imparare”, “anche se sono 15 anni che faccio questo lavoro non so mica tutto”, e bla bla bla.

Avete presente l’espressione “parlare bene, razzolare malissimo?”

Quello ero io, qualche giorno fa. Prima del workshop di sceneggiatura. Con Umberto Contarello. Che ha scritto “This must be the place” e “La grande bellezza”, giusto per citare gli ultimi suoi lavori, in coppia con Paolo Sorrentino. Mi piace Sorrentino (da “L’uomo in più”, eh, mica sono saltato sul carro dei vincitori con l’oscar, io), mi affascina il suo cinema nonostante sia lontano da ciò che frequento normalmente, per stile e contenuti. In parole poverissime (perché alla fine è di questo che parla ‘sto post): amo più le storie di Genere che le storie d’Autore. Le une non escludono le altre (non ne vedo il motivo) ma, di fatto, quando scrivo ho una mentalità di genere. Il top per me è quando il Genere si (con)fonde con l’Autorialità. Tipo, avete mai fatto caso che ogni film di Kubrick rientra in un genere cinematografico ben preciso e codificato? O che, per esempio, il signor Sclavi scelse l’horror e il formato bonelliano per raccontare più o meno tutte le sfumature dell’animo umano?

Primo giorno: Rabbia e Rifiuto.

L’ambiente è accogliente, la classe numerosa e variegata (dall’universitario che ha voglia di sentire qualcosa di diverso dal solito, alla scrittrice di romanzi che vuole apprendere una nuova arte dello scrivere, al chitarrista di una band nu metal, allo sceneggiatore di fumetti che sa tutto), l’insegnante un gioviale veneto col sorriso sornione di chi conosce il vero successo ed è pienamente consapevole del proprio talento. È odio a prima vista, ovviamente.

La fase di riscaldamento la conosco bene ed è sempre la solita: domande generiche sulla materia per rompere il silenzio e stabilire un contatto col pubblico. Alla terza risposta giusta che do, battendo sul tempo tutti gli altri, vengo zittito bruscamente.

“Voglio sentire una gamma di suoni diversi, non sempre la stessa nota” è la prima lezione di vita che mi viene impartita. Ma ancora non lo so. Mi offendo a morte e m’incazzo tra me e me (più o meno) e da quel momento decido di tacere e prendere appunti nel modo più scontroso possibile (credetemi, si può).

Taccio anche quando conosco benissimo la risposta e gli altri ci arrivano dopo minuti. Mi trasformo nel peggior giocatore di quiz show della storia.

Taccio quando il docente dichiara di non amare le Storie di Genere preferendo il Lirismo e la Poesia, rifiutando la Maniera e i Meccanicismi, i perfetti ingranaggi di causa/effetto di una trama che rendono tutto così artificioso e poco realistico, ripudiando l’Effetto inteso come atto di disonestà verso il pubblico (che non deve stupirsi perché lo costringi tu a farlo, ma deve stupirsi in maniera naturale nel corso della storia) e disdegnando la Credibilità a tutti i costi a scapito dell’Umanità di un personaggio.

“Create scene Belle, non scene Utili” diventa un mantra.

E taccio quando lo Sceneggiatore di Cinema fa un’infelice battuta su Dylan Dog, usato come metonimia de Il Fumetto nel senso più basso del termine e tutti ridono. A quel punto capisco di trovarmi di fronte alla mia Nemesi.

Verso la fine parlo, azzardo qualcosa ma non la azzecco. Lo fa qualcun altro al posto mio. Brillantemente. Ed è lì che decido che l’indomani non mi sarei presentato.

Secondo giorno: Accettazione.

E’ mattina presto. Ho dormito poco e male. Ho sognato Groucho che si esprimeva a massime filosofiche mentre io giocavo a dama con Freddy Krueger.

Senza accorgermene comincia la seconda lezione.

Quando si inventa una storia non dobbiamo sapere chi siamo, bisogna abbandonare se stessi.

Il protagonista non deve per forza cambiare. I personaggi di una storia possono rimanere fedeli a loro stessi fino alla fine, se il cambiamento risulta una forzatura narrativa.

Un personaggio fragile è bellissimo. Un personaggio forte non ha eleganza.

Se sai fare qualcosa bene, in modo perfetto, lo fai meccanicamente, senza sforzo, senza poesia.

Quando un personaggio non sa fare bene quello che deve fare, quando è inadeguato rispetto alla situazione in cui si trova, è pronto a stupirsi e diventa elegante. Se non lo sa fare del tutto è solo goffo. Ma se deve impegnarsi e trovare il suo modo per raggiungere l’obiettivo, allora è un ottimo personaggio.

