
Lynchiano
Quando il tuo cognome diventa un aggettivo significa che sei arrivato.
Che tu sia fumettista, regista, poeta, scrittore, politico, non importa, questo assioma si applica a tutte le categorie. Disneyano, bonelliano, felliniano, argentiano, romeriano, spielbergiano, leopardiano, kafkiano, kingiano, tacheriano, reaganiano. Alcuni di questi termini non vengono nemmeno sottolineati in rosso dal correttore di bozze di word. Indovinate quali.
E poi c’è lynchiano. Che è l’unico aggettivo al mondo che può descrivere l’arte di David Lynch.
Non ci sono sinonimi per lynchiano. Perché se disneyano fa rima con buonista e zuccheroso, bonelliano sta per “fumetto realistico da edicola” e kingiano richiama l’orrore che si cela nei meandri della quotidianità dell’uomo qualunque, lynchiano è un eccellente connubio tra “grottesco”, “surreale”, “inquietante” e “criptico”, senza in realtà essere né l’uno né l’altro né gli altri ancora.
Il neonato di “Eraserhead”, lungometraggio d’esordio di Lynch datato 1977, è GROTTESCO perché è un esserino deforme e oggettivamente mostruoso che però piange come un bambino e deve essere nutrito come un bambino.
Il rapporto tra l’esserino e suo padre, il cotonatissimo protagonista, è SURREALE perché genera problematiche tipiche del rapporto neopadre/neofiglio (l’irritante veglia notturna sul pupo piangente, la rassegnazione al fatto che è il tuo rampollo e non lo puoi mica sopprimere, la cautela nel maneggiare il fragile frutto del tuo sangue) senza che il genitore, né alcun altro personaggio, faccia minimamente cenno all’orripilante aspetto del pupo.
Il quadretto familiare composto da padre, madre e mini freak è INQUIETANTE perché sfido chiunque a trovare confortevole la permanenza in una camera matrimoniale perennemente semibuia, con le pareti scrostate, la finestra che da su un muro di mattoni, il sibilo del termosifone di sottofondo e i gemiti di “quella cosa lì” che si è pure ammalata e ora ha la febbre.
E le scene che riguardano questo tenerissimo trio sono CRIPTICHE perché lo spettatore si chiede continuamente: perché? cosa significa?! malsana metafora della famiglia disfunzionale o puro sfoggio di disagio sociale/comportamentale?
Lynchiano è qualcosa che ti entra sottopelle, ti affascina e ti ripugna allo stesso tempo e in egual modo, ti costringe a guardare fino in fondo, fino alla fine, fino al momento in cui dovrai decidere se approvare o condannare l’esperienza che hai appena vissuto.
Mai sentito nessuno dire: Non male quel Lynch, fa delle cose carine, tutto sommato.
Per Lynch esistono solo detrattori o estimatori.
I commenti dei detrattori sono: Con la scusa di stupire non racconta nulla, Ti prende solo in giro, Non sa neanche lui cosa vuol dire quello che ha fatto.
I commenti degli estimatori: Ho fatto un sogno a occhi aperti, Mai visto nulla del genere, Che viaggio!
Non ci sono vie di mezzo. Il mondo si divide tra chi segue Lynch e chi non segue Lynch. Io, tra alti (Twin Peaks, Cuore Selvaggio, Fuoco cammina con me, Una storia vera), altissimi (Eraserhead, Elephant Man, Velluto Blu, Strade Perdute, Mullholland Drive) e bassi (Dune, Inland Empire), mi ritengo un seguace. Perché Lynch è unico e inimitabile.
Nessuno come lui riesce a mettere così tanto in discussione il mio senso critico e le mie certezze nella Narrazione, in quel sistema di regole e schemi che prima ho studiato, poi applicato e infine insegnato, quel palazzo mentale che è diventato il mio modo di concepire e analizzare le storie che vedo e che leggo e che mi permette di nutrirmi di esse.
Lynch riesce a disintegrare il mio palazzo. Lo fa in mille pezzi e mi lascia basito per ore, indeciso se ricostruirlo subito o aspettare che lo stordimento causato dall’onda d’urto della detonazione si plachi facendomi riacquistare lucidità. Alla fine opto sempre per una terza soluzione: abbandono le macerie e vado a costruirmi un altro palazzo, da un’altra parte, più grande, più solido, più sicuro. Aspettando un nuovo bombardamento.
Le sceneggiature di Lynch riescono a farmi dire ai miei allievi “don’t try this at home” e allo stesso tempo mi costringono ad ammettere l’autore nella cinquina dei miei registi preferiti di sempre. Come glielo spiego?! Come posso giustificare il fatto che credo fermamente nelle teorie che illustro a lezione e cerco di dimostrare col mio lavoro, ma amo spassionatamente “Mullholland Drive” che le contraddice allegramente scena dopo scena?
Come possono convivere raziocinio e passione? Come posso, insomma, essere credibile? Nello stesso modo in cui è credibile Lynch medesimo: mostrando, non spiegando.
Quindi ve lo mostro. Seguitemi. Non sarà un viaggio lungo né istruttivo. Sarà un viaggio emotivo.
Nel 1990 Twin Peaks aveva lasciato un segno indelebile nella storia della tv e dello spettacolo in generale, un segno di cui ancora oggi critica e pubblico disquisiscono. Twin Peaks. Quello strano telefilm di cui io, come il resto del Mondo, avevo visto il folgorante pilot e dal quale ero rimasto misteriosamente affascinato. Allora ero un adolescente metallaro e ritenevo la TV il Male Assoluto, quindi non andai oltre per rimanere fedele ai miei principi. Ancora non sapevo che la mente dietro il tormentone non pubblicitario e non comico più famoso della Storia –chi ha ucciso Laura Palmer?– di lì a poco mi avrebbe segnato per sempre.
Perché è nel 1995 che vidi per la prima volta “Eraserhead”. Nel frattempo mi ero evoluto. Ero diventato un cinefilo e fumettofilo in erba che amava Tarantino e Miller e credeva di sapere tutto della vita. Poi vidi quel tizio dai capelli altissimi e il vestito nero da impiegato che si aggirava con lo sguardo spento in un paesaggio post-industriale perennemente sonorizzato da rumori metallici di ingranaggi che girano, presse che pressano e meccanismi che meccanizzano fuoricampo, e me ne innamorai. Mi innamorai della solitudine e dell’indifferenza di quell’omino che si stagliava, a suo modo elegante, in quel nulla di detriti e sporcizia reso pittorico da un abbagliante bianco e nero così controtendenza e fuori moda da risultare ancor più originale in piena era di finta psichedelia pop addomesticata di MTV. Rimasi folgorato dalla cena in famiglia col pollo fritto che improvvisamente muove le alucce ed erutta sangue nel piatto dell’omino cappelluto mentre il padre della sua fidanzata lo fissa immobile col sorriso stampato sulla faccia. Del bebè freak ho già parlato, ma a quel punto ero già cotto. Finita la visione avevo già voglia di ritornare in quel mondo.
Avevo scoperto, come un padre pellegrino in viaggio verso ovest, nuovi territori fino ad allora sconosciuti, tutti da esplorare e conquistare, territori da cui attingere materie prime e viveri per costruire il mio futuro. Ero appena entrato, per la prima volta consapevolmente, nel regno lynchiano.
