In occasione dell’uscita del loro nuovo volume Slobo & Golem, abbiamo contattato i due autori Emiliano Pagani e Daniele Caluri, creatori del generazionale e iconico Don Zauker e del più recente Nirvana. Una lunga intervista in cui spicca e si percepisce, oltre ad una profonda intelligenza, la loro genuinità e una sincerità disarmante.
Emiliano Pagani nasce a Livorno il 30 dicembre 1969 e ritiene che questa sia già un’interessantissima e invidiabilissima nota biografica. Per 25 autore di punta del Vernacoliere. Insieme a Daniele Caluri crea e produce i volumi di Don Zauker, vincitore di numerosi premi nazionali (4 Micheluzzi) e tradotto anche in francese e spagnolo, di cui è autore dei soggetti e sceneggiatore. Crea e scrive due volumi di Xnerd per DubleShot e 001 Edizioni, insieme a Luca Montagliani. Sempre insieme a Daniele Caluri, collabora per anni con la rivista Il Mucchio, con la rubrica Domvs Bokassa. Vincitori del Premio Satira Politica di Forte dei Marmi. Collaboratore de Il Male di Vauro e Vincino. Sceneggiatore Sergio Bonelli Editore per alcuni albi di Dylan Dog. Con Daniele Caluri ha creato la serie Nirvana, per Panini Comics (due stagioni per un totale di 14 numeri) e una serie di Spin Off Nirvana Leaks, iniziata con Slobo & Golem. È al lavoro per un volume in uscita per Tunuè, realizzato insieme a Bruno Cannucciari. È inoltre famoso sui social per i remake di locandine cinematografiche e musicali con protagonista la sua gatta Tombola.
Daniele Caluri è nato a Livorno il 26 gennaio 1971. Ha iniziato a pubblicare a 14 anni per il mensile satirico “Il Vernacoliere”, per il quale, a partire dagli anni ’90, crea le serie umoristiche di Fava di Lesso, Luana la Bebisìtter, Nedo, che lo pongono all’attenzione del grande pubblico. Nel 2003, sempre per il Vernacoliere e insieme allo sceneggiatore Emiliano Pagani, comincia a pubblicare Don Zauker, esorcista, la serie che ha raggiunto la maggior notorietà, e che in Italia diventa presto un caso editoriale, di séguito tradotto e pubblicato anche in Francia, Belgio, Spagna e Canada. Dal 2003 Caluri comincia la sua collaborazione anche con la Sergio Bonelli Editore come disegnatore di Martin Mystère e Dylan Dog, oltre che della collana Le storie. Nel 2007 ha pubblicato per Adonis/Glénat e su sceneggiatura di Frédéric Brémaud, l’adattamento a fumetti del Michel Strogoff di Jules Verne, destinato al mercato franco-belga. Nel 2008 è selezionato insieme ad altri noti fumettisti per illustrare l’Art.3 del volume La Costituzione illustrata. Nello stesso anno realizza il manifesto della kermesse musicale di ItaliaWave. Nel 2011, per la Panini Comics, crea insieme a Emiliano Pagani la miniserie umoristica Nirvana, distribuita nelle edicole di tutta Italia e conclusa nel 2015. Nel 2012, sempre su testi di Pagani, crea il personaggio di Mircone, pubblicato su Il Male di Vauro e Vincino. Nel 2013 la Panini gli affida l’illustrazione di una variant cover per un albo degli Avengers, realizzato per la Marvel. Nel 2016 dà vita alla collana parallela NirvanaLeaks, una serie di spin-off di Nirvana, primo dei quali è Slobo & Golem, sempre per PaniniComics. È docente di Disegno e Storia dell’arte per la Scuola Secondaria Superiore. È anche docente, insieme ad Alberto Pagliaro, del Corso di Fumetto della Fondazione Trossi-Uberti, a Livorno.
Ciao ragazzi e grazie per aver accettato di partecipare a questa intervista. Partiamo: Slobo e Golem, la vostra più recente produzione (insieme a Bruno Cannucciari). Da dove è nata l’idea di dedicare un volume intero alle avventure dei due Killer e come avete poi deciso di sviluppare la storia?
L’idea è venuta durante Lucca Comics 2015 quando, ad alcuni mesi dalla conclusione di Nirvana, ci siamo trovati di fronte a numerosi lettori che avevano scoperto il fumetto a serie conclusa, grazie alle raccolte pubblicate da Panini e al passaparola, e ci chiedevano di continuare. Naturalmente la cosa era fuori discussione, perché pensiamo sempre che ogni cosa debba avere un inizio e una fine e Nirvana era arrivato alla sua naturale conclusione.
Però Nirvana era un fumetto corale, per realizzare il quale avevamo creato, caratterizzandoli, un’ampia serie di personaggi che si erano radicati nell’immaginario dei lettori (e anche nel nostro). Fra questi, in particolare, Slobo & Golem, i due sicari al soldo del boss Occhionero Ronson. Le caratterizzazioni che avevamo dato loro ci hanno permesso di costruire dialoghi e situazioni che ci hanno fatto divertire un sacco, e allora ci siamo chiesti: perché non realizzare uno spin off su di loro? Lo abbiamo proposto a Diego Malara, il nostro editor in Panini, che ha accettato fin da subito e con entusiasmo. Poi c’è presa bene, e abbiamo proposto di riprendere il discorso con altri spin off dedicati almeno ai personaggi principali, realizzando storie che possano andare a riallacciarsi alla trama principale ma che siano anche godibili da parte di chi Nirvana non lo ha mai letto.
Il volume sembra essere stato accolto molto bene dal pubblico. Pensate possano esserci nuovi volumi o preferite magari dedicarvi a sviluppare in modo più ampio qualche altro personaggio di Nirvana?
