Dailan Dog
Sarà l’effetto del trentennale. Sarà che fuori piove. Com’è, come non è, eccovi un’ampia e personalissima esegesi del numero 19 di Dylan Dog, uscito in un uggioso giorno d’aprile nelle edicole italiche nell’anno di grazia 1988.
So che sono solo l’ultimo di una lunghissima tradizione di lettori, critici, autori, blogger, simpatizzanti, amanti, fan, che da quel giorno in poi hanno scritto di tutto su quello che è ritenuto uno dei migliori albi di Dyd di sempre, una delle migliori storie mai scritte da suo padre, uno dei migliori fumetti italiani tout court. E, aggiungo, il più felice connubio Sclavi/Casertano. Tanto che non devo nemmeno menzionare il titolo.
Ma la scrivo comunque. L’esegesi e pure il titolo. Perché “Memorie dall’invisibile” mi ha folgorato come poche altre cose al mondo.
Ora, inutile qualunque spoiler alert dal momento che 1) chi sta leggendo queste righe ha già letto quella storia, e 2) oh, siamo su LoSpazioBianco, non avete letto “Memorie dall’invisibile”? Siete pazzi?
Cominciamo dal NUMERO DELL’ALBO.
Numero 19. Significa un anno e mezzo di pubblicazioni mensili. Significa 19 sceneggiature da 94 pagine quasi tutte scritte dal creatore della testata (Memorie è la 17sima, per la precisione). Significa una discreta quantità di storie che hanno già delineato lo stile e i contenuti della serie e presentato degnamente il suo protagonista. Che, in quel momento storico, NON è ancora diventato quell’icona nazionale, fumetto di culto, fenomeno transmediatico che sarà di lì a poco.
Non lo conoscono ancora in tanti, l’indagatore dell’incubo, ma a Sclavi non importa granché e decide di giocherellare fin da subito coi suoi cliché, con quegli elementi estetico/caratteriali che lo definiscono come “personaggio a fumetti”. E succede davvero presto perché, editorialmente parlando, per una serie da edicola mensile 19 numeri non sono che l’inizio.
Così Dylan diventa Dailan nella pronuncia di Bree Daniels, la sua nuova eccentrica cliente, una prostituta con un certo stile che chiama così anche Bob Dailan (curiosità: più o meno coevo è stato anche il quesito/tormentone della Acme “Càttivik, Cattìvik o Cattivìk?”). Era la prima volta che veniva sottolineata/derisa la pronuncia del suo nome. Avevo più di un amico che chiedeva all’edicolante “Dailan Dog” invece di “Dilan Dog”. Era un fatto.
Dylan ha freddo, quando una prematura nevicata autunnale coglie di sorpresa lui e la sua giacchetta nera e, un po’ meno, l’ispettore Bloch infilato nel suo trench per tutte le stagioni. Ed è proprio quando Bloch gli chiede “Ma non ce li hai i soldi per comprarti un cappotto?” che scatta il primo “il re è nudo” di tutta la serie. “Rovinerebbe il mio look” risponde Dyd. Che è come se nel numero 20 di Superman, Perry White vedendo Clark Kent entrare in redazione una mattina gli dicesse “Ma tu sei Superman con gli occhiali!”. E Clark “Sì, ma non dirlo a nessuno”.
Altro topos infranto: Groucho per la prima volta è serio. Groucho affronta un dialogo privo di battute umoristiche nella terza parte della storia, un botta e risposta molto conciso che, in realtà, ne infrange ben due di topi in un colpo solo:
Dylan: Io mi sposo, Groucho…
Groucho: Con chi?
Dylan: Bree Daniels.
Groucho: Mmm. Lei lo sa?
Dylan: No.
Notate l’uso delle pause, davvero rare in un fumetto popolare, ottenute con vignette mute e stacchi sugli altri personaggi, che danno quella sensazione di sospensione della storia, come se tutto si fermasse per pochi attimi, il tempo di far “sentire” meglio l’essenziale dialogo:
Bree Daniels. O Untassì, come la chiama Groucho. Ma su di lei tornerò alla fine.
Ora parliamo dell’INCIPIT.
Esteticamente la storia parte nel più classico e bonelliano dei modi, con la vignetta quadrupla, completa di titolo e autori, che presenta ambiente e atmosfera, e le due successive che stringono sul mostro di turno. Perché anche narrativamente questo prologo è il più corretto per un thriller, con la canonica presentazione dell’assassino e del suo modus operandi, ma con la sua identità ben celata.
E visto che sono in vena, leggetevi la spassosissima descrizione sclaviana di questa prima pagina di sceneggiatura:
Tutto in questa tavola pare far rima con “convenzionale”, ma basta leggere i testi per essere totalmente spiazzati (leggeteli, dai). Fate un esperimento: copiate il lettering di quelle due didascalie (che sono pure scontornate e in minuscolo, alla faccia del convenzionale) e incollatelo su due vignette di Rat-Man. Pare scritto da Ortolani, o no? Funziona, come testo comico. Fate lo stesso esperimento con la successiva tavola se non siete ancora convinti:
Ma quel testo abbinato a quelle immagini, a quei disegni, a quello stile che ha reso unico Casertano, sortisce un effetto angosciante, quasi fastidioso tanto è forte il contrasto con la scena preparatoria dell’imminente, sanguinario, omicidio. Il taglio delle inquadrature, le luci, la regia, tutto è fortemente drammatico in questa prima scena. Viene da dire cinematografico.
Con la differenza che, in un film, se udissimo l’audio di quel testo abbinato a quelle inquadrature probabilmente penseremmo di trovarci di fronte a una parodia. Forse solo Al Pacino in pienissima forma riuscirebbe a infondere quel mix di cinismo, sarcasmo e profonda tristezza che i pensieri del nostro Uomo Invisibile trasmettono su carta. Perché il tono, la voce, il sonoro in un fumetto viene dalla tua testa, che è il luogo più intimo che esista. E Sclavi questo lo sa bene. Sclavi conosce perfettamente il linguaggio del Fumetto.
La CITAZIONE.
Lo sanno anche i sassi che nella prima vignetta di pagina 35 viene citato il quadro più citato al mondo dopo La Gioconda e L’Urlo. Ma qui il Nostro non si ferma alla forma, non si limita a dire a Casertano “vign.1: ricopia paro paro il quadro di Hopper con più nero”. Il Nostro ci fa entrare nel quadro costruendo un’intera scena, tutt’altro che gratuita nell’economia di un giallo (ossia una falsa pista: la presentazione di un’assassina che però non è il colpevole che Scotland Yard e Dyd cercano), trasformando quel quadro in qualcosa di vivo e credibile, perfettamente coerente con la solitudine dei personaggi che lo abitano. È una citazione più narrativa che estetica.
La TRAMA.
O meglio le trame. In ogni storia lunga (e con lunga, in un fumetto, s’intendono dalle 40 tavole in su) quasi sempre è necessario aggiungere un sub-plot al plot, una sottotrama che rimpolpi la trama principale approfondendola o contrastandola, o anche semplicemente dando il ritmo giusto grazie a un buon montaggio incrociato.
Gli sceneggiatori spesso si limitano a quest’ultima, dignitosissima, scelta optando per sub-plot magari non brillanti nel contenuto ma utili a rendere scorrevole e intrigante la lettura. I Grandi Sceneggiatori, invece, sfruttano il sub-plot per veicolare il Messaggio della loro storia, la Morale che tutti pretendiamo alla fine di ogni lettura o visione, ma che noi duri non ammetteremo mai di desiderare, nemmeno sotto tortura.
Con noi duri funziona così: il Grande Sceneggiatore ti sfama con una trama solida, ricca di colpi di scena, sangue&sparatorie e dal finale pienamente soddisfacente, ma solo per distrarti un attimo dal Significato Della Storia che infilerà alla fine del sub-plot. Fregato. E il Grande Sceneggiatore se la ghigna sussurrandoti all’orecchio: “Mentre tu guardavi i cadaveri sgozzati, io ti ho detto che al mondo siamo tutti soli!”
Il PLOT di “Memorie” è relativamente semplice MA gravido di VERI colpi di scena: un serial killer uccide prostitute, una di loro ingaggia Dailan per fermarlo, MA l’assassino si consegna spontaneamente alla giustizia prima di essere beccato; MA gli omicidi riprendono perché c’è un emulo del killer e alla fine Dyd uccide l’assassino; MA non era lui l’emulo.
Faccio notare come in questa pur stringatissima sinossi convivano allegramente due idee tanto forti che potevano bastare per due storie distinte: l’assassino che non viene preso ma si consegna (vedi “Seven”, sette anni dopo) e il serial killer che imita un serial killer (“Copycat”, sempre del ’95, e svariati altri film e serie tv a venire). Sclavi crede nel 2X1.
E infatti ce ne rifila due di SUB-PLOT:
Sub-plot 1: l’uomo invisibile (che è il “fratello unico” del testo dell’incipit) si innamora di una prostituta perché è l’unica ad accorgersi di lui, MA il killer la uccide; lui giura vendetta, cerca il killer che però nel frattempo si è costituito; MA poi trova e uccide il vero emulo, che scopre essere suo fratello; muore anche l’uomo invisibile nella colluttazione, solo e non visto, in un colpo di scena che può essere solo letto, non spiegato.
Sub-plot 2: Dylan si innamora perdutamente della prostituta che l’ha assunto, ma lei no. O forse sì?
Sclavi incrocia magistralmente queste tre trame facendo in modo non solo che si capisca tutto perfettamente ma anche che ognuna incida sull’altra e la rafforzi man mano che la lettura procede.
Ed è così che arriviamo al FINALE.
Altro cliché disintegrato. Il cliché dei cliché dylaniani, direi. Perché Dylan, fino a quel fatidico numero 19, ha praticamente sempre avuto come clienti donne attraenti che ha sempre portato a letto e di cui si è sempre innamorato. Facile, quando poi arriva pagina 98 e dal prossimo episodio si resetta tutto. Ma questa volta è vero amore. Dylan si è innamorato di una prostituta e la vuole sposare. Già questo scardina un bel po’ di certezze nei lettori bonelliani di lunga data. E in più lei, Bree Daniels, il primo personaggio femminile della serie veramente credibile e approfondito, rifiuta l’eroe. Perché lei batte i marciapiedi. Bree vive nella realtà. Non c’è spazio per l’amore, per una vita di coppia. Per una vita normale.
Per la prima volta Dylan si dichiara e viene rifiutato. E a pagina 98, che ritengo tuttora la più bella tavola finale dell’intera serie, non c’è un epilogo che rivela che il mostro è ancora vivo e ha voglia di uccidere, ma un nuovo, ipotetico, inizio per Dylan che mai prima di allora era stato così vero, così “persona” e non “personaggio”.
Quell’inizio di telefonata nell’ultima vignetta che chiude il tutto, riassume e ribadisce il messaggio già espresso poche vignette sopra, nel finale del sub-plot dell’uomo invisibile: viviamo e moriamo soli. Si rivedranno o non si rivedranno Dylan e Bree? Sta al lettore deciderlo.
(sì, si rivedranno in un’altra storia molto più avanti, ma ora stiamo sul pezzo)
Se Sclavi avesse chiuso l’albo con “Bree, io ti amo” + “Anch’io, Dailan”, avrebbe rovinato TUTTO. Sarebbe andato contro ogni singola parola e ogni singola inquadratura inserita nelle 93 tavole precedenti.
Ma Sclavi è un Maestro. E in quell’ultimo, estremo, stentato “D-Dailan…” dell’ultimo balloon, ribadisce e conferma l’unicità di questa indimenticabile storia.