Dovevo vedere tutto. Dovevo recuperare qualunque lungo, corto, serie avesse realizzato fino a quel momento il mio nuovo regista preferito. Recuperai le due stagioni di Twin Peaks ma, lo ammetto, non mi fecero rimpiangere la perdita di allora. Trovai strepitose le (poche) puntate dirette e scritte da Lynch. Con occhi più allenati compresi meglio la forza dirompente di quel pilot, che stava soprattutto nella dilatazione dei tempi delle scene dedicate agli effetti immediati della morte di Laura Palmer, la biondina bellina e perfettina che tutti adoravano: il pianto straziante della madre sembrava non finire più, il timing andava ben oltre la normale durata di una scena standard di un telefilm dell’epoca, già bello lento di suo. Ma era una lentezza calcolata, millimetrica: lo spettatore non solo doveva sentire tutto il dolore di un genitore a cui uno sconosciuto aveva strappato parte della sua vita, ma doveva anche sentirsi profondamente a disagio. Perché la morte altrui mette a disagio. Superato il compatimento per la perdita di una persona che non consociamo se non superficialmente (e di Laura fino a quel momento abbiamo visto solo il faccione grigio nella body bag) subentra un certo naturale menefreghismo. La vita continua o, in termini narrativi, la storia continua. E invece no, Lynch ti costringe a star lì, in quella casa, ad assistere al pianto straziante di una madre distrutta. Ma quando finisce? Non puoi saperlo, perché Lynch stava riscrivendo i canoni della narrazione seriale. Un vero autore decide il ritmo della propria storia, mica tu spettatore.
Mi piacque parecchio il finale di entrambe le stagioni, ma nell’insieme quella serie non mi convinse fino in fondo. Forse perché a metà anni ’90 la mia serie tv di culto era The Kingdome di Lars Von Triers, che provocava e rilanciava in stile, forma e contenuti proprio come l’illustre precedente lynchiano ma era molto più compatta e riuscita. Anche perché era davvero tutta farina del sacco di Lars. Ma non divaghiamo.
Ricordai che da piccolo rimasi turbato dalle immagini di un uomo incredibilmente deforme apparso per caso sullo schermo del mio televisore catodico durante uno svogliato zapping serale. Girai subito canale, per poi tornare sull’Uomo Deforme. Poi girai ancora. Poi ritornai sullo spaventoso, bellissimo, freak bitorzoluto. Poi spensi la tv. Non potevo saperlo, ma in quella scenetta non vista da anima viva io avevo appena incarnato il messaggio del secondo film di Lynch, quello struggente capolavoro intitolato “The Elephant Man”: ti spaventa l’orrore, ma vuoi comunque guardare. È quello che fanno tutti i personaggi del film, come avrei scoperto molto più avanti.
E così lo recuperai, superai le mie paure infantili, lo guardai tutto, e alla fine giurai di non rivederlo mai più (l’ho giurato anche le due volte successive). Troppo potente, troppo provante. La storia ispirata a John Merrick, un uomo realmente esistito nella Londra vittoriana affetto da una gravissima forma di elefantiasi, vissuto per anni nella gabbia di un circo come fenomeno da baraccone, strappato al suo padrone/schiavista per qualche sterlina da un medico altolocato, il quale, con la nobile scusa di esaminarlo e curarlo, lo esibisce con orgoglio ai suoi colleghi nell’aula magna del suo ospedale trascinandolo di fatto in un altro freakshow, solo più accettato, lindo e colto rispetto al precedente. Merrick troverà da solo il proprio posto nel mondo. Ah, se lo troverà. E io, di fronte al mio rifiuto categorico di rivedere la pellicola una volta giunta la parola fine, aggiornai il messaggio lynchiano: dici di accettare la diversità, ma la rifiuti quando ti è sbattuta in faccia.
Scoprii anche che il film dell’Uomo Elefante fu prodotto da quel burlone di Mel Brooks, colpito dalla visione di “Eraserhead” proprio come me, grazie al quale Lynch poté lavorare con attori del calibro di Anthony Hopkins e John Hurt. La strada al successo mondiale fu spianata precisamente da quella pellicola. Che è come dire che senza il papà di Frankenstein jr. il mondo non avrebbe mai visto “Velluto Blu”. E sarebbe stata una vera tragedia.
Il percorso produttivo di Lynch negli anni ’80 è ostico e in salita, ma il suo percorso creativo è invece tutto in discesa. Uno dei (tanti) motivi per cui Lynch è diventato uno dei miei eroi personali non ha a che fare direttamente con la sua arte ma con la sua sicurezza nella propria creatività.
