Il grande scrittore e la sua sfida
Non si può negare che il contributo di Morrison alla causa X-Men sia stato importante.
Gli spunti che ha offerto sono stati tantissimi, tanto che è difficile citarli tutti. Per prima cosa: si è smesso di ragionare sui mutanti come semplici reietti, andando in maniera (finalmente) decisa verso il concetto di razza, e cioè di gruppo caratterizzato da una propria struttura e identità. Non solo combattenti, quindi, ma anche artisti, ingegneri, gente comune che non ha voglia di salvare il mondo ogni settimana. Gente comune fra cui è stato sdoganato l’eroe brutto: la storia d’amore nata per scherzo fra Beak e Angel viene costruita bene e riesce a crescere in maniera naturale, senza eccessi di sentimentalismo, nonostante le premesse grottesche e provocatorie.
Non si è al contempo dimenticato l’eroe tradizionale andando anche verso una coolness mutante sempre ventilata, in passato, ma mai davvero dichiarata. Morrison esplora la materia “fattore X” da tutti i punti di vista, presentandoci il pacchetto completo.
Tornando alla gestione delle dinamiche emozionali, il rapporto controverso fra Scott ed Emma, il lento logorio a cui è avviato il più retto fra gli studenti di Xavier, è un altro ottimo lavoro. Morrison si diverte a punteggiare le storie di (originali) incontri mentali che cementano la relazione con la dovuta calma, utilizzando in modo coerente le abilità psichiche e la natura manipolatrice della ex villain, giocando con intelligenza sull’insicurezza e sulla fragilità di Ciclope. Il litigio da dramma familiare che si consuma fra Jean ed Emma è un esempio maturo di fusione fra poteri e problematiche quotidiane.
Sul versante della più pura invenzione supereroistica, Morrison ha regalato personaggi che si sono ritagliati un proprio posto nell’affollato mondo dei mutanti, a volte dimostrandosi anche troppo resistenti. In primis Cassandra Nova, un cattivo perfettamente implacabile, psicotico come si conviene, che gioca con le sue vittime e dà la possibilità, grazie alla natura mentale del suo approccio, di scavare nella psiche dei suoi avversari, consentendoci di scoprirne le contraddizioni interne. L’intero ciclo dedicato alla gemella di Xavier è un ottima storia horror che ha forse solo il difetto di risolversi in maniera piuttosto opinabile (la trappola finale sembra un po’ troppo prevedibile per una creatura che fino a quel momento aveva tessuto la sua tela dimostrando un’intelligenza tattica davvero fuori del comune).
Xorn è il secondo ingombrante lascito di Morrison. Secondo quanto lo stesso autore sembra aver dichiarato, non c’è mai stata l’intenzione di crearlo come personaggio a se stante. Fin dalla sua genesi era destinato a conquistarsi le simpatie del pubblico per poi stravolgere tutto rivelando di essere Magneto. La qual cosa si avverte senza dubbio nel numero 136, quando un attacco degli U-Men alla special class capeggiata da Xorn viene sventato da quest’ultimo con ricorso a una forza letale inconsueta, fino a quel momento, per lui. Oppure due numeri dopo, quando Quentin Quire viene “aiutato” da Xorn a passare a un piano più alto di esistenza: difficile non sospettare che si tratti di omicidio piuttosto che di assistenza.
È pur vero, però, che nel (bel) numero 127 Xorn sembra parlare con un vecchio che condivide il suo passato in Cina fin nei minimi dettagli. E come non citare il momento del salvataggio del mutante, nell’annual L’uomo della stanza X, quando Emma Frost percepisce, “leggendo” una chiave della sua prigione, la storia di un ragazzo la cui testa si è trasformata in stella? Da dove vengono questi ricordi? Se sono stati impiantati da qualche telepate, seguendo un’elaborata tecnica di depistaggio, non sarebbe stato meglio spiegarlo, successivamente?
