Heart & Mind: Autopsia di Zerocalcare
Scrivere di Zerocalcare senza ripetere ogni volta le stesse domande, arrotolarsi sugli stessi concetti: Rebibbia, i plumcake, l’armadillo, è possibile, davvero? Di Michele Rech in arte Zerocalcare sappiamo ogni cosa: dalle sue abitudini alimentari ai suoi ideali politici, un po’ perché nei suoi fumetti racconta di se stesso, un po’ perché in decine di interviste gli è stato chiesto praticamente tutto. Credo che Michele abbia ormai una sorta di canovaccio e che ogni volta debba srotolare mentalmente il papiro di risposte che sa di dover dare. Dal momento in cui ha accettato questa intervista, ho cercato di capire come procedere nell’analizzare tutta la mole di lavori prodotti da un autore indubbiamente prolifico.
Ci siamo incontrati già una volta e la questione era finita più o meno così:
Adesso è decisamente diverso, non lo incontro con il mio alter ego in bianco e nero ma con la parte di me che si è ripromessa di impugnare un bisturi affilato alla ricerca di qualcosa che non è stato ancora – passatemi il termine – sviscerato.
Ho deciso di affrontare la preparazione dell’intervista con un metodo analitico molto simile a quello che ho sviluppato per preparare l’esame di Filologia Romanza all’università, con una mappa concettuale su Zerocalcare, in pratica una roba da maniaci ossessivo-compulsivi:
Ho cercato di capire quali effettivamente siano i suoi punti di forza ma anche certe debolezze, certe paure che strisciano sotto la superficie, nascoste dietro una battuta dell’Armadillo, un’irruzione di Secco, un’uscita poco elegante di Cinghiale. Mi sono chiesta quali fossero le cose che mi interessava sapere del suo lavoro, andare il più a fondo possibile, esattamente come quando si affronta una materia che non si conosce. Dovevo ripartire daccapo, analizzare di nuovo il suo percorso, superare l’evidenza. Così mi sono riletta tutto – sì giuro tutto, l’ho detto che neanche Filologia Romanza è stata così complicata? – mi sono riguardata qualche intervista e ho cercato di “scansare” gli argomenti di cui sopra, le sabbie mobili che lo intrappolano sempre nelle stesse domande. Quando ho deciso il nome di questo blog era proprio questo che volevo fare: andare a fondo. Quanto più possibile.
L’appuntamento è a San Lorenzo, Roma, bar, esterno giorno: Zerocalcare non c’è, il bar è chiuso. Dato che sono una persona ottimista per natura penso che mi abbia dato sòla e che devo farmi venire in mente un’alternativa per il secondo pezzo del blog. Invece no, Calcare arriva sorridente e in orario e mi mette subito a mio agio con “Ammazza c’hai du’ occhiaie pure te.”. Gli insonni si riconoscono dalle occhiaie che sono una specie di marchio, come le lacrime tatuate quando fai parte di una gang, tipo.
Quando finalmente ci sediamo al ristorante mostro a Michele la mappa concettuale che ho fatto su di lui e giustamente esclama: “Ammazza è da psicopatici! Mò magari dopo tutta ‘sta roba che te sei preparata me chiedi perché me chiamo Zerocalcare!”. Ridiamo e penso che se gli avessi posto domande di questo tipo magari ce la saremmo cavata entrambi in poco tempo e non ne sarebbe venuto fuori un trattato su Zerocalcare, cioè, in parole povere, un gigantesco accollo.
La mia prima domanda riguarda un tema che per te è molto importante: la tua identità. Fin dai primi lavori che ti hanno reso noto al grande pubblico, la tua identità è uno degli elementi più forti che esce fuori, costantemente, quasi a sottolineare che tu sei questo e il lettore deve saperlo, accettarlo. Ogni volta mi viene in mente la frase di Valerie in V for Vendetta:
“Ogni centimetro di me perirà… tranne uno. Un centimetro. È piccolo, è fragile ed è l’unica cosa al mondo che vale la pena d’avere. Non dobbiamo perderlo, o venderlo, o cederlo. Non dobbiamo permettere loro di portarcelo via.”