Il successo di “The Elephant Man” (1980) destò l’attenzione di Dino De Laurentiis che mise sotto contratto Lynch per tre film. Il primo di questi fu “Dune”. Che risultò un flop tremendo. In origine doveva essere una trilogia (da lì il contratto) ma Dino non volle, comprensibilmente, proseguire quell’avventura. E meno male… “Dune” è, di fatto, la pellicola meno lynchiana di tutta la filmografia del regista, la meno personale, la meno sentita. Molti adducono questo passo falso ai tagli imposti dalla produzione all’eccessiva durata del primo montato o al semplice fatto che la sceneggiatura non è originale, ma tratta del romanzo di Herbert. Com’è, come non è, sta di fatto che la delusione di quella che doveva diventare la sua gallina dalle uova d’oro spinse Dino, che non poteva ancora scindere il contratto, a “invitare” Lynch a farsi da parte offrendogli un budget ridottissimo per la realizzazione del film successivo e un compenso irrisorio per la regia. Talmente irrisorio che avrebbe convinto chiunque a lasciar perdere e trovarsi un altro lavoro. Ma non Lynch. Che accettò a una sola condizione: totale carta bianca su stile e contenuti. E fu così che nel 1986 vide la luce “Velluto Blu”, per molti il suo capolavoro.
Ogni volta che rivedo questa malsana storia di voyeurismo e perversione con un giovane agente Coo… volevo dire, Kyle MacLachlan, un’Isabella Rossellini spiazzante nella sua bellezza da femme fatale e l’aria da vittima indifesa e un Dennis Hopper mai così disturbante e grottesco, con la sua maschera dell’ossigeno (gas?) e lo sguardo che ti scava dentro, penso al vero significato di “libertà creativa” e a come quest’uomo la ottenne: pensando solo a scrivere e dirigere il film che aveva in mente, come l’aveva in mente, fregandosene di cose come carriera, soldi, successo.
MacLachlan in “Velluto Blu” assiste, nascosto dentro un armadio, al perverso, sadomasochistico, rapporto tra la Rossellini e Hopper. Da lì in poi si addentrerà sempre di più nel regno tenebroso e sotterraneo della sua cittadina, perennemente celato dalla classica facciata esterna solare e gioiosa come uno spot dei cereali formato famiglia, per scoprire che, in fondo, anche lui è attratto dal Lato Oscuro. “Ti piace guardare?” gli dice Hopper a un certo punto. E in quel momento sta guardando dritto in camera. Sta guardando noi.
Non succede sempre, ma a volte badare esclusivamente al lato artistico della medaglia porta al vero successo di pubblico e critica, quello che non puoi prevedere, non puoi pianificare, non puoi costruire a tavolino.
Da “Velluto Blu” la carriera di Lynch decolla e assistiamo alla sua metamorfosi da regista di nicchia a regista premiato ai festival ad autore televisivo d’avanguardia a regista di successo a regista di culto ad artista immortale, che può permettersi un silenzio stampa di un decennio senza che la sua aura sia minimamente intaccata. Nel frattempo ha dipinto, e io mi sono pure beccato la sua personale qualche anno fa a Parigi, una mostra non solo delle sue eccentriche, gigantesche, tele di materiale misto ma anche di oggettistica varia, compresi i tovagliolini di carta da tavola calda coi suoi appunti. Puro feticismo.
“Velluto Blu” mette d’accordo tutti, e “Cuore Selvaggio” conferma il genio del regista con la Palma d’Oro a Cannes nel 1990. È il film che ha consegnato alla storia il miglior Nicholas Cage di sempre, ancora agli esordi ma già irresistibile nella sua espressione da folle (di cui abuserà un po’ troppo negli anni a venire). Una distorta fiaba on the road con una coppia alla sbando, lui nella sua giacca di pelle di serpente e le movenze da Elvis sotto amfetamina, e lei, Laura Dern, la musa lynchiana per eccellenza, una bionda dal fascino ambiguo, ribelle senza causa. Due perdenti in fuga verso un mondo che non c’è, inseguendo un happy end impossibile ma illudendosi comunque di averlo raggiunto anche nella sconfitta.