Sta di fatto che Xorn si è rivelato tanto attraente da spingere la Marvel a una decisa ret-con in merito, favorendo l’ingresso nella telenovela mutante di un suo gemello (come se non avessimo abbastanza gemelli) e portando Magneto a sopravvivere all’intera vicenda (come se non avessimo abbastanza risurrezioni nella storia della Casa delle Idee).
La terza aggiunta importante, anche se meno pesante per la storia rispetto alle altre due, è stato Fantomex, un ottimo esempio di eroe dal potere peculiare (un sistema nervoso indipendente, dotato di personalità propria) votato all’azione, ma con potenzialità introspettive. Non era intenzione di Morrison scavare troppo in questa sua creazione, anche e soprattutto perché a Fantomex sono dedicate le parti più dichiaratamente “action” dell’intera saga. Insieme a lui vale la pena di sottolineare l’interessante cambiamento di senso della X di Logan, che da Arma Mutante X diventa Decima Arma Antimutante.
Anche i comprimari, i nuovi studenti della X-Mansion, si sono dimostrati ben caratterizzati: oltre ai già citati Beak e Angel, le Naiadi di Stepford, cruciali per le dinamiche della scuola e di Emma in particolare, mentre la abbozzata Dust si dimostra comunque un’aggiunta efficace.
Tutte queste novità non devono farci dimenticare l’evento da cui è partito tutto: quello spartiacque spaventoso che si dimostra Genosha, pur con le (stranamente) poche pagine dedicate da Morrison a un episodio così deflagrante. È una pietra tombale con cui tutti, dopo, dovranno misurarsi: una sorta di “torri gemelle mutanti” che entrerà nel mito.
Una lettura del lavoro nella sua interezza non può fare però a meno di mettere in evidenza le falle di un impianto che appare vittima della sua stessa ambizione, dell’aspettativa che Morrison sentiva su di sé e della tendenza all’esasperazione dell’intreccio in cui (qui o altrove) è spesso e volentieri caduto.
Per prima cosa, l’abbondanza di fascinazioni diverse, da lui stesso voluta, e che finisce con l’avviare i singoli archi narrativi verso compartimenti stagni da cui a fatica (e non sempre) esce. Soprattutto negli ultimi cicli, si nota stanchezza, con un Assalto a Weapon Plus che si sarebbe potuto consumare in un terzo delle pagine; l’inutile storia poliziesca costruita sull’assassinio di Emma, che pare voler allungare il brodo in vista del finalissimo; un teso, ma fiacco, prevedibile e ostentatamente iperbolico Pianeta X; una poco interessante scorribanda futura, che sconta il problema di un climax già consumato con la morte di Jean Grey e si adagia su stilemi ormai stravisti in futuri distopici analoghi, risolvendo l’intero intreccio in modo ingegnoso (Sublime è un personaggio ben costruito) ma al contempo poco attraente (Sublime, in pratica, non è un personaggio, per cui è difficile concepire un vero interesse per lui).
L’impressione è che la trama sia stata affrontata dall’autore come sfida più che come frutto di una genuina esigenza interna. Questa sensazione è l’elemento che genera maggior distacco rispetto all’altra grande saga che seguirà l’abbandono di Morrison: quella lineare, coesa, forse più innocua ma al contempo più appassionante epopea che saprà essere l’Astonishing X-Men di Joss Whedon. Se lì vediamo l’affetto permeare eventi e personaggi, qui l’approccio è in generale più freddo e i comprimari appaiono più pedine che esseri viventi.
In un’intervista del 2003 comparsa sul sito Comic Book Resources, lo scozzese tracciò le sue definizioni dei protagonisti:
il Professor X: il preside, un uomo con grandi idee che non sono sempre capite da persone che non sono intelligenti come lui.
Ciclope: represso, completamente nobile, brutalmente duro con se stesso.
