the Sclavi identity
Oggi, 2016. Tutti condividono facce, lineamenti, smorfie, corpi, forme. On line e off line. Tutti devono far sapere al mondo che tipo di conformazione ha la propria testa e cosa contiene quella testa. A me non interessa.
Ieri, 1986. Avrei dato un braccio per un poster di Tiziano Sclavi, da incorniciare nella mia cameretta di fianco a quello di “Aces High” degli Iron Maiden e quello della Lamborghini Countach. Ne avevo un disperato bisogno. Volevo vedere che faccia aveva il mio idolo, colui che diede un senso alla parola “sceneggiatura” quando avevo 14 anni, l’uomo che giocava coi generi e le trame come un bambino prodigio gioca con le tabelline. Lo scrittore che, coi suoi romanzi e le sue sceneggiature, ha condizionato per sempre la mia vita trasformandomi in un assiduo lettore di fumetti, prima, e scrittore dei medesimi, poi.
Poi ho capito. Con gli anni ho capito. Sclavi non aveva bisogno di mostrarsi. Non aveva bisogno di dire al mondo “questo sono io, guardate che faccia ho, adoratemi”. Non aveva bisogno di spiegare chi era e cosa gli passava per la testa. Lo facevano le sue storie al posto suo.
Avevo trovato, chi si ricorda dove, era un quotidiano ma chissà quale, una fotina (formato tessera, per intenderci) di lui di 3/4 in B/N chiaramente paparazzato. Poteva essere stato “beccato” all’uscita di un bar o, più presumibilmente, di una libreria. Comunque aveva quell’aria lì. Non era in posa, insomma. La fotina completava un’intervista, che ho divorato parola dopo parola, spacciata come la prima e unica mai rilasciata dal papà di Dylan. Erano i primi anni ’90, non ricordo l’anno preciso, e poteva anche essere vero, perché davvero il papà di Dylan non si faceva vedere né intervistare in alcun modo…
Ricordo come fosse ieri quando mi sono recato al mio primo Dylan Dog Horror Fest, all’allora Palatrussardi di Milano, 1992. Si entrava semplicemente esibendo l’albo dylaniano di quel mese e ti beccavi anteprime mondiali horror (memorabile Hellraiser 3 con gli effetti digitali dell’epoca ancora da postprodurre e quindi in uno stitico bianco&nero), ospiti internazionali (Bruce Cambpell in giacca nera e camicia rossa era tantissima roba, direbbero ora) e autori Bonelli sulla cresta dell’onda (ah, il giovane Casertano messo al tecnigrafo sul palco che scherzava con la telecamera facendo le ombre cinesi al posto di disegnare).
Io, che da provinciale non ancora patentato mi facevo tutti i viaggi in treno e metrò per il Palatrussardi, aspettavo solo di vedere apparire sul palco il mio Tiziano accolto da una standing ovation generale, lacrime di commozione e fuochi d’artificio. Ero lì per quello!
E infatti, appena entrato nel palazzetto il primo giorno e udito il vocione baritonale registrato che annunciava in filodiffusione l’inizio del Fest, appare sul palco un tizio figo, capelli corvini, look elegantemente casual, e tutti applaudono.
Wow… Tiziano Sclavi… Finalmente! Non credevo ai miei occhi. Poi Egli inizia a elencare il programma del giorno, presentando i film e gli ospiti che si sarebbero succeduti uno dopo l’altro per la nostra gioia. Lì comincio ad avere dei dubbi sull’identità del tizio sul palco. Ma subito dopo decido che no, è lui, è normale che Sclavi presenti in prima persona il suo festival, perché lui è il numero 1!
Ebbene, mi sono fatto tutto l’Horror Fest del ’92 abbastanza convinto che Stefano Marzorati fosse Tiziano Sclavi. Marzorati, l’allora direttore artistico del Dylan Dog Horror Fest e responsabile dell’ufficio stampa Bonelli. Stefano, che anni e anni dopo ho avuto il piacere di conoscere e raccontargli del mio buffo misunderstanding. Stefano, che mentre lo guardavo al nostro primo incontro il mio inconscio continuava ad associare al nome di Sclavi perché, si sa, quando uno è cocciuto è cocciuto.
Comunque sia, la fotina trovata sul quotidiano X in un anno imprecisato dei primi ‘90 mi aveva poi convinto della vera identità fisica di Sclavi. Quella fotina l’ho custodita nel mio portafoglio per tanto tempo (insieme alla faccina di Stewart Copeland, ma questa è tutta un’altra storia). Come un santino, un mio personalissimo padre pio che invece di farsi venire le stigmate sui polsi scriveva delle storie che non avevo mai letto e come non avevo mai letto.
Si dice spesso che uno scrittore scrive sempre di sé, delle sue ansie, paure, speranze, che fa parlare e pensare i suoi personaggi come parlerebbe e penserebbe lui. È abbastanza vero, ma a mio modesto parere di lettore, prima che di scrittore, un grande narratore è quello che sa abilmente nascondere tutto ciò, che non si mette in prima persona sempre e ovunque nelle sue storie. Un narratore di razza scrive delle storie, non delle autobiografie.
Ora, è innegabile che le storie di Sclavi, sia quelle di Dylan che quelle dei suoi romanzi e racconti, siano sempre state autoreferenziali. Impossibile non ritrovare almeno 3 personalità di Tiziano nei 3 protagonisti di “Non è successo niente”, per me il suo miglior romanzo.
Impossibile non riconoscere la solitudine dell’autore in quel capolavoro unanimemente riconosciuto che è “Memorie dall’invisibile”, in cui l’archetipo dell’Uomo Invisibile diventa metafora dell’indifferenza, perché tu sei invisibile quando gli altri non sanno che esisti.
Ma questo l’abbiamo saputo a posteriori. Quando uscivano quelle storie nessuno sapeva nulla di Sclavi, che faccia avesse, che vita avesse, che cosa pensasse. In quella misera intervista del quotidiano X non si era aperto più di tanto e da allora non è cambiato. Se sommiamo i minuti in cui ha effettivamente parlato Tiziano nel recente documentario “Nessuno siamo perfetti” (che ovviamente ho accolto con lo stesso entusiasmo con cui accolsi la fotina nel mio portafoglio) credo che non arriviamo a trenta su quell’ora e un quarto di montato. Sclavi è e resta un tizio schivo, lontano dai riflettori, lontano da tutto e da tutti.
Ci sono arrivato dopo anni, ma io ringrazio Sclavi per il suo anonimato. Ringrazio il suo restare sempre e comunque dietro le quinte. Ringrazio i suoi silenzi stampa. Perché nonostante negli anni ‘90 sbavassi per una sua autobiografia ufficiale con book fotografico annesso, sono felice che lui mi abbia parlato di sé solo e soltanto attraverso le sue storie, creando un legame quasi telepatico, un patto narrativo fortissimo, fomentato proprio dalla sua totale assenza fisica.
In fondo, non mi è mai interessato sapere chi fosse la moglie di Kubrick o quando ha perso la verginità Garth Ennis.
Perché per quanto a volte il nostro fanatismo da nerd desideri un action figure di Stephen King mentre viene investito dal Dodge blu, i veri autori non parlano di sé, fanno parlare le loro opere.
PS: la foto potrebbe essere questa (più la guardo, più ne sono convinto):
Secondo il web è apparsa su “Il Mattino” in data 1999, ma la ricordo molto precedente, tipo ’93-‘94.
Va beh, ora stampo e ritaglio.