Wonder Woman 1984, un sequel che arranca

Wonder Woman 1984, un sequel che arranca

La seconda iterazione cinematografica dell'Amazzone DC Comics traballa sotto il peso di una scrittura insufficiente e una resa tecnica insipida.

WW84_coverDopo il successo finanziario riscosso nel 2017 dal primo film su Wonder Woman, Warner Bros. e la regista Patty Jenkins offrono al pubblico un nuovo sguardo sulla vita e le avventure di Diana Prince, con un sequel, uscito negli USA in contemporanea nelle sale e sul servizio di streaming HBO Max, ambientato stavolta negli sfolgoranti anni ’80.

L’impatto iniziale con WW84 è invero molto positivo. La sequenza che apre la pellicola, un episodio dell’infanzia della protagonista, colpisce infatti per l’imponenza della messa in scena, con una regia efficiente, che riesce tanto a catturare il dinamismo della competizione tra le Amazzoni in corso di svolgimento, quanto a restituire la solennità e la grandiosità delle scenografie dell’isola di Themyscira. Il tutto è poi accompagnato dalla maestosa colonna sonora di Hans Zimmer che, mai come in questi primi minuti, riesce a essere incredibilmente evocativa. Se i titoli di coda sopraggiungessero in questo momento, allora si potrebbe dire, senza troppe remore, di aver assistito a un prodotto valido. Eccezionalmente breve, magari, ma nondimeno ben confezionato e sicuramente intenso. Sfortunatamente, ciò che accade è che l’azione si sposta nel presente, il titolo del film fa la sua comparsa sullo schermo e scene di vita quotidiana per le strade di Washington D.C. sono solo il preavviso di altre due ore e venti di assoluta mediocrità.

La maggioranza dei problemi di Wonder Woman 1984 risiede nella sceneggiatura. A livello di scrittura, infatti, questo è un film fondamentalmente sbagliato, afflitto da una tale moltitudine di errori e infrazioni delle più basilari regole dello storytelling da lasciare confusi e basiti.

Ma andiamo con ordine e cominciamo proprio dalla principessa amazzone che dà il titolo al film, interpretata da Gal Gadot, che si trova di nuovo a dividere le luci dei riflettori con un redivivo Steve Trevor (Chris Pine). Sul personaggio di Diana, in sé e per sé, non ci sono in realtà particolari riserve; ancora una volta, la magnetica presenza scenica dell’attrice israeliana e il suo ormai comprovato phisique du role risultano vincenti e riescono a compensare per doti attoriali che, bisogna dirlo, non sono mai state esattamente memorabili. Inoltre l’alchimia che lei e Steve riescono a portare sullo schermo è piuttosto efficace, portando anche a diversi momenti divertenti. Le prime crepe sorgono quando ci si sofferma ad analizzare il rapporto tra i due.

Inizialmente Diana viene dipinta come una donna distante, quasi apatica, come conseguenza del non essere mai riuscita a superare del tutto la morte del suo amato, avvenuta nel film precedente, e il fulcro del suo processo di evoluzione è il conflitto interiore che si trova a dover affrontare, tra la felicità di poterlo riabbracciare e la necessità di rinunciarvi nuovamente in virtù di un bene superiore. Una non troppo sottile metafora dell’elaborazione del lutto e dell’importanza dell’accettazione per poter proseguire la propria vita con serenità. Sulla carta, è un espediente che funziona e che potenzialmente offre ghiotte occasioni di introspezione, se non fosse che viene minato da un paio di grossolani strafalcioni.

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Il primo di questi è proprio il personaggio di Steve Trevor. A onor del vero, definirlo “personaggio” suona di per sé un tantino esagerato, dal momento che il suo ruolo è più quello di un feticcio, un mero strumento narrativo utile solamente a fare da catalizzatore per la crescita interiore della protagonista. Non ha altri tratti di personalità, a parte il provare stupore per la moda o le innovazioni tecnologiche degli anni ’80; non ha il benché minimo arco narrativo, ha un ruolo passivo per la maggioranza del suo screentime, salvo marginali occasioni in cui aiuta Wonder Woman nelle scene d’azione, che comunque non hanno una significativa incidenza sugli avvenimenti. In pratica, il film vorrebbe che il pubblico si sentisse coinvolto dal conflitto interiore di Diana e dai sentimenti da lei provati nei confronti di Steve. Ciò però non accade, perché quest’ultimo è del tutto privo di una caratterizzazione adeguata a guadagnarsi l’empatia degli spettatori e, in definitiva, a questi non viene fornita alcuna ragione per la quale dovrebbe importargli delle sue sorti.