Jean Grey: prova così duramente ad essere buona che talvolta dimentica di essere umana.
Emma Frost: sexy, contorta, cattiva trasformata in eroina, la self-made woman definitiva.
La Bestia: brillante, arguto, bipolare.
Logan: uno sporco combattente zen con un cuore d’oro e un accenno di disperata vulnerabilità.
È possibile dedurre, dalle parole usate, alcuni elementi sull’approccio di Morrison.
Anzitutto: non sono solo compiute descrizioni dei personaggi chiave, ma ne definiscono la caratterizzazione durante tutta la saga. Non c’è riferimento a una modifica, una crescita o un’involuzione, tranne per il personaggio di Emma Frost (l’unico per cui si spende un termine come “trasformata”).
Ed è proprio Emma il parto più compiuto di Morrison: l’antieroina che ha tutto da dimostrare e che fa di tutto per non dimostrarlo, che si lascia andare alle sue emozioni più negative, ma che sa sviluppare un riluttante cuore. È una cosa che percepiamo sin dall’inizio, nella sua disperazione a Genosha, ma che si concretizza con il passare dei numeri, rendendo evidente che il suo atteggiamento cinico è una facciata simile all’umorismo della Bestia (che infatti, in Omicidio nella villa dichiara di apprezzarla e si danna l’anima per “ricostruirla”). Non è ancora perfettamente integrata, a fine saga, un po’ perché (insieme a Logan) è quella che sostiene il lutto peggiore (la perdita di due discepole), ma il cammino è ben evidente (a portarlo avanti benissimo penserà lo stesso Whedon) ed è avviato con coerenza.
Cosa succede agli altri?
La questione si può dividere fra “inumani” (Xavier, Jean Grey e Wolverine) e “umani” (Scott Summers e Hank McCoy).
Xavier e Jean Grey sono sostanzialmente eroi inumani. Il primo, in quanto telepate più potente del creato, preside della scuola, mentore del movimento, è una specie di manifesto vivente. Tutto quello che fa è ripetere, dall’inizio alla fine, il suo credo: l’integrazione, la giusta via, l’amore come unica necessità, la strada lunga e tortuosa. Lo dice in tutte le salse e in tutte le situazioni. È impossibile scalfirlo. La qual cosa alla lunga rende anche lui, come Sublime, un non-personaggio.
Jean Grey è la Fenice con degli sprazzi di umanità. Lei i problemi li annichilisce, non li risolve. Perché un essere cosmico dovrebbe vivere una dinamica emozionale?
Wolverine è il terzo inumano. Il fatto che sia praticamente immortale fa il gioco di Morrison: perché dovrebbe cambiare la sua attitudine nei confronti del mondo? In pratica è un grosso gatto che si getta nelle zuffe quando gli va e poi corre a riposare e meditare quando ha finito di azzuffarsi. Vero, c’è quel suo lato oscuro, il progetto Arma X, il bisogno di sapere cosa era prima di diventare un assassino. È l’unico suo punto debole, ma la storia, al di là del momento a fine Assalto a Weapon Plus, non si occupa di questa sotto trama.
Ciclope e la Bestia (oltre alla già citata Emma) sono gli “umani” del gruppo.
Il primo, pur sottoposto all’assalto della Frost e allo stillicidio di una relazione che si sta esaurendo con Jean, non prende mai decisioni, nemmeno nel bacio finale (merito di Jean), e si mantiene in una costante imbronciata autoanalisi che non trova mai sbocchi. Tanto determinato quando si tratta di combattere, quanto problematico in ogni altro caso. Sembra quasi ricordare l’imbambolato Colosso nel ciclo di Whedon.
La Bestia, dal canto suo, affronta la sua nuova condizione di creatura mostruosa e dà segno di accusare il colpo, ma come fosse un discreto maggiordomo della X-Mansion, preferisce mantenersi ai margini della narrazione, costituendo poco più di un solido contrappunto.
