Autopsia del Fumetto

Quando frequentavo il liceo mi innamorai di un libro che all’epoca credo abbiano letto tutti. Mi costruii in testa l’immagine del suo autore come di una persona davvero punk. Punk nel modo in cui ci aveva raccontato una storia semplice e scontata rendendola unica e pulita. Punk per i sentimenti che era riuscito a veicolare attraverso due adolescenti senza sciuparli, senza trasformarli in retorica. Due adolescenti che ai miei occhi apparivano così diversi da quelli che conoscevo eppure li sentivo così vicini a me che – manco a dirlo – mi sentivo diversa dai miei coetanei – che originalità eh a 16 anni? Quando, un giorno, per caso, beccai in tv un’intervista a questo giovane autore mi resi conto che l’immagine che mi ero costruita non coincideva in alcun modo con la persona che avevo visto in quell’intervista (che poi parliamoci chiaro ma chi riesce ad essere spontaneo durante un’intervista?).

Mi resi conto di essere stata profondamente ingenua, ma nei miei 16 anni forse potevo anche perdonarmelo, no? Avevo caricato quell’autore di una serie di aspettative nate dal suo racconto, avevo creduto che poiché era stato in grado di parlarmi direttamente potesse essere, in qualche modo, simile a me.

Wolverine-Autopsy

Marvel Comics

Questo modo narcisistico di approcciare il racconto in ogni forma ci venga proposto è quello che negli anni che stiamo vivendo sta creando una sorta di interesse morboso verso gli autori. Nella nostra testa costruiamo l’immagine dei nostri autori preferiti e grazie ai social network possiamo sapere praticamente tutto di loro. Quanta di questa roba è davvero sana e fa bene agli autori? Conoscere quello che fanno, quello in cui credono, avere la presunzione che siano come noi perché con le loro opere ci leggono dentro e fomentano il nostro approccio narcisistico e ombelicale alla vita.

Leggo continuamente commenti di lettori che si rispecchiano nelle opere dei loro autori preferiti o nelle abitudini perché basta aprire Facebook, scorrere Twitter, spulciare le foto su Instagram per sapere tutto di loro, anche di quelli più restii, più blindati. Alcuni di loro di questo uso dei social ne hanno fatto un punto di forza e hanno capito che adesso, in questo momento esatto, la narrazione parte da lì e finisce dentro le loro opere. Altri si stupiscono di quanto alcune cose che scrivono, anche banali, abbiano un riscontro enorme sui social. Altri ancora li vivono come qualcosa di necessario ma doloroso, come la pulizia dei denti – che fai, non te la fai?.

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Tavolo operatorio del Dr. D.

Per quanto mi riguarda, ho iniziato ad usare i social, tutti ma proprio tutti, nel 2008 – mentre lo scrivo il 2008 mi sembra l’altro ieri e invece sono 8 anni fa, otto, Devi, ripeti con me O-T-T-O – mi ricordo che uno dei miei primi “follower” mi scrisse “per te il web 2.0 non ha segreti”. In effetti fin da subito mi sono trovata perfettamente a mio agio in un ambiente che mi permetteva di conoscere persone, opere, caratteri, materiale umano senza dovermi spostare, senza dover faticare a guardarle negli occhi tutte queste persone, a tenere a bada la timidezza.

Col tempo e l’esperienza ho imparato ad usare davvero i social network e ho imparato a mie spese come proteggersi, come nascondere se stessi e quello che non si vuole che si sappia. Come blindarsi. Ho conosciuto molti autori personalmente e capito che avevano fatto lo stesso, che le cose più importanti le avevano “salvate” e non le avevano date in pasto alla fiera narcisistica del “oh mio Dio, sei proprio come me!”. Che ad un certo punto è necessario uscire dai 16 anni e cominciare ad affrontare le opere così come richiedono di essere affrontate, con uno spirito critico, con lo sguardo di chi sta cercando l’altro, le sue esperienze e anche se stesso, ma non solo.

Cercherò di entrare nelle opere e nei loro autori con lo sguardo di chi si è lasciato indietro i propri 16 anni, di chi ha detto al suo io che adesso stiamo andando alla ricerca di avventure, che le vite degli altri sono belle anche se non ci assomigliano. Che un’autopsia non si ferma alla superficie, ma va a fondo e “vede con i propri occhi” quello che prima era nascosto alla vista.