“Fuoco cammina con me” (1992) l’ho visto prima del recupero twinpeaksiano, avevo nella testa le immagini del pilot e poco altro, e quindi non sapevo chi minchia avesse ucciso Laura Palmer. È stato bellissimo scoprirlo con questo prequel, criticatissimo, fischiato a Cannes e poco amato dai fan della serie. Basta un Bob a rendere memorabile la visione? Sì.
“Strade perdute” (1997) l’ho visto all’uscita. Ormai ero dentro il mondo di David. E non volevo più uscirne. Questa è la storia che in assoluto mette più alla prova le mie certezze nella scrittura ma anche quella in cui mi piace di più perdermi, senza pormi domande, senza darmi risposte, lasciandomi semplicemente trascinare dal flusso del racconto senza sapere mai veramente dove andrò a finire. È buffo, ma tutto ciò rappresenta proprio quello contro cui più mi batto, ossia l’assenza di una linea narrativa chiara, di nessi logici tra una scena e l’altra e di interazioni credibili tra un personaggio e l’altro. Buffo e molto appagante.
Qui c’è una bella coppia che un bel giorno si ritrova una vhs anonima sulla soglia di casa, incuriositi la visionano e ci trovano delle riprese in esterni della loro bella villetta. Il che sarebbe già inquietante di suo, ma la cosa si ripete e la successiva vhs mostra riprese in interni della villetta della coppia. La quale si rivede a letto mentre dorme. Chi li ha filmati? Nessuna porta o finestra è stata forzata. Questo è surreale. E il tutto diventa grottesco quando l’ultima videocassetta la riceve Lui, assiste di nuovo alle riprese fino alla camera da letto e lì vede se stesso imbrattato di sangue accanto al corpo smembrato di Lei. La casa è sempre rimasta chiusa, Lui non ricorda nulla e si ritrova alla centrale di polizia.
Grottesco come il tizio dal pallore cadaverico incontrato precedentemente da Lui a una festa, che gli dice che in quel momento si trova a casa sua; Lui pensa a uno scherzo poco comprensibile, allora il tizio pallido gli porge un telefono e lo invita a chiamare, appunto, casa sua; Lui sta al gioco, chiama casa propria e alla cornetta sente la voce del pallido omino che gli risponde “Visto che sono a casa tua?”, mentre lì, alla festa, entrambi sono ancora faccia a faccia.
E non c’è nulla di più lynchiano (grottesco + surreale + inquietante + criptico) del passaggio dalla prima alla seconda parte di questo film: Lui viene incarcerato per l’omicidio di sua moglie, passa la notte in una cella di isolamento e la mattina dopo i secondini, al posto suo, vi trovano un altro personaggio. Che risulta innocente. E, per quanto assurda sia la situazione, deve essere scarcerato. Da quel momento seguiamo la sua storia, i cui punti in comune con la precedente sono la magnetica presenza di Patricia Arquette, femme fatale in versione mora prima, bionda poi, l’Omino Pallido e un insostenibile senso di malessere e disagio che permea ogni singola inquadratura, che non deflagra mai completamente, ti lascia più domande che risposte e ti obbliga così a tornare a quelle immagini più e più volte dopo la visione. Tutt’ora io continuo a farlo. Se non è un maestro delle immagini chi riesce a far questo…
Ecco, trovo tutto ciò affascinante, come per un esploratore che si perde per la prima volta in una foresta incontaminata, senza bussola, senza mappe, e riscopre il gusto dell’esplorazione pura, senza aiuti esterni né guide né strumenti, il gusto di ritornare vergini, di ripartire da zero, di (re)imparare a camminare. Così mi riduce l’arte di David Lynch.
