Letteratura e fumetto: l’amara ironia di Sikoryak
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Letteratura e fumetto: l’amara ironia di Sikoryak

Lo scorso 7 marzo 2017 è uscito Terms and conditions, l’ultimo lavoro di Robert Sikoryak, che si occupa di mettere in fumetto i termini e le condizioni d’uso di iTunes. Non, chiaramente, come un fumetto funzionale, quelli spesso usati per chiarire meglio il funzionamento di un dispositivo: ma come operazione d’arte concettuale di cui Sikoryak è maestro. Classe 1964, esponente di Raw nei primi anni ’90, Sikoryak si pone con quest’opera come uno dei pochi fumettisti autenticamente concettuali. Ma la cosa che interessa in questo blog, è che questo permette di parlare del suo vasto ciclo concettuale precedente, legato all’adattamento a fumetti e raccolto in Masterpiece Comics nel 2009.

In quest’opera egli ha raccolto gli adattamenti di un numero altissimo di autori alti, giocando a usare provocatoriamente il fumetto come medium “basso”. Nella cover dell’opera campeggiano Dante Alighieri, Charlotte / Emily / Anne Bronte, William “The Bard” Shakespeare, Voltaire e Oscar Wilde; e sopra la cover occhieggia minaccioso Fedor Dostoevskij.

Molti di questi autori in realtà hanno avuto adattamenti riusciti al fumetto, Dante e Shakespeare per primi, di cui abbiamo parlato ampiamente. Sikoryak, però, compie un’operazione concettuale affine a quella di Roy Lichtenstein, ovvero una decontestualizzazione per certi versi simmetrica a quella del maestro della pop art. Lichtenstein, estrapolava una vignetta di fumetto e la trasformava in quadro, con un effetto straniante.

Il senso voleva essere, nelle intenzioni, una satira della cultura pop, espressa dal fumetto americano anni ’50, generico e massificato: trasporlo in quadro avrebbe dovuto dimostrare l’ingenerosità del confronto tra comics e “arte alta”. L’operazione di Lichtenstein era, in questo, non priva di ingenuità: da un lato, il fumetto ha valenza nella sua sequenzialità, per cui ha poco rilievo estrapolarne una singola immagine a questi fini di critica. In seconda battuta, la qualità stereotipa di certo fumetto è accidentale e non strutturale: non mancano fumetti che “sono belli come quadri”, e ne parla – con la giusta consapevolezza critica – Marco D’Angelo in questo affascinante post. Per una classica eterogenesi dei fini, l’opera venne poi di fatto letta come celebrazione dei comics, e non loro critica, in un’epoca in cui perfino parlare dei fumetti era dare loro una legittimazione che molta cultura ufficiale riteneva eccessiva.

Sikoryak compie l’operazione simmetrica: traspone opere letterarie percepite come “alte” in un linguaggio fumettistico volutamente “basso”, ovvero in prevalenza quello stereotipato del fumetto anni ’40-’50, o citando in altri casi fumetti ormai notissimi e consolidati. Lo scopo è produrre uno straniamento di tipo concettuale, anche se non sempre l’effetto è identico. Ovviamente, come in ogni operazione artistica concettuale, il contesto storico è fondante: nei primi anni ’60 l’operazione di un artista visivo come mainstream Lichtenstein partiva da una diffusa percezione del fumetto come “basso”; Sikoryak è un fumettista che realizza provocatoriamente fumetti “bassi” di opere letterarie “alte”, rispetto a una scena del fumetto ossessionata (anche giustamente) dalla sua “nobilitazione” (magari a “graphic novel”). Ma vediamo queste riletture in un canone tendenzialmente cronologico:

L’Odisseo di Omero viene riletto come il Popeye di Segar; per certi versi, però, l’operazione “dissacrante” funziona qui fino a un certo punto, perché – al di là del comune tema marinaresco – le due narrazioni sono sovrapponibili, anche se una di un livello elevatissimo e l’altra di registro comico. Non siamo lontani da esiti frequenti nel fumetto italiano, come le parodie disneyane, in questo caso la Paperodissea di Martina e De Vita, nel 1961. Anche molti meccanismi comici sono simili: ad esempio, il “personaggio fuori dal suo umore”: quanto Odisseo è riflessivo e astuto, tanto Braccio di Ferro è impulsivo e manesco (un buon esempio disneyiano italico di tale espediente è nel recente Duckleto di Giorgio Salati, di cui ho scritto su questo blog).