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C’è però anche un altro elemento che contribuisce ad annullare il coinvolgimento nelle dinamiche tra i due protagonisti e ha a che fare con il modo in cui Steve torna dalla terra dei morti. Ora, è piuttosto complicato spiegare questo punto senza fare spoiler, ma basti sapere che la particolare modalità del suo ritorno ha delle implicazioni palesemente immorali o, quantomeno, che identificano la permanenza di Steve nel presente come la cosa sbagliata (e dove, volendo dilettarsi in tecnicismi, ci sono addirittura ragioni concrete per interrogarsi se sussistano gli estremi di una condotta platealmente immorale, perpetrata proprio da Diana, come diretta conseguenza di tale risvolto narrativo).
Implicazioni che Wonder Woman, in virtù dell’irreprensibile integrità morale che è caratteristica fondante del personaggio, molto difficilmente accetterebbe con leggerezza. Il problema è che questa questione viene completamente snobbata per tutta la durata del film e citata al massimo in veloci accenni
, con estrema noncuranza, preferendo spostare l’attenzione su una più immediata motivazione di carattere narrativo, per giustificare la necessità che Steve rinunci alla sua seconda vita. Questo purtroppo crea una persistente e fastidiosa dissonanza cognitiva, che accompagna lo spettatore per quasi tutta la durata della pellicola e che affossa la credibilità di tutti quei momenti in cui Diana si interroga su quale sia la cosa giusta da fare.

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Ma non di soli eroi vive un cinefumetto. Tra gli antagonisti figurano l’istrionico uomo d’affari Maxwell Lord e la sfuggente donna ghepardo Cheetah.
Il primo, interpretato da Pedro Pascal, è il villain principale e si rivela essere in realtà l’elemento più riuscito di tutto il film, dato che, una volta tanto, può godere di una scrittura efficace. Nel processo di caratterizzazione, infatti, gli autori hanno deciso di fare leva sulla caratteristica che più di ogni altra ha rilevanza nella costruzione di un buon cattivo: la sua umanità. Accecato dal desiderio di rivalsa nei confronti di una vita che gli ha portato solo dolore e delusioni, è pronto a innescare una febbrile escalation di caos e follia, arrivando anche a trascurare inconsapevolmente gli affetti più cari, pur di raggiungere un ideale di grandezza che non è però mai sufficiente a colmare il vuoto che si porta dentro. Una parabola drammatica, che affonda le sue radici negli istinti e nelle vulnerabilità proprie dell’essere umano e che pertanto risulta perfettamente comprensibile dal pubblico e ne favorisce l’immedesimazione. Peraltro, una grossa menzione di merito va all’interpretazione di Pascal, decisamente azzeccata, tanto nel trasmettere l’esuberanza sopra le righe dell’uomo d’affari dalla parlantina spigliata, fatta di gestualità teatrale e smorfie accentuate, quanto lo sconforto del padre abbattuto, nei momenti in cui maggiormente viene a galla la sua intimità.

L’unico piccolo appunto lo si potrebbe muovere al modo in cui viene presentata la relazione tra lui e Wonder Woman, la quale appare piuttosto impersonale. Certo, è perfettamente sensato che l’eroina agisca spinta solamente dall’altruistico desiderio di salvare il mondo dal cattivone che intende nuocergli. Tuttavia, da un punto di vista dello storytellng, avrebbe giovato enormemente al coinvolgimento emotivo se gli sceneggiatori si fossero preoccupati di stabilire un legame più stretto tra i due, a livello di rapporto personale, dando ai loro rispettivi archi narrativi maggiori punti di contatto, magari fornendo a Diana ragioni più personali per volerlo fermare o inquadrando il conflitto anche su un piano ideologico, oltre che fisico.