Quanto riesci a conciliare la tua identità con quello che sei diventato e quanto queste due “parti” di te vanno invece in conflitto?
Questo è il mio sforzo più grande, in generale, nel senso che se devo pensare a qualcosa che mi caratterizza da quando mi alzo la mattina tutto è indirizzato a cercare di mantenere la mia identità nonostante questa roba qua. Nonostante la gigantesca roba mainstream che mi è piombata addosso. Ovviamente se dico “gigantesco” parlo per la mia esperienza, per la mia vita è ovvio che non penso di essere chissà quanto famoso. Però nell’economia de un pischello cresciuto negli spazi occupati, nella scena punk quello che è successo è comunque una roba abbastanza dirompente. Comunque rispetto a come sono partito ci sono state delle contaminazioni, dei compromessi. Io nasco come un talebano quindi tutta una serie di cose sarebbero state impensabili per me, ad esempio fare un fumetto su un quotidiano. Mi sono confrontato col fatto che da una parte questo è un lavoro quindi non più una passione e in quest’ottica alcune cose cambiano. Nel senso che se io avessi fatto un altro lavoro non avrei pensato che andasse in conflitto con la mia identità. Invece questa confusione continua fra una passione poi diventata lavoro, mi genera un grande conflitto. Accettare che ormai è un lavoro a tutti gli effetti mi fa fare pace anche con gli elementi che magari sono più lontani da me. Dopodiché non vuol dire che allora vale tutto, io comunque cerco di tenere sempre alcuni paletti all’interno delle cose che faccio. Non alimentare stereotipi sessisti, razzisti, non prestarmi per campagne elettorali e non fare niente per chi vuole mandare in galera i miei amici. Sostanzialmente, sento che questi paletti mi aiutano a mantenere un’integrità e comunque continuo a fare tutta una serie di lavori per il mio mondo, per la mia tribù. Attraverso Kobane Calling ho cercato di ricomporre queste due identità: quella più politica e quella più mainstream… poi che ne so io spero sempre de riusci’ a mantene’ l’equilibrio ‘nsomma.
Questo rigore che ti imponi nella difesa dei tuoi valori ed ideali viene spesso “smussato” dalla tua autoironia che irrompe grazie all’Armadillo e ai tuoi amici Secco e Cinghiale, sembra che siano lì a ricordarti che non bisogna prendersi troppo sul serio. In questo modo tieni sempre il lettore su una sorta di altalena emotiva ma al contempo non rivela la paura di diventare troppo “impegnato”?
Sì, è esattamente così ed è una cosa che fin dall’inizio ho fatto con molta consapevolezza. Vengo da una città e da un quartiere dove in generale a nessuno viene fatto passare niente, se ti prendi troppo sul serio vieni comunque riportato coi piedi per terra. Poi c’è da dire che io sono anche una persona vulnerabile cresciuta con l’idea che tutte le debolezze verranno utilizzate contro di te. Mostrarsi troppo deboli è roba per cui la gente te fa le prepotenze. Quindi in qualche modo il fatto di farmele da solo queste prepotenze, di mettere le mani avanti, è un modo per schermarmi. Penso che fra l’altro io non sono capace di spingere verso la roba emotiva, impegnata, poetica, devi essere in grado di farlo. Gipi lo può fare, se leggo le sue cose non penso mai che è un polpettone melenso, anzi mi smuove qualcosa dentro. Invece, se io provo a spingere su questo rischio di andare sui toni da telenovela. Quindi è un modo di difendermi da quello che pensano gli altri ma anche da quello che penso io stesso.
Questa sorta di doppio registro è ancora più evidente e forte in Dimentica il mio nome e Kobane Calling, anche se stiamo parlando di argomenti di un certo peso, anzi, della vita nella sua continua lotta con la morte. Credi che stai volutamente tagliando fuori dei “settori” della tua vita, quasi come se fosse divisa in compartimenti stagni, per non darla completamente in pasto al lettore?
Sì, ci sono delle parti della mia vita che effettivamente voglio blindare e non voglio dare in pasto al lettore. Nello specifico su Kobane Calling c’è anche una valutazione di tipo opportunistico nel senso che io avevo bisogno che questa storia funzionasse per il mio lettore medio. Mi interessava che chi conosce il mio linguaggio si leggesse una storia sul Kurdistan e sapesse cosa sta succedendo in quella parte di mondo. Quindi per me era molto importante non presentargli il pippone senza le parentesi ironiche che invece poteva piacere di più ad un altro pubblico ma volevo che lo leggessero anche tutti quelli che leggono i miei fumetti perché fanno ridere.
Proprio riguardo all’essere compreso dal vasto pubblico che ti segue, quanto questa popolarità influenza il tuo momento creativo?
Sarebbe ipocrita dire che non si ragiona in termini di pubblico. Anche se decidi di non farlo ma banalmente vedi che una storia fa 40000 condivisioni e un’altra dopo invece ne fa 7000, comunque, anche se decidi che non te ne frega un cazzo, c’è una piccola voce dentro di te che si domanda il perché della differenza fra le due. È una roba umana. Però sei tu che devi tenere a bada questo aspetto, non è che devi inseguire queste cose perché se no te trasformi in un meme de internet e questo mi terrorizza. Quello che mi pongo rispetto al pubblico tendenzialmente è di essere il più comprensibile possibile anche a costo di essere didascalico. Poi se questo incontra o no il gusto del pubblico, è un problema che non posso pormi, voglio raccontare una storia con onestà anche se poi il lettore può non essere d’accordo con me. Io vengo accusato una cifra di fare le cose facili, le cose su cui sono tutti d’accordo ma non penso che sia facile, demagogico e populista fare un fumetto di 270 pagine sul popolo curdo. So che non è certo la roba più coraggiosa del mondo, ma se l’avesse fatto qualcun altro non si sarebbe pensato ad una roba paracula…
Passiamo al tema della precarietà. Il modo in cui hai saputo raccontarla è una delle ragioni per cui sei stato spesso definito un fenomeno generazionale. Su l’Espresso Di Paolo ci ha definiti la generazione dei figli, cresciuta nel deserto della politica. Una generazione di disillusi che si arrangiano per arrivare a fine mese, senza, a quanto pare, uno scopo preciso. Parzialmente credo che lo siamo davvero, che la precarietà si è talmente radicata nel nostro modo di pensare e vedere che, almeno per quanto mi riguarda, non riesco a programmare la mia vita da qui ad un mese. Quanto credi che questa definizione ci calzi e quali invece sono le sostanziali differenze da come ci vedono le altre generazioni (che sembrano sapere chi siamo meglio di noi)?
Sono molto d’accordo sul fatto che sono definizioni date da un’altra generazione che ha parametri diversi. Per quanto riguarda l’impegno politico nel mio caso non è assolutamente vero. Io sono cresciuto in un ambiente molto politico e in generale ho conosciuto molte persone che si impegnano su questo fronte, sebbene sia uno scenario diverso dalle forme organizzative degli anni ’70, non è vero che non esiste più, anzi. Rispetto invece alla definizione di “generazione di figli” secondo me in parte è vera perché io mi sento molto figlio. Penso dipenda dal fatto che il cambiamento del mercato del lavoro ci ha cambiati proprio antropologicamente. Non penso che la maturità passi solamente attraverso l’aspetto economico, però penso che questo sia una conditio sine qua non per essere indipendenti. Credo che l’essere dipendenti dai propri genitori sia diventata una condizione quasi perpetua perché anche chi ha il contratto fisso non ha certezze, può essere licenziato senza problemi. Però penso che siamo una generazione che si è assunta un sacco di responsabilità e che si è fatta le ossa nel lavoro, non siamo dei bamboccioni. Sono saltati tutti i parametri e quindi dovrebbero leggerci non con gli stessi che venivano applicati per le generazioni precedenti.
L’essere figlio è un elemento che si avverte molto forte nei tuoi lavori, soprattutto in Dimentica il mio nome. Dopo averlo letto, se ricordi, ti dissi che il tuo personaggio non ne veniva fuori benissimo – in realtà te lo scrissi in modo elegante ma volevo dire che il tuo personaggio ne esce fuori un po’ come ‘no stronzo – molto poco empatico e quasi incapace di raccogliere il dolore di tua madre, che è il tuo mentore ma anche un’eroina pronta a salvarti. La figura materna a cui fa da contraltare quella di tua nonna insieme a te creano una sorta di impianto triangolare su cui la storia si regge. Due vertici di questo triangolo sono donne e le donne ricompaiono forti, empatiche, positive, guerriere anche in Kobane Calling. Sembri uno dei pochi autori uomini che sa parlare delle donne senza trasformarle in stereotipi. Quanto è importante questo aspetto nella tua narrazione e quanta responsabilità ti dai mentre parli alle donne, come figlio e come uomo?
Non credo di essere uno particolarmente capace di raccontare le donne, scelgo soltanto di non mettermi mai nella loro testa, di non parlare a nome loro. La presenza di personaggi femminili così forti dipende dal fatto che io sono cresciuto avendoci intorno delle figure femminili effettivamente molto forti e molto più forti di me. Gli anelli della catena intorno a me, che mi ha sostenuto, sono sempre state delle figure femminili. Per scelta ho fatto il libro che aveva come protagonista Secco (“Dodici” ndr) perché so perfettamente cosa pensa, non sarei capace di fare la stessa cosa con un personaggio femminile perché avrei paura di cadere nello stereotipo. Per quanto riguarda mia madre in Dimentica il mio nome, a parte che la conosco molto bene, ma c’è stato un lavoro enorme dietro che ho fatto con lei. Quando non posso fare questo mi limito a raccontare quello che vedo, che osservo, che mi dicono, proprio perché sono terrorizzato dal fatto di stereotiparle.
A questo punto ti faccio una domanda un po’ più leggera così smetti di pensare che palle oh… Una mia amica che scrive di moda mi ha parlato di un’abitudine che hanno gli stilisti – e non solo – quando sono in procinto di creare una nuova collezione: la moodboard. In pratica una bacheca in cui vanno ad inserire tutte le cose che potrebbero influenzare il loro lavoro: dalla musica all’arte, al fumetto, cinema, ecc. Quali fonti di ispirazione metteresti in una tua ipotetica moodboard? Questa è facile…
Tutto quello che me fa rosica’. Io mi segno tutto quello che mi succede e che mi fa rosicare e da lì prendo spunto per le mie storie: dalle persone che incontro, alla roba che leggo, o qualcosa che mi succede nel traffico ma comunque l’unico filo conduttore è che è roba che me fa rosica’.
Quando ho frequentato la Masterclass di Gipi all’Arf ci ha detto una cosa davvero molto forte: nessuno vi ama abbastanza. Perché le persone dovrebbero spendere il loro tempo per leggere le storie che scrivi, cosa ci vuoi lasciare e raccontare del tuo mondo e in futuro cosa capiranno del nostro mondo attraverso di te? (‘sta domanda è di Gipi e non farina del mio sacco, in pratica…)
Mi piacerebbe dirti qualcosa di più intelligente ma in realtà perché qualcuno mi dovrebbe leggere non lo so ed è un po’ il motivo per cui ogni volta penso che si stia per sgonfiare tutto. Io faccio su me stesso un lavoro di dissezione – il tuo blog si chiama Autopsia del Fumetto e calza con quello che faccio. Cerco di riordinare le emozioni che provo quando mi succede qualcosa e ad ogni emozione cerco di associare un termine di paragone che sia visivo, grafico. Poi cerco di comprendere ogni emozione in modo più specifico e anche tutti gli scenari che può aprire. Quindi è proprio una sorta di dissezione emotiva che magari qualcuno che condivide la mia stessa sensibilità, emozioni, ci si ritrova perché riconosce qualcosa che di fatto gli appartiene. Credo sia l’unico motivo, perché non è che io sia capace di raccontare storie particolarmente complesse. Nel futuro, se mai una civiltà aliena dovesse leggere la mia roba penserebbe che è una società de paranoici, rancorosi e con grande difficoltà a stare al mondo.