Insomma, in un modo o nell’altro, Morrison dribbla l’esigenza di costruire una curva di crescita o di modifica comportamentale per i suoi personaggi, e la cosa si riflette nei dialoghi, che hanno momenti molto gustosi, ma preferibilmente ricadono in costanti “dichiarazioni di identità”: ogni soggetto, entrando in scena, sente il bisogno di chiarire quali sono le proprie caratteristiche. Un esempio lampante in merito sono le Naiadi, uno dei personaggi di contorno più presenti, che quasi a ogni comparsata dichiarano la propria natura di “n-in uno” con n tendente a tre (tra l’altro: chi non ha pensato, alla loro prima apparizione, che il numero cinque, iniziale, fosse destinato a diminuire?).
Questo fenomeno di “Alzheimer da pedina” conosce il suo picco nella ingloriosa fine di Magneto: l’ex signore del Magnetismo è una tripla pedina. In primis: è inconsapevolmente guidato da Sublime. Seconda cosa: si è incuneato in una via d’odio che non può conoscere sbocchi, è la vittima della sua stessa visione distorta, e deve gridare il suo pensiero, antitetico a quello di Xavier, soprattutto quando questo pensiero dimostra di crollargli addosso più rapidamente di quanto si aspettasse. Se queste sono ragioni dipendenti dalla storia, quindi legittime, la terza motivazione esula dal contesto del racconto: Magneto è la pedina principe di Morrison, che attraverso il suo ritorno mette in scena una critica verso certi schemi ciclici della Marvel, verso la fantasia imbrigliata nella riproposizione delle soluzioni e dei cattivi collaudati a cui, presto o tardi, non si riesce a non ritornare. Ecco che, in Magneto, ritroviamo forse il simbolo più evidente delle falle della gestione dello scozzese, il simbolo dell’ingerenza (inopportuna) di tensioni diverse dallo sforzo creativo (fra le altre, sembra, una spiccata differenza di vedute fra l’innovatore Morrison e Bill Jemas, allora presidente della Marvel, di spirito più conservatore).
Forse anche per questo, oltre che per garantire la sopravvivenza di due personaggi amati dal pubblico, alla Marvel si pensò di annullare la discutibile scelta dello sceneggiatore in merito alla coppia Xorn/Magneto, aggiungendo a un iniziale errore di “superbia letteraria” un secondo e forse peggiore errore: scarso coraggio nel supportare i propri autori.
Ai disegni
Con un personaggio ingombrante come Morrison ai testi, verrebbe quasi da non parlare dell’aspetto grafico della serie. Ma il parco di artisti scelti dalla Casa delle Idee conta nomi importanti, pur con esiti altalenanti, sicché e necessario farvi cenno.
A rompere il ghiaccio, in E per eXtinzione, il tratto pulito, pop e personale di Frank Quitely, che a conti fatti rimane il disegnatore più convincente dell’intera saga. I suoi X-Men sono scolpiti su sfondi che mostrano il minimo necessario per caratterizzarsi e spesso si riducono a campi uniformi di colore. I corpi dei protagonisti appaiono slanciati, con busti piccoli e gambe lunghe. Scott Summers, in particolare, estremizza la verticalità fin quasi a ricordare una scultura di Giacometti. È tutto molto chiaro, ovvero sia intellegibile, anche nelle tavole più dinamiche, sia programmaticamente privo di ombre. Con un tratto così piacevole, si riesce a perdonare l’incredibile somiglianza di Jean Grey ed Emma Frost, talmente sfacciata che si potrebbe ipotizzare sia nata dalla necessità di rendere in maniera visiva i dubbi sentimentali di Summers (questo se ci si rifiutasse di ammettere quanto i lineamenti dello stesso Quitely ricalchino quelli delle sue creazioni, come d’altronde accade alla maggior parte dei disegnatori). La sua Bestia sembra proprio quello che aveva in mente Morrison per il personaggio: un essere deforme che incute timore, non ha nulla del precedente e innocuo orsacchiottone blu e in azione ricorda un leone più che un uomo. Wolverine nella sua interpretazione è, a seconda dei casi, cattivo o ribelle senza lasciare spazio alla versione “educata” che (troppi) altri disegnatori hanno dato di lui. Dulcis in fundo, davvero affascinante la sua caratterizzazione della forma fantasmatica di Cassandra Nova, con quella miriade di braccia e la bocca aperta in agguato.Buona la prova di Leinil Francis Yu nell’annual L’uomo dalla stanza X, con un bell’utilizzo della pagina doppia che regala momenti spettacolari, pur rispettando la sua tradizionale economia di tratteggio e le sue figure squadrate.
Ethan Van Sciver è curiosamente incostante: a sequenze con un notevole livello di dettaglio alterna momenti in cui le fisionomie allungate sembrano adesivi giustapposti senza coerenza con l’ambientazione, o infrangono regole di prospettiva distorcendo i lineamenti dei personaggi. Degno di nota: il cattivissimo Xavier posseduto da Cassandra Nova nel numero 117, horror come doveva essere, che compensa la deludente scena del bacio fra Logan e Jean.
Igor Kordey ha una disposizione nelle tavole simile a Van Sciver, ma le sue figure sono più integrate negli sfondi e c’è un interessante effetto grandangolo che rende attraenti le sue splash page. Vero, comunque, che alcune sue vignette (complice, nel 2001 e 2002, un contemporaneo impegno su altre serie) appaiono tirate via e qualche volto (Ciclope e Logan soprattutto) sembra superstite da un trattamento imbruttente che si eviterebbe volentieri. Difficile non citare, nel suo caso, l’immagine torbida e cattiva, in ultima pagina del numero 128, che ritrae “zia” Emma Frost a gambe larghe, in penombra, con un ghigno soddisfatto, durante uno dei suoi colloqui telepatici con Scott Summers.
John Paul Leon, nella bella On living and dying, ha un convincente tratto noir tutto ombre che ricorda Sean Phillips.
Chris Bachalo appare più cartoon e meno efficace o atmosferico di quanto visto altrove, soprattutto a partire dall’incursione in The World, per le cui ambientazioni pulisce un po’ troppo le linee. Le sue fisionomie deformate andrebbero bene per una storia ironica, ma poco si adattano all’action puro. Forse, verrebbe da dire, la sua prova è quella che meno si conforma all’etica narrativa di Morrison.
Phil Jimenez convince con il suo tratto classico, misurato, impreziosito da linee sottili che dettagliano i bordi e danno tridimensionalità alle figure. La sua regia, priva di soluzioni estrose, sa colpire nelle vignette più grandi, dove amplifica l’apertura usando un efficace doppio piano aiutato dalla colorazione, che per la figura principale sfrutta colori chiari e per le sagome sullo sfondo usa caldi toni scuri e uniformi, mantenendo al contempo un altissimo livello di dettaglio e un’ottima intelligibilità d’assieme.
A Marc Silvestri tocca il mondo futuro dei numeri conclusivi, e lo tratteggia con il suo stile piacevole ma innocuo, la cui trama dettagliata si rivela troppo piena di elementi trascurabili e distraenti, che paiono vezzi costruiti per spettacolarizzare (senza riuscirci) le scene, incorniciando le fisionomie. Queste ultime, per altro, hanno una tale uniformità di base da far pensare a un’invasione di cloni non limitata ai Crawler di Sublime, ma estesa a tutto il pianeta.
Fare fumetti
Il New X-Men di Morrison è talmente denso di spunti da rappresentare quasi un’esplorazione del fare fumetti.
C’è l’intreccio riuscito, compaiono dinamiche emozionali interessanti, l’entusiasmo iniziale che determina lo stacco rispetto al passato, motore essenziale per le storie presenti e future.
Ma lo scozzese ricade anche negli errori opposti: contaminare la storia con critiche meta-fumettistiche si è rivelata una scelta involuta che non ha pagato (in primis in termini di qualità della storia stessa); ostinarsi a presentare una variabilità di soluzioni narrative è stata una gabbia più che un motivo di reale interesse.
Onori e colpe, insomma, per un’opera che di sicuro è bene leggere e che a tratti sa entusiasmare, ma che non riesce ad arrivare al capolavoro. Se si aggiunge la gestione successiva della Marvel, e la marcia indietro su alcuni degli elementi fondamentali, ecco che abbiamo un quadro compiuto sulle dinamiche e i vincoli del fumetto mainstream, americano e non.
Abbiamo parlato di:
New X-Men #114-154
Grant Morrison, Frank Quitely, Leinil Francis Yu, Ethan Van Sciver, Igor Kordey, John Paul Leon, Chris Bachalo, Phil Jimenez, Marc Silvestri
Marvel Comics, Luglio 2001 – Maggio 2004
In Italia:
100% Marvel Best: E come Extinzione, Imperiale, I nuovi mondi, Rivolta mutante, Pianeta X
brossurato, colore
Panini Comics, 2007-2010
fiocotram
3 Ottobre 2013 a 23:42
Innanzitutto, complimenti Vittorio per la tua analisi e perdonami se ti tedierò un po’ con qualche riflessione aggiuntiva stimolata da alcuni tuoi punti.
Partiamo dall’inizio. Io trovai toccanti certi dialoghi iniziali nel post-mattanza. E’ importante dire che Morrison fu accusato di cinismo e cattivo gusto mentre li metteva in scena. Io la penso diversamente: la screanzata ironia della Bestia sui cadaveri, la frase al tempo stesso stizzita e commovente di Emma Frost al soccorritore, rivolta alla salma di Testata Mutante Negasonica: “E allora resuscitala brutto idiota”, sono nitide immersioni nel reale. La mente umana non riesce a reggere all’orrore. E allora si aggrappa a pose, a comportamenti codificati, per tentare di nascondere fragilità e spavento. E’ una cosa che, come lettore, ha reso il costruito e fantasioso (sebbene profetico-anticipatore del reale) genocidio di Genosha impossibile da dimenticare. Mi ha restituito lo stesso misto tra imbarazzo, orrore, goffagine, che provano le persone vere di fronte a queste cose. Non a caso due delle battute iniziali che preferisco vengono messe in bocca proprio ai personaggi che considero un po’ il simbolo del primo nucleo di storie, Hank ed Emma.
Notare anche come la sinergia tra Quitely e Morrison palesi certe cose più di mille parole in modo simile a come le pose parlavano dei personaggi in All Star Superman. Vedi ad esempio La distanza JeanScott percepita da lei che cerca il suo contatto e lui che sta in piedi perfino in stanza da solo con lei, a letto.
Il concetto di missione supereroistica-ONG mi piace da matti (è un’idea che ha ripreso anche per Batman, no?). Ai tempi in cui leggevo gli X-men ero impegnato in associazioni. Da adolescente lettore dei pamphlet antirazzisti di Claremont, avevo cominciato a ragionare sulla mia idea di mondo cercando alleanze e contaminazioni per avvicinarmici almeno un po’. Nel leggere gli X-men di Morrison non ho visto una semplice consolazione-rievocazione del me stesso passato, ma una crescita che procedeva insieme con me. Io mi impegnavo nel reale e nella finzione anche gli X-men tentavano di espandere la loro missione verso logiche umanitarie. La cosa mi emozionava perché sentivo per la prima volta dopo anni i miei fumetti “vicini” e armonizzati con la mia vita, esattamente come quelli di Claremont lo erano col me stesso adolescente.