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Molto meno memorabile è purtroppo il personaggio di Barbara Minerva, alias Cheetah, interpretata da Kristen Wiig. Anche in questo caso è apprezzabile la prova attoriale dell’attrice, perfettamente a suo agio nella parte della scienziata insicura e impacciata, ma il personaggio in sé finisce per risultare oltremodo piatto. Il motivo è da ricercarsi, oltre che in una caratterizzazione un po’ troppo stereotipata e macchiettistica, nello sviluppo del suo arco narrativo e, più precisamente, nel modo in cui viene proposta la sua evoluzione -psicologica prima che fisica- nel corso del film, fino alla definitiva trasformazione nella ferale criminale maculata. Questa, infatti, non scaturisce da un percorso interiore, non è legata a motivazioni personali che possano suscitare l’empatia di chi guarda, ma viene arbitrariamente imposta su Barbara da fattori esterni. ciò demolisce inevitabilmente qualunque potenzialità di introspezione o di costruzione di una psicologia sfaccettata che il personaggio potesse inizialmente avere, finendo per omologarlo alla schiera di dimenticabili villain da cinefumetto usa e getta. La sensazione che rimane è letteralmente quella che Cheetah sia stata inserita in WW84 solamente perché c’era bisogno di un “miniboss” da mettere sulla strada della protagonista prima del climax finale.

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C’è poi un’altra grossolana leggerezza di scrittura che concorre alla generale miseria che è la sceneggiatura di WW84 e si tratta della brutta abitudine che ha il film di adottare soluzioni estemporanee, di comodo, per far progredire la narrazione. C’è bisogno di sfuggire a velivoli dotati di radar? Diana tira fuori un nuovo potere, mai menzionato prima e mai più menzionato in seguito, utile proprio a risolvere la situazione. C’è bisogno di alzare l’asticella della minaccia rappresentata da Maxwell Lord? Il villain apprende convenientemente dell’esistenza di una nuova, incredibile risorsa, senza che questa sia stata adeguatamente introdotta precedentemente e giustificandone l’utilizzo con spiegazioni pseudoscientifiche al limite del grottesco, che fa proprio al caso suo. C’è bisogno di vendere più action figure? Diana ha pronta una nuova, scintillante armatura dorata, il cui pretesto per venire indossata dall’eroina è un parallelismo molto labile e poco credibile con una valorosa guerriera amazzone del passato.
Queste sono solo alcune istanze ma il film è pieno di momenti del genere e le cose si fanno particolarmente drammatiche nel terzo atto, dove il film arriva perfino a contravvenire alle stesse regole che ha stabilito fino a quel momento, in merito al funzionamento delle abilità del cattivo, e a inventarne arbitrariamente di nuove per mera convenienza.

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Il versante tecnico non offre maggiori stimoli. La regia, dopo la prova dignitosa del prologo, si adagia su uno standard anonimo, da mestierante, e si dimostra particolarmente impacciata nelle scene d’azione, dove peraltro il disprezzo per le leggi della fisica è tale da mettere a dura prova la sospensione dell’incredulità, perfino per un film di supereroi. La fotografia si uniforma al modello sdoganato dai Marvel Studios per questo genere di produzioni, saturando al massimo i colori per ottenere un look sgargiante e patinato. Un impatto visivo sicuramente calzante per il tipo di produzione ma che oramai, per qualcuno assuefatto ai blockbuster supereroistici, appare ridondante e stucchevole. Anche la CGI impiegata ricade appieno nello standard, offrendo in egual modo effetti visivi convincenti e altri decisamente più incerti (la resa visiva di Cheetah si annovera tra questi ultimi, ad esempio). Sono sempre una garanzia le musiche di Hans Zimmer, imponenti e incalzanti, sebbene bisogna riconoscere che non ripropongono mai gli stessi livelli di suggestività e concordanza con l’azione a schermo dimostrati nella scena d’apertura.

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Così si presenta al pubblico la seconda performance cinematografica della supereroina più famosa dell’universo DC Comics e dell’industria fumettistica tutta: come un prodotto raffazzonato, affossato da una scrittura pigra e visibilmente affrettata, che sembra quasi adottare deliberatamente ogni possibile espediente per alienare gli spettatori. A questo punto, con un terzo film già nei piani di Warner Bros., si può solo sperare che quanto fatto con WW84 sia stato solo un incidente di percorso da nascondere sotto il tappeto e confidare che la regista sappia imparare dai propri errori.

Abbiamo parlato di:
Wonder Woman 1984
Warner Bros.
Regia di Patty Jenkins
Storia di Patty Jenkins e Geoff Johns
Live action, 2020, 151 minuti

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