Sì, il volume è stato accolto davvero molto bene e di questo siamo contentissimi. Non era per niente scontato, perché – come ha sottolineato anche Francesco Artibani – è un qualcosa che in Italia non esiste, come del resto lo era, fin dalle intenzioni, anche l’intera serie di Nirvana. Nonostante questo e nonostante i personaggi di Slobo e Golem si prestino particolarmente bene ad una serializzazione, non pensiamo di continuare con altri volumi a loro dedicati.
Ci piace da sempre cambiare, evolvere, rischiare, anche – anzi, soprattutto – quando le cose vanno bene. L’adagiarsi su cose che hanno avuto una buona riuscita è conveniente, ma rischia di creare apatia e appiattimento per mancanza di stimoli. In noi e, di conseguenza, nei lettori. Realizzeremo, al contrario, altri spin off di altri personaggi (il prossimo sarà l’ispettore Buddha), comunque collegati alla narrazione sviluppata nella miniserie regolare, e con l’intento di farli tutti diversi uno dall’altro, a seconda del personaggio che andremo ad affrontare. Quello dell’Ippopotamo Stefano, ad esempio, ci piacerebbe farlo completamente muto e con una grafica per bambini, per dire.
Si dice che Nirvana ha avuto una vita editoriale piuttosto travagliata, ma alla fine ha raggiunto il non indifferente traguardo di due stagioni e un omnibus. Quanto vi sentite legati a questo progetto e quanto c’è di vero in queste voci?
In realtà la vita editoriale di Nirvana non è stata granché travagliata: eravamo partiti con l’idea di fare una miniserie composta da sei albi e, quando siamo giunti in dirittura di arrivo, ci è stato chiesto di continuare con una seconda stagione, visto che il fumetto stava andando molto bene. Non avendola preventivata prima, ci siamo ritrovati a dover prendere un po’ di tempo per poterla concepire in modo organico con la precedente e stare al passo con le consegne, e questo ha portato alla necessità di far passare alcuni mesi tra la fine della prima stagione e l’inizio della seconda. Questa scelta obbligata ci ha penalizzato in fatto di visibilità. Questa, e il fatto che ci ostinavamo in maniera snobistica a non voler essere presenti su Facebook, dove invece altri, magari con una storia e una produzione molto minore rispetto alla nostra, avevano comunque un seguito e una diffusione mediatica molto maggiori (che poi non sempre si traduceva in numeri, ok, ma che intanto fa).
Siamo comunque arrivati agilmente alla fine della seconda stagione e abbiamo concluso la serie con due episodi extra. Poi, grazie alle raccolte realizzate da Panini, e anche grazie al fatto che nel frattempo ci siamo ravveduti e abbiamo costruito una nostra presenza anche su Facebook (sì, sappiamo che è triste, ma è la verità) in tantissimi hanno riscoperto Nirvana e da qui la nuova ondata di lettori di cui parlavamo nella risposta alla prima domanda. Per quanto ci riguarda, siamo molto legati a Nirvana, perché con questa miniserie abbiamo affrontato alcune convenzioni che ci rimangono indigeste, a costo di sfidare il pubblico. Non ha un vero e proprio personaggio principale (a partire dalla testata stessa), come è tradizionalmente più gradito ai lettori; si propone graficamente come pupazzettistica e innocente, e in realtà presenta vicende grottesche, violente e ferocissime, oltre che un linguaggio libero; non si preoccupa di urtare le sensibilità – religiose, politiche, di genere, di buon gusto, di fede in senso lato – dei lettori; non ha un solo personaggio positivo; per dirne alcune.
Abbiamo dato uno scossone ai lettori: qualcuno è rimasto turbato e ci ha mandato a fare in culo, com’era ampiamente in programma, altri hanno retto la botta, hanno apprezzato i vari livelli di lettura, hanno gioito della boccata d’aria fresca che offrivamo loro e, man mano, si sono aggiunti alle schiere di lettori affezionati. Per questo e molto altro ne siamo parecchio orgogliosi. Nirvana ci ha anche permesso di lavorare con un grande editore come Panini, che ci ha dato modo di portare il nostro modo di fare fumetti di fronte ad un pubblico grandissimo in ogni parte d’Italia. Non era scontato per niente, e a nostro giudizio si è trattato di un grande passo avanti.
Personalmente all’inizio ho fatto fatica a legarmi a Ramiro. Pur essendo l’idea di base buona e i personaggi azzeccati, mi sembrava che vi muoveste “con il freno tirato”, cosa che invece non ho riscontrato in Slobo e Golem. Mancava quell’andare oltre che da sempre contraddistingue i vostri lavori. Una sensazione che si è però affievolita sempre di più e verso gli ultimi numeri era svanita. Era solo una mia sensazione o vi erano stati imposti dei limiti?
No, nessun limite, anzi. In Panini ci è stata data da subito carta bianchissima, spingendoci a fare quello che volevamo, non sapremo mai se per loro reale volontà o se per incoscienza. Se sulle prime è stata avvertita una specie di frenata non sappiamo cosa dire, dal momento che già nella seconda pagina del primo numero compare una mezza bestemmia e da lì si prosegue con stupri, ammazzamenti, violenze da parte della polizia e prese per il culo. Per non parlare del secondo, con le scene del coniglietto e della fumetteria. Può darsi (la buttiamo lì come ipotesi) che ci stessimo involontariamente assestando in una dimensione – quella della serializzazione e della distribuzione su tutto il territorio nazionale – per noi nuova, e da capire al meglio. Che fosse difficile legarsi a Ramiro invece è vero. Ