Kirkman, il reietto: di zombie, esorcismi e quant’altro

Ed eccomi qua, con la prontezza che mi contraddistingue, a parlare, tra le altre cose, di Outcast, l’ultima fatica fumettistica e televisiva di quel ragazzotto americano che ha cambiato per sempre la percezione dell’horror nel mondo, ovvero Robert Kirkman.

Lo so, ne hanno già parlato tutti, della serie a fumetti e di quella televisiva, ma io sono lento a digerire e rielaborare le cose. Sono un ruminante dell’intrattenimento. Che poi ho letto giusto i primi due volumi Saldapress di Outcast, che racchiudono i primi 12 albi americani, e visto le prime tre puntate dell’omonima serie tv. Ma mi basta. Mi basta per capire due cose fondamentali:

1- i best-seller non si pianificano, capitano.

2- Fumetto e TV sono due media irrimediabilmente diversi.

La prendo alla larghissima.

Non credo che il giovane Rob quando iniziò a scrivere il suo The Walking Dead nel lontano 2003 sapesse che di lì a pochi anni la sua putrefatta creatura sarebbe diventata un successo mondiale con tanto di serie tv da record. Me lo vedo che butta giù l’idea di una mini serie di nicchia, perché di nicchia era il genere zombie in quel periodo, per il puro godimento personale, per scrivere qualcosa di autenticamente suo, qualcosa in cui sguazzare allegramente senza pensare troppo al futuro.

Praticamente un survival horror con pochissimi punti in comune con l’unico termine di paragone di allora, ossia il fortunatissimo Resident Evil della Capcom, la più famosa saga videoludica a tema zombie che giusto l’anno prima aveva goduto anche del successo cinematografico dell’adattamento di Paul W.S. Anderson (a cui faranno seguito svariati capitoli), ma tanti punti in comune col Maestro George A. Romero, l’inventore dello zombie moderno.

Gli zombie di Resident Evil corrono, urlano, sparano, si trasformano in mostri giganteschi… sono creature ottenute in laboratorio, macchine da guerra frutto di esperimenti chimico/genetici, con tanto di corporazione malvagia alle loro spalle che trama per conquistare il mondo. È più sci-fi/action che horror. Perfetto come intrattenimento videoludico. Pessimo come intrattenimento narrativo.

Gli zombie di Romero camminano a stento, gorgogliano, si putrefanno e hanno un unico e solo istinto che li guida: divorare i vivi. Non perché ne abbiano bisogno, non devono nutrirsi (come dimostra il simpatico scienziato de “Il giorno degli zombi” – Romero ‘85 – avvicinando una mano alla bocca famelica di uno zombie incatenato a un lettino a cui ha appena asportato l’apparato digerente ma che tenta lo stesso di addentarlo). È solo cieco e immotivato istinto, metafora di un consumismo inesorabile che trae linfa vitale unicamente da se stesso, un consumismo che divora tutto perché c’è tutto da divorare.

E quel geniaccio di Romero ce lo mostra nella maniera più sfacciata e imbarazzante nel suo secondo capitolo zombesco, quello “Zombi” del 1978 ambientato in buona parte dentro un mega centro commerciale assediato da orde di morti viventi che ciondolano senza meta da un reparto all’altro (più sfacciato di così) mentre un gruppo di vivi cerca di sopravvivere all’interno, fracassando di tanto in tanto crani di zombie  e godendo dell’infinità di prodotti che il gigantesco e abbandonato tempio del 3X2 offre (più imbarazzante di così… sfido chiunque a non aver desiderato almeno una volta nella vita di ritrovarsi in quella situazione!)

Mezzo secolo fa Romero, partendo dal mito dello zombie della cultura voodoo haitiana, inventa il concetto di Morto Vivente, ossia un morto che torna in vita semplicemente perché è… morto.

Lo zombie haitiano è un morto controllato da uno stregone che l’ha rianimato col preciso scopo di trasformarlo in suo schiavo per le faccende più disparate (uccidimi quello là, spaventami quest’altro, vammi a prendere il latte, eccetera). Che è praticamente lo stesso tipo di zombie di Resident Evil, cambia solo il modus creandi.

Lo zombie romeriano invece non è stato creato da nessuno, semplicemente esiste, dal momento stesso che esiste la morte. E qui sta la novità assoluta, il colpo di genio che cambia per sempre l’horror nell’anno domini 1968, quando esce il primo film del maestro “La notte dei morti viventi”: TUTTI siamo zombie perché lo diventeremo una volta morti. È un “contagio” che tocca tutti, nessuno escluso (nemmeno la bimba che nell’esordio romeriano aggredisce la madre attonita con una cazzuola, madre che si lascia massacrare perché come fai a uccidere tua figlia? Una delle scene più sconvolgenti del cinema horror tout court).

Il Mostro non è più l’Altro, non si nasconde più in un castello della Transilvania o nella brughiera gallese. Il Mostro sei Tu, il Tuo Vicino di Casa, Tua Moglie e Tuo Figlio.

Non c’è una cura, dal momento che non c’è una causa. La Morte fa semplicemente parte del naturale scorrere degli eventi. Ed è proprio su questa impossibilità di comprendere e sconfiggere il Male che si fonda tutto l’Horror Moderno. E il papà di tutto ciò è l’ormai 76enne registra newyorkese.

Ma nel 2003 nessuno si ricorda più di lui. Il 1985 è lontano, “Monkey Shines” e “La metà oscura” se li filano in pochi fedeli fan (io tra questi, ça va sans dire) e il 2005 deve ancora arrivare (per quanto il ritorno del Maestro agli zombie con “La terra dei morti viventi” non sia riuscitissimo… meno male che recupererà alla grande con “Diary of the Dead” due anni dopo, a dimostrazione che il cinema indipendente batte il cinema mainstream 1-0).

Nel 2003 nessuno si ricorda più di Lui, tranne un giovane sceneggiatore di fumetti del Kentucky, che sta lavorando contemporaneamente a una sua personalissima serie supereroica (il divertente e originale “Invincible”) e a The Walking Dead, per l’appunto. E su quest’ultima serie opta per lo zombie romeriano anziché haitiano. Scelta ovvia, da grande fan del regista e di tutto l’horror che le sue pellicole hanno ispirato e generato negli anni.

Kirkman opta per Romero perché a lui, sostanzialmente, importano più i personaggi che ha creato e le relazioni tra i medesimi, piuttosto che gli zombie in sé. Esattamente come nei film di Romero, gli eroi per caso di Kirkman si ritrovano in situazioni di estremo pericolo, vita o morte, e devono cavarsela da soli, senza una preparazione e/o un armamentario adeguati, spesso senza nemmeno sapere precisamente con chi/cosa hanno a che fare. I Morti Camminanti per Kirkman, come per Romero, non sono personaggi, sono IL contesto dentro il quale i personaggi si muovono. Sono la metafora della fine del mondo, una fine lenta e inesorabile, che non puoi fermare semplicemente perché non sai come e da dove è iniziata, puoi solo arrenderti o cercare di sopravvivere.

Gli antagonisti, nel senso narrativo del termine, in The Walking Dead non sono gli zombie ma gli umani. Umani degradati a bestie senza scrupoli, cannibali, dittatori sanguinari, veri e propri mostri che hanno trovato nell’apocalisse zombesca il loro habitat naturale.

Ma queste cose le sanno anche i sassi.

Quello che mi affascina di Kirkman e del fenomeno di The Walking Dead è la totale mancanza di pianificazione del progetto e del suo conseguente successo. Perché, scusate se insisto, nel 2003 nessuno si cagava gli zombie, quelli fighi, e nessuno avrebbe mai scommesso su un fumetto americano in B/N senza esplosioni o tizi che volano.

Kirkman stesso aveva in mente una miniserie, niente di così potenzialmente infinito com’è poi diventato il suo must, come dichiarava nelle prime interviste dopo il successo planetario o come dimostra, per esempio, l’affair “Rick vs. Shane” che è il fulcro del primo ciclo di albi a fumetti (6 episodi) e che si conclude quindi abbastanza velocemente su carta, mentre domina le prime due stagioni nell’adattamento televisivo, e parliamo di 19 puntate (non entro nei dettagli non tanto per evitare spoiler ma perché tutti sanno cos’ha fatto Shane a Rick, suvvia). L’antagonismo tra i due è stato effettivamente terreno fertile per la serie tv, è giusto che l’abbiano portato al limite, mentre nel fumetto Kirkman l’ha chiuso relativamente in fretta perché voleva proseguire la sua piccola serie con altri conflitti e altri personaggi. Non pensava che presto avrebbe avuto tutto il tempo e le pagine che si possano immaginare per sviluppare tutte le sue idee.

Ma, quindi, come ha fatto un fumetto di nicchia sugli zombie a diventare un successo planetario? Kirkman è un grande sceneggiatore, i suoi personaggi sono perfetti, sono vivi sia in senso letterale che narrativo, le loro vicende appassionano, avvincono, emozionano. Walking Dead, sia fumetto che serie tv, è la mia soap-opera preferita. Ma non basta… Quanti sceneggiatori scrivono bene, quando storie vengono raccontate bene?

Io non lo so com’è successo. Non lo so come la AMC, una major della tv via cavo statunitense, abbia accettato e deciso di produrre una roba coi morti che si trascinano a terra con le budella di fuori e gente che spara a una bambina.

Non lo so com’è successo che queste cose ora siano viste da una maggioranza di spettatori e non da una minoranza. Non lo so come hanno fatto gli zombie romeriani a prendersi la loro rivincita sul mondo. Probabilmente non lo sa nemmeno Kirkman, ma è successo. Se fossi il Comico di Watchmen esclamerei: il sogno americano si è avverato!

E questo è il mio personalissimo punto 1: i best-seller non si pianificano, capitano.

Ora, non sono un addetto ai lavori, ma credo che quando la Fox abbia dato l’ok alla versione televisiva di Outcast abbia pensato di giocare facile: è dell’autore di The Walking Dead, cosa mai potrà andare male?

Bé, tanto per cominciare Outcast NON è TWD. Kirkman ha sempre dichiarato che con Outcast ha voluto affrontare di petto uno dei temi horror più classici, demoni&esorcismo, per realizzare qualcosa che facesse realmente paura. E ce l’ha fatta, lui. Il fumetto funziona, fa paura.

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Walking Dead ha il respiro della saga corale, ormai più vicina all’avventura che all’horror puro, mentre Outcast è una “storia piccola”, con un protagonista assoluto, Kyle Barnes (il reietto del sottotitolo italiano), e un ottimo co-protagonista, il poco tradizionale reverendo Anderson. La vicenda è circoscritta (per ora) alla cittadina fittizia di Rome, West Virginia, e il tema “esorcismo” è ben gestito e sviluppato col giusto crescendo e di situazioni e di informazioni. Semplificando (ma non troppo): Kyle è un esorcista fuoriclasse che non sa/non vuole esserlo, mentre l’amico reverendo è solo un dilettante e vuole diventare il suo coach.

Ma, punto 2, fumetto e tv sono due media irrimediabilmente diversi.

La coralità che è il punto di forza del Walking Dead televisivo, la cosa che ti aggancia e ti fa sbranare ogni episodio per seguire i tuoi personaggi preferiti, in Outcast non c’è e, per quanto bravo (…) possa essere l’attore che incarna Kyle e la regia possa essere relativamente al passo coi tempi dell’horror cinematografico (ma neanche tanto… la broda nera digitale che esce dagli indemoniati nun se po’ vedé), l’Outcast televisivo non funziona bene.