Nel ’99 nessuno mi vuole accompagnare a vedere “Una storia vera” perché, apparentemente, non è così lynchiano come dovrebbe. Un vecchietto senza più patente decide di attraversare gli States con l’unico mezzo che può guidare, un trattorino tosaerba, per andare a trovare il fratello che non vede da anni e ha avuto un infarto. Fottetevi tutti, ci vado da solo al cinema e mi godo la più bizzarra e commovente storia on the road (quante parole che raramente stanno nella stessa frase, eh?). L’Alvin Straight del titolo originale (quanto è bello “A Straight Story” col suo doppio significato?) divenne il mio vecchietto cinematografico preferito, superato soltanto qualche anno dopo dal Clint di Gran Torino.
“Mullholland Drive” esce nel 2001 ed ha rappresentato per il sottoscritto un ottimo inizio di nuovo millennio. Ricordo le cene nel mio vecchio appartamento milanese che dividevo con amici e colleghi ed era spesso ritrovo di altri amici e colleghi. Cene che, volenti o nolenti, si trasformavano inesorabilmente in accesi dibattiti sulla visione del film, che tutti avevamo indistintamente amato ma di cui tutti difendevano la propria personale e soggettiva interpretazione. La cosa veramente meravigliosa era che avevamo ragione tutti e ognuno di noi si stupiva dell’interpretazione dell’altro, spesso diversissima. I dibattiti più inutili del mondo, da cui nessuno usciva vincitore e generavano più domande che risposte. Così fino a notte fonda, più e più volte nei mesi successivi all’uscita del film. Se si considera che il progetto “Mullholland Drive” doveva essere in origine una serie tv, la nuova serie tv dalla mente del creatore di Twin Peaks, forse è stato un bene per me che Lynch non abbia trovato i fondi necessari per farla partire ma si sia “limitato” a un film di 2 ore e mezza. Le cene lynchiane avrebbero preso il sopravvento sulla mia vita privata.
Di “Inland Empire” (2006), che dovrebbe essere scritto tutto in maiuscolo ma poi sembrerebbe che voglia attribuirgli più importanza degli altri titoli, preferisco non parlare perché non l’ho apprezzato. Non come gli altri. Visto nell’unica sala milanese che lo proiettava per quello zoccolo duro di lynchiani irriducibili, non mi folgorò. Aspettative troppo alte, forse. La critica l’ha osannato, alcuni lo ritengono il vero, definitivo, capolavoro di David. No comment. Fu come andare all’appuntamento con una ex di cui conservavo un bellissimo ricordo, la miglior ex del mondo, avendo voglia di ricordare il passato insieme a lei e scoprire cosa ci avrebbe riservato il futuro. Ecco, diciamo che io avevo un po’ troppo idealizzato la mia ex, pretendevo di rivederla uguale ad allora ma allo stesso tempo nuova, diversa, e non rividi nulla di tutto ciò. Ma, nell’economia della mia esistenza, lei resta comunque la migliore ex del mondo.
E siamo ad oggi. Appena passati 10 anni da Inland e 25 dal fatidico “Ci rivediamo fra 25 anni” del finale di stagione di Twin Peaks 2. Ho sempre reputato il silencio (sì, silencio) cinematografico di Lynch come una lunghissima pausa riflessiva, un periodone sabbatico (interrotto solo dal documentario sui Duran Duran di tre anni fa, che no, non conta) in cui ha raccolto idee, immagini e forme in attesa del momento giusto per metterle in scena come solo lui da fare.
Beh, avevo ragione. Le prime due puntate della terza stagione di Twin Peaks sono lynchiane al 100%. Lynch ha diretto e co-sceneggiato col sodale Mark Frost tutti e 18 gli episodi. Nelle recenti interviste ha detto che si tratta più di un film di 18 ore che di una serie tv. Le mie primissime impressioni lo confermano. Sono ripiombato nel suo mondo. Ho finalmente rivisto la migliore ex del mondo e stavolta l’ho trovata bellissima come la ricordavo quindici anni fa e con un sacco di cose nuove e progetti futuri da raccontarmi. Sono tutto occhi e orecchi, cara mia.