>Se lì vediamo l’affetto permeare eventi e personaggi, qui l’approccio è in generale >più freddo e i comprimari appaiono più pedine che esseri viventi.
Qui siamo in totale disaccordo purtroppo. Sono d’accordo sul fatto che l’approccio di Whedon e le sue pungenti caratterizzazioni giocate su siparietti e dialoghi possano sembrare più attraenti… ma l’apparente freddezza di Morrison cela un calore inaspettato che si rivela nei dettagli, nel modo in cui costruisce i personaggi della saga, tutt’altro che freddo. X’orneto prima di essere una dimostrazione di una tesi è uno sconosciuto che riesce davvero a carpire in poco tempo la fiducia dei compagni…gli sgraziati new mutants della scuola sono ritratti indimenticabili della nostra stessa goffagine adolescenziale…i dialoghi, ripeto, talvolta struggenti di Hank ed Emma che urlano al lettore tutta la loro verosimiglianza e umanità…E’ tutto molto strano, è vero, intriso di esibito cinismo, venato di momenti quasi cronenberghiani… ma è un po’ come i glaciali vestiti di Emma, che al loro interno celano uno dei personaggi meglio trattati dell’epopea x.
>(a portarlo avanti benissimo penserà lo stesso Whedon)
Direi che si trova la strada ampiamente spianata…
>È impossibile scalfirlo. La qual cosa alla lunga rende anche lui, come Sublime, un non-personaggio.
Il percorso di Xavier è la consapevolezza di aver sbagliato, l’essere messo di fronte a Cassandra che è l’ultima riedizione del suo lato oscuro (si veda Onslaught), la volontà di prendere il suo credo e adattarlo ai tempi. Io credo che rimanga duramente scalfito dalla strage compiuta dalla sorella e da tutto quello che succede a Quentin e soci. Riesce al tempo stesso a rimanere defilato rispetto agli exstudenti che prendono le redini della scuola e ad essere un padre su cui contare. Infine ci sono le divertenti sfumature caratteriali nei dialoghi: “Jean, dammi la sedia!” “Questo tono con me non funziona, non sono Scott” “Hank, dammi la sedia!”.
Sublime è un nonpersonaggio proprio perché è l’incarnazione di un concetto, una filosofia antitetica (conservazione) a quello che Morrison tenta di mettere in scena nella molteplicità dei personaggi (ossia l’energia di gioventù e cambiamento).
Anche gli “irrisolti”dubbi di Ciclope in realtà si risolvono nella consapevolezza di essere umano e distante da Jean, esattamente come Jean attraverso tradimento e perdono capisce di essere ormai divenuta un’entità di supremo amore universale. Jean era all’inizio di un percorso di elevazione, lo stesso percorso che Ciclope, partito come freddo e introverso guerriero, fa invece verso la condivisione vera con un proprio simile, cosa che Jean non era più almeno dai tempi di Claremont.
Insomma io vedo tanti percorsi individuali, tante crescite.
Ma, in generale, credo che l’intera saga sia una rappresentazione degli elementi più cristallizzati del mito X-men e delle sue opportunità di crescita. Quello che per alcuni è un limite per me è un pregio. C’erano impalcature infinite da creare a partire dagli spunti morrisoniani, a partire dai mutanti più giovani che altri scrittori hanno poi trattato con risultati più ordinari, all’interno di un modo di descrivere il mondo e la società (il concetto di coolness mutante, per esempio) che dava l’opportunità di usare gli X-men nuovamente come opportunità per descrivere le nevrosi della società del nuovo millennio, esattamente come 11 anni di storie Claremontiane erano riuscite a fare e che l’autoreferenzialità di questi anni ci ha tolto.
Vittorio Rainone
6 Ottobre 2013 a 11:05
Ciao Marco, grazie del commentone!
Per le reazioni post-Genosha, sono assolutamente d’accordo su quanto fosse azzeccata la reazione di Emma (che fin dall’inizio è stato il personaggio meglio gestito da Morrison). Sulle parole di Hank, invece, ho qualche dubbio: capisco l’intento (l’ironia che cerca di cancellare l’orrore) ma al contempo la scena del genocidio mi sembrava troppo apocalittica per permettere parole simili.
E’ piaciuta molto anche a me l’idea di X-Corporation (tra l’altro un buon modo per usare gli n mila mutanti a disposizione).
Per quanto riguarda la gestione “fredda”, non so: secondo me Morrison ha centrato molto bene i personaggi, le sue definizioni dei protagonisti sono azzeccate (il suo Wolverine, per dirne una, pur nella sua “staticità”, è proprio quello che mi aspetterei dal personaggio, al contrario del Wolverine di Whedon che non mi ha convinto). Ma l’impressione che ho avuto è Morrison che si “limitasse” a far succedere loro cose (anche interessanti o importanti), non dimostrandoci davvero le conseguenze interne agli eventi.
Per Xavier, è vero, verissimo, che l’evento Cassandra è una durissima prova nei confronti di se stesso, ma il fatto che si mantenga comunque defilato assottiglia le conseguenze del confronto. Mi sarebbe piaciuto entrare di più nella testa del professor X. E’ stato, secondo me (anche per le condizioni in cui Morrison stesso lo aveva messo durante lo scontro, ovvio), un po’ troppo lontano da una battaglia che invece avrebbe potuto vederlo in prima linea.
Per quanto riguarda Scott: i suoi dubbi li ho visti ben presenti fin dall’inizio, la realizzazione della distanza da Jean è presente fin dal primo colloquio con Emma. (E Jean, per altro, è “aliena” fin da quando i poteri di Fenice si manifestano. Lo è con il suo comportamento, la sua tranquillità o anche con gli sporadici scatti d’ira incontrollabile.) Scott secondo me si muove poco, e in parte la cosa è coerente con una dinamica psicologica che, nel mondo reale, è di norma tutt’altro che veloce. Mi è comunque rimasta l’idea che a fine viaggio la vittoria di Scott sia stata solo la vittoria delle due donne intorno a lui. E che mi sarebbe piaciuto vedere qualcosa venire davvero da lui: in quel caso avrei percepito il percorso e la crescita, mentre in questo modo mi sembra di percepire solo l’inizio della crescita. In Astonishing, almeno, è riuscito in prima persona a dire “ti amo” ad Emma. Lì è stata davvero una cosa che ha deciso lui.
Anche la Bestia, che inizia il suo percorso di “devoluzione”, ha dei momenti carini (ed emotivamente intensi) ma non mi è sembrato spostarsi dal suo tradizionale equilibrio interno. A una notizia del genere, mi sono chiesto, come avrei reagito? Se mi dicono che mi sto trasformando in un submano, che faccio? Francamente mi sarebbe sembrata più verosimile una chiusura in me stesso, anche violenta, magari poi controbilanciata da un faticoso percorso di ritorno agli altri. Ma non è successo, in New X-Men: un po’, forse, perchè la carne al fuoco era tanta. Un po’ perchè il ruolo della bestia, sembrava programmaticamente defilato (e non solo per Morrison: anche per Whedon o in altre X-storie che mi è capitato di leggere negli ultimi anni). Ed è un peccato non dargli la possibilità di rubare la scena (e al contempo tirar fuori cose poco utili come assalto a Weapon X o Omicidio alla X-Mansion)
Alla fine, in ogni caso, sono d’accordo su questa tua frase: ” credo che l’intera saga sia una rappresentazione degli elementi più cristallizzati del mito X-men e delle sue opportunità di crescita.” Vero: è un’ottima rappresentazione, con elementi che però (almeno per me) tendono a rimanere un po’ troppo cristallizzati. E soprattutto con una vista notevole sulle possibilità di crescita del contesto mutante.