Non fa schifo, ho visto di peggio. Gli manca giusto quella grinta che Kirkman sa mettere nei suoi fumetti e un certo tipo di ritmo che solo in certi fumetti si può ottenere. Un esempio su tutti è dato dai continui flashback del protagonista che gli fanno rivivere il conflitto (umano e non) con sua madre, che è il fulcro del suo trauma e l’origine dell’apatia in cui si trova ora: nel fumetto sono risolti in una tavola al massimo, a volte in poche vignette, mentre nella serie tv occupano intere scene che, alla lunga, risultano davvero troppo ripetitive col risultato di non essere più né interessanti né spaventose. Un bel problema in una serie horror…

Kirkman poi, assieme al valido disegnatore Azaceta, trova soluzioni davvero intriganti per gestire il ritmo delle sequenze all’interno delle tavole, ossia delle semplici ma efficacissime vignettine inserite nelle o tra le vignette grandi (insert panel, per fare i saccentoni) che rendono molto bene i campi e controcampi o le pause in un dialogo, per esempio:

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Efficacissime perché non rallentano la narrazione né appesantiscono il disegno. E visto che il fumetto è un linguaggio che unisce l’arte dello scrivere con quella del disegnare, quando queste due convivono allegramente senza pestarsi i piedi l’un l’altra abbiamo un bel fumetto da leggere E guardare.

Si può fare ‘sta roba con una telecamera? No. E non tiratemi in ballo l’Hulk di Ang Lee con le sue finestre video del cacchio (ci sarà un modo per definirle, ma non lo voglio sapere) perché la Storia ha dimostrato che scimmiottare il linguaggio dei fumetti al cinema non paga mai.

Mi viene da dire che Outcast è più fumetto di The Walking Dead, nel senso che sfrutta un po’ di più le qualità/possibilità di questo mezzo espressivo. Se TWD è pura narrazione di razza, perché davvero ha il respiro di una saga letteraria di quelle appassionanti, Outcast frena un po’ l’acceleratore della Storia per ingranare la marcia ridotta dell’Atmosfera. Che, come tutte le ridotte, è lenta ma efficace, ti porta fino in cima alla vetta, con calma e affidabilità.

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E per questo, a mio umilissimo parere, la sua versione tv non funziona. Outcast, insomma, va goduto cartaceo, non cinematico.

Ultima ma non ultima considerazione, la più personale: Kirkman è il reietto. Come Kyle Barnes ha un potere più grande di lui, è in grado di cacciare demoni potentissimi (cioè creare la saga di zombie più famosa del mondo) ma allo stesso tempo non lo ammette o non vuole continuare a usare questo potere, preferendo chiudersi in casa a fare altro. Ma c’è un reverendo (produttore tv) che insiste affinché esca di casa e torni a usare il suo incredibile potere (cioè realizzare un altro TWD).

Ma Kirkman, come Kyle, non risponde: Certo! Sono nato per questo!

Kirkman risponde: Forse…

PS: a conferma di come i tempi siano cambiati per noi nostalgici romeriani, mi va di citare il caso di un mio allievo che, come tesi di laurea di un’accademia d’arte, porterà un trattato sui nostri cari morti viventi e la loro evoluzione nel cinema e nel fumetto. La cosa mi commuove e riempie di orgoglio.

Non so sinceramente come far comprendere la portata di tale evento a chi non è sensibile all’argomento… è come se io (che forse si è capito ho un debole per l’horror di un certo calibro) avessi viaggiato indietro nel tempo di 30 anni e, ovviamente, avessi toccato qualcosa, parlato con qualcuno, insomma fatto cose che avrebbero avuto ripercussioni sul corso della Storia e, tornato al presente, mi fossi accorto che effettivamente il mio agire impudente ha generato piccoli, ma rilevanti, cambiamenti nel mondo, come la presenza di auto a idrogeno per le strade, la scomparsa dei Pokemon e l’introduzione di “Necrantropologia” come materia obbligatoria nelle facoltà umanistiche.