Riguardo questa difficoltà, tornando a Kobane Calling, una delle scene iniziali è la colazione a base di lenticchie. Probabilmente è una di quelle scene che avrà fatto pensare ai tuoi detrattori: “Madonna che palle pure la colazione a base di lenticchie non ce bastavano i plumcake…”. In realtà quella scena ci racconta della tua continua lotta fra quello che ti chiama da una parte e quello che forse vorresti raggiungere dall’altra, tanto che ad un certo punto, il tuo cuore con tutte le tue esperienze, pulsa proprio lì a Kobane e tu stesso ci dici che il cuore del mondo, adesso, è lì. Quanto pensi che ti abbia aiutato a crescere abbandonare pezzi di te per raggiungerne altri e quanto di questa esperienza e del cuore di Kobane sei riuscito a trasmettere al pubblico?
Non credo che per crescere bisogna abbandonare le proprie cose anzi penso che uno le proprie cose debba preservarle, curarle, tenersele strette. Il viaggio a Kobane mi ha fatto comunque mettere in discussione una serie di cose e mi ha costretto a lasciare Rebibbia per più di quattro notti. Allontanarmi da routine rassicuranti mentali e fisiche. Mi ha trasmesso molto in termini emotivi però non è che in quel momento mi ha fatto crescere. Sono tornato e penso di non averle neanche metabolizzate bene le cose che ho imparato in quell’occasione. In realtà a distanza di mesi, per alcune cose che mi sono successe, quegli insegnamenti mi sono tornati utili. Per quanto riguarda quello che sono riuscito a trasmettere, i riscontri sono stati molto positivi. È pur vero che parla di cose molto serie e quindi se uno pensa “non m’ha fatto ride e quindi è ‘na merda”, dato l’argomento, si vergogna e non me lo viene a dire. Quindi di questo sono soddisfatto ma fra me e me sono convinto che delle cose non sono riuscito a restituirle. In particolare la solennità di quando siamo stati nelle basi del PKK in montagna, l’irreversibilità di quella scelta ma al tempo stesso la tranquillità con cui affrontano tutto questo. Questo ti dà un’emozione fortissima che credo di non essere stato capace a restituire e mi dispiace che il lettore non avrà mai accesso a quel tipo di emozione.
L’ultima domanda riguarda proprio il titolo di questo blog: se dovessi farti un’autopsia metaforica cosa troverei dentro di te? Ti va di rispondere disegnando?
La spiegazione?
Un groviglio inestricabile su cui sto facendo un lavorone per dividere i vari cavi.
fantastico, come sempre!
Scrivere di Zerocalcare senza ripetere le stesse frasi è semplice: non è un autore per vecchi!
In realtà Zerocalcare è un autore molto trasversale. Non ripetere le stesse cose significa andare oltre un giudizio superficiale, in positivo o in negativo. Semplificare dicendo che “non è un autore per vecchi” significa sminuire l’enorme lavoro che fa per arrivare al pubblico, come lui stesso afferma nell’intervista ma magari non l’hai letta per intero.
Questa è l’intervista più profonda che ho letto di Zerocalcare. Chapeau.
L’unica cosa che non capisco è il paragone con l’esame di Filologia Romanza.
Non era mica sto mostro…
😉
Ahahhahahah per te che non sei biondo… (grazie!!!!)
Bellissima intervista, specialmente la parte della dissezione emotiva: è esattamente quello che fa nei fumetti, anche se non me n’ero mai resa conto.
Un discorso compiuto su Zerocalcare lo avevo fatto a dicembre 2015 commentando sul mio blog l’unico suo libro che ho letto. Non è un autore per me e siccome ho passato i 50 la mia mania di sintetizzare all’estremo mi ha fatto parafrasare il famoso film.