Siamo tutti inadeguati alla vita. Ma diventiamo eleganti quando ci proviamo.

Fate scelte liriche, non drammaturgiche. Bisogna sempre ricercare la Bellezza. Nelle parole che scegliamo, nelle scene che immaginiamo, nei personaggi che creiamo. Senza mai scadere nella Maniera.

Stare tra la Bellezza e la Maniera è Talento.

Ho quasi del tutto introiettato il mio proposito di starmene zitto e buono.

Gli altri, invece, fanno domande a raffica, intervengono, partecipano. Alcuni vengono zittiti, altri elogiati, altri ignorati, altri redarguiti in modo non molto, come dire?, delicato.

E in questo coro fatto di alti e bassi, soddisfazioni e frustrazioni, emergono Le domande, quelle davvero importanti, quelle che non verrebbero mai pronunciate se il ghiaccio non fosse più che sfondato. Sono gli altri a porle.

“Come posso sapere se quello che racconto piacerà a qualcuno o interessa solo me?”

“Ma tu credi davvero di essere unico? Credete di essere speciali? Di avere cose da dire a cui nessun altro al mondo ha mai pensato? Questa è una balla che ci ripetono e ci ripetiamo da quando siamo nati. Ci sarà sempre qualcuno uguale a noi, qualcuno che condividerà il nostro pensiero. Questa è la verità. Nessuno è unico.”

Nessuno è unico.

Terzo giorno: Catarsi.

Avete presente Arya Stark di Game of Thrones nella quinta stagione? Quando vuole diventare “nessuno” per essere una perfetta assassina degli Uomini Senza Volto? Quando le viene vietato di usare il proprio nome e il suo tutor si rivolge a lei con l’epiteto “Una ragazza”?

Ecco, la mattina del terzo giorno faccio metaforicamente 10 passi indietro, tiro un gran respiro, chiudo gli occhi. Quando li riapro sono “Un alunno”. E capisco un sacco di cose.

Capisco che Sceneggiare significa mettere alla prova il Soggetto. Esattamente come uno scienziato mette continuamente alla prova una sua Teoria che tutti i colleghi cercano di contestargli. Se qualcosa mette in discussione una scena, la si modifica finché quella scena non torna pienamente a “dimostrare” il Soggetto. A volte occorre eliminarla, quella scena arrogante, e sostituirla con un’altra. E’ quando ci sono troppe scene che contestano il Soggetto che capisci che la tua storia non regge.

Capisco che se nella storia c’è un problema evidente, qualcosa che ostacola la trama o che non torna, devono essere i personaggi a dirlo, NON gli spettatori. Il problema c’è, caro pubblico, non ti voglio prendere in giro: ora vediamo come affrontarlo.

Capisco che i personaggi di una storia non parlano tutti in modo diverso. Non è vero che ogni personaggio ha un suo linguaggio, un suo stile, un suo tono. I personaggi di una storia hanno tutti lo stesso suono, indipendentemente dal loro ruolo, estrazione sociale, razza, sesso, altezza. Sono le storie che hanno linguaggi diversi tra loro. E penso a Scorsese, Tarantino, von Trier. Eisner, Miller, Pazienza. Cazzo, se è vero.

Eisner

Miller

Pazienza

Capisco che in un dialogo prima bisogna esprimere l’Emozione, poi l’Informazione. L’utilità deve essere nascosta dentro l’emozione. E penso all’incipit di Watchmen

Watchmen

Capisco che in una scena non devi mettere “ciò che succede” ma “ciò che ti piace”. Non devi supporre l’effetto che provocherai in chi legge, ma ricercare solo l’effetto che provoca su di te. Non si ricerca lo stupore, ci si inciampa.

E penso agli acquarelli delle tavole mute di “Ken Parker – Il respiro e il sogno”.

Ken Parker daino

Ken Parker autunno

Capisco che la più grande tragedia per uno sceneggiatore non è scrivere una storia brutta. Quello è un dispiacere. Peccato, poteva essere bella e invece è venuta male. La più grande tragedia è non finirla, una storia.

Capisco infine che Umberto non odia i Generi né Il Fumetto, semplicemente sono mondi che non gli appartengono e con cui non si è mai confrontato. Come io non ho mai praticato calcio, ma solo ciclismo. Capisco che mi ero presentato con la bici da corsa nello spogliatoio di una squadra di serie A all’intervallo, con l’allenatore che spiegava le tattiche per vincere la partita.

E soprattutto capisco che non odia me.

Per tutta la durata del terzo e ultimo giorno non ho aperto bocca. Ho ascoltato e annotato. Mi sentivo meravigliosamente spiazzato. Pronto a stupirmi. Pronto a imparare.

Ed elegantissimo nella mia raggiante inadeguatezza.