Ho molta fiducia, sento che Cooper&co. (una valanga di co., a quanto pare) lasceranno, di nuovo, il segno. E tutta questa euforia, questa gioia di vivere, mi verrebbe da dire, evocata da un’opera di Lynch è davvero molto grottesca, surreale, inquietante e criptica.
Grottesca, Surreale, Inquietante, Criptica. Mi ricorda qualcosa. Alla faccia dei suoi detrattori, David Lynch è uno degli autori più ancorati alla Realtà. Accettarlo significa accettare un po’ di più il Nostro Mondo.
PS: ma io non so cosa darei per fare cambio subito ed entrare nel Club Silencio esibendo un orecchio tagliato come tessera soci, sfoggiando la mia giacca di pelle di serpente, simbolo della mia individualità e della mia fede nella libertà personale.
Durante gli ultimi anni di liceo – diciamo mentre nel mondo erano pubblicati Watchmen, Maus in volume ed il primo Dark Knight di Miller – ero pettinato quasi come il papà di Erasehead. Considerato il mio peso di allora – intorno ai sessanta chili – sembravo Stan Laurel in un quadro di Munch o ill David Haller /Legion di Bill Sienkiewicz, ma più inquietante. Ero lynchiano e non lo sapevo ancora anche perchè di Dune ricordavo solo che nel foyer avevo pestato il piede di clone di Tony Montana che non l’aveva presa benissimo. La sera dopo avevo visto Gremlins, credo nel cine di fianco. Se fosse stato girato dal ” James Stewart da Marte ” – come è noto tra amici e fans – i cosi pucciosi una volta bagnati avrebbero preso un trattore per attraversare il Paese ed arrivare in un posto dove si entra in prigione e dopo il crepuscolo si esce come roditori birichini.
Non riesco ad essere oggi troppo sereno in merito alla faccenda delle orecchie mozzate perchè penso a Serenade di James M. Cain ed all’orecchio di toro che la coprotagonista Juana porta sempre ovunque fino ad una
” corrida ” in una festa omosex che è il climax della storia. Chissà cosa farebbe Lynch di una cosa come Double Indennity. Probabilmente metterebbe le cose in modo che anche dopo la fine del film non sapremmo se davvero l’assicuratore ha stecchito il suo cliente per amore della dark lady.
Credo di aver passato parecchio tempo a meditare nella contraddizione che presenti con chiarezza tra la necessità di insegnare come raccontare secondo regole che hanno un senso e la urgenza di abbracciare un reale che può esssere rappresentato solo nel suo essere grottesco e splendido e splendidamente grottesco nel contempo come capita, almeno a me , di percepire nelle fantasie ipnagogiche in cui mi cullo anche quando cammino. Un tempo – e stupidamente direi – ero convinto che tutto quanto è raccontato “come si deve raccontare ” servisse a creare a creare e fortificare la persona che poi si sarebbe avventurata nell’universo lynciano. Oggi non so. Sono sicuro invece che periodicamente incappo in epifanie che mi interrogano – vere e proprie crisi – sul cosa e come raccontare e che ne esco- , dopo la mia più o meno lunga notte dell’Innominato – più vicino al mio Stewart marziano su di un aereo che fa rotta per destination unknown e mi sento sulla zucca un praticello nero e fitto anche ora che sembro lo zio Fenster alla convention dei sosia di Yellow Kid. Mai la fine.
E’ bellissimo questo approfondimento ma sappi che mettendo Inland Empire tra i bassi mi spezzasti il cuore!
Crepascolo, io durante i temporali mi trasformo letteralmente nella mente che cancella. I miei capelli reagiscono all’umidità in modo lynchiano.
Marco, non sei il primo a dirmelo. Visto un’unica volta al cinema, credo che debba a Lynch almeno una seconda visione del suo ultimo film. Con tutto quello che ha fatto per me…