Più radicalmente ancora Dante (l’apice della moderna letteratura occidentale) diventa uno di quei fumettini bassamente funzionali usati per una pubblicità di gomme da masticare, Inferno Joe, con tanto di gadget pubblicizzati. L’operazione di straniamento è efficace, unificando due estremi opposti.

Il Macbeth shakespeariano riambientato negli anni ’50 funziona come straniamento estremamente tipico: qui siamo davvero vicini all’operazione di Lichtenstein, cambiato modo di ragionare sul medium. Se prendessimo fuori contesto la vignetta sovrastante di Sikoryak, potrebbe essere credibile come opera della pop art (tralasciando gli stilemi più superficiali, come lo sgranamento del retino e così via).

 

Candiggy fonde Ziggy con il Candide di Voltaire, utilizzando anche alcune delle incisioni originarie usate per illustrare alcune delle edizioni dell’opera. Per paradosso, però, qui l’effetto non è di straniamento, ma di efficacia.

L’essenzialità della breve tavola contrasta con l’effervescente verbosità dello scrittore francese, ma sembra avere l’effetto di asciugarne certi passaggi più macabri (che resi visivi diverrebbero troppo compiaciuti). Un’operazione analoga, nel concetto, a un capolavoro come Maus di Art Spiegelman, che riesce a raccontare la Shoah proprio allontanandosi  da un realismo che sarebbe inutilmente pesante.

Mephistofield, Mefistofele + Garfield, adatta invece Goethe, e siamo di nuovo in un caso simile ad Ulisse/Popeye, sulla dimensione però questa volta della strip, e non più del fumetto avventuroso medio-lungo. Il sarcasmo irridente di Mefistofele nel Faust goethiano si sposa bene con quello di Garfield. All’apparenza, infatti, Garfield di Jim Davis è il simbolo stesso del cartoon efficace ma banale, la striscia più pubblicata al mondo; ma sotto questa genericità si cela una distruttività autentica, genuina, messa in evidenza da garfieldminusgarfield.net, sito che, eliminando il fastidioso gatto come se fosse quasi un prodotto immaginario della mente del suo padrone, palesa ed accentua il nichilismo disperato delle strisce.

Passando ad Oscar Wilde, appare curioso il parallelo tra Dorian Gray e Little Nemo in Slumberland. Si tratta infatti di due opere ritenute ambedue, nei loro media, “alte”. Ad esempio, Lichtenstein stesso, nel dissacrare i fumetti, risparmia i grandi modelli dell’anteguerra, concentrandosi sul segno dei comic book più recenti e, in un percezione banale, deteriori.

L’operazione di Sikoryak qui funziona a mio avviso solo in parte: l’incontro tra Oscar Wilde e Windsor McCay non produce uno straniamento né nel senso di operazione volutamente trash (come Inferno Joe) ma una sostanziale coerenza di visione liberty.

Funziona bene, invece, Franz Kafka con Charlie Brown, per il contrasto che si viene a creare tra sviluppo angoscioso e sviluppo comico leggero dello stesso tema, l’inettitudine. Funzionale ma meno riuscito mi pare la Lettera Scarlatta di Hawtorne adattata a un fumetto per bambine anni ’30 (mentre bisognerà prima o poi parlare della versione molto personale di Pratt e Manara).

Il gioco di Sikoryak è bello, ma può essere serializzato fino a un certo punto. Anche le Bronte come Zio Tibia, per quanto funzionino, mostrano una certa sovrapposizione a quanto già fatto su MacBeth. Meglio invece Batman come Raskolnikov di Dostoevskij, da Delitto e Castigo: l’adozione dello schema dei supereroi mascherati rende ancora più artificioso l’adattamento, accentuando l’effetto di straniamento che già deriva dalla forza del contrasto di partenza.

 Meglio ancora l’operazione con Superman, che va ad adattare Albert Camus (originario come me di Mondovì, ma nel suo caso non quella italiana, ma quella d’Algeria, ormai sparita con la fine del dominio coloniale francese): allo straniamento del contrasto si aggiunge qui la riflessione su inetto/superuomo tipica degli esistenzialisti, e il bel gioco di parole (e bell’ossimoro) Action Camus.

In generale, gli autori novecenteschi del romanzo della crisi si prestano bene al contrasto, perché raggiungono il massimo della cupezza nel periodo in cui il fumetto (all’apparenza) è ancora all’apice del disimpegno. Il Waiting for Godot di Samuel Beckett realizzato con Beavis e Butthead, infine, chiude idealmente il cerchio: il nichilismo del padre del teatro dell’assurdo è infatti, in fondo, lo stesso nichilismo assoluto, sia pur più irridente, del cartoon-simbolo della MTV anni ’90. Insomma, Sikoryak ha creato un percorso affascinante, sospeso tra il negare e l’estendere le possibilità dell’adattamento fumettistico. Un lavoro che meriterà probabilmente approfondire ancora in seguito, indagando magari meglio le complesse intenzioni concettuali dell’autore. Per ora, ci basta aver evidenziato come, prima di fare i manuali di istruzioni, Sikoryak abbia creato anche un meno sterile manuale di letteratura.

Per quanto riguarda i Terms and conditions, l’operazione concettuale sta venendo in linea di massima acclamata dalla critica anglosassone per la sua genialità; e indubbiamente operazioni di questo tipo, native nel fumetto, sono ancora relativamente nuove. Ma da cultori dell’adattamento letterario nei comics non possiamo non cogliere che Andersen è arrivato molto prima nel capire il meccanismo sottostante al concettuale, da Duchamp in poi. Esiste, ne sono quasi sicuro, una versione del compianto Gino Gavioli: ma anche questa di Roberto Sarilli svolge egregiamente la sua funzione:

E mentre le altre arti banchettano al tavolo imbandito della cultura alta, il fumetto continua a mangiare pane e Sikoryak.

 

 

2 thoughts on “Letteratura e fumetto: l’amara ironia di Sikoryak

  1. Un articolo davvero interessante e pieno di spunti, si delinea sempre più con peculiarità il progetto portato avanti sul blog di analizzare il legame fra fumetto e letteratura. Una visione inedita e mai banale.
    Su Lichtenstein, in vari casi mal interpretato, direi che c’è forse un’anima più ampia da evidenziare sottesa alla sua operazione coi comics. L’intento a mio avviso non era tanto quello di prendere di mira i comics e discriminarli come l’arte “popolare”, quanto una critica ad una tendenza che ancora oggi (e per sempre) ci porteremo dietro: ovvero il vezzo dell’arte “popolare” (definizione in via d’estinzione, per confini ormai troppo labili) di prendere concetti e idee dell’arte alta e banalizzarli, renderli kitsch, rimasticarli e darli impacchettati e depotenziati in pasto a masse che fruendone hanno il sentore di bagnarsi di cultura elevata e soddisfare il proprio ego. In questa prospettiva è contingente quale sia il soggetto, comics o qualsiasi altra cosa: quel che non va non è tanto la cultura popolare, quanto questi furti furbeschi. Quella della pop art fu una vendetta, l’arte “alta” che compie all’inverso la medesima operazione di quella “bassa” e la lascia poi senza spunti da cui copiare, senza possibilità di banalizzare le avanguardie, che sono diventate “popolari” a volta. È un “omicidio” culturale in cui il fumetto è solo un tassello preso a capro espiatorio.
    Detto questo, è stato davvero illuminante il paragone con le parodie Disney (peraltro contestuali, e non credo sia un caso). La cosa ha grandi margini di sviluppo e di riflessione. Per cui davvero, al solito un prezioso spunto, con qualche chicca sul finale.
    Fra l’altro in Italia di Sikoryak si continua a parlar poco, e mi hai messo una gran voglia di recuperare Masterpiece Comics, che finora non avevo letto.

  2. Contributo molto interessante e azzeccato. In effetti il discorso su Roy Lichtenstein è più complesso, e va ampliato nella direzione che hai indicato tu. Ad esempio, dopo aver codificato il suo stilema “fumettistico”, l’autore lo applica in una seconda fase anche all’arte “alta”, realizzando Picasso ed altri in versione “comic book”. Un lavoro simile, in fondo, a quello di Sikoryak, ma interno alla storia dell’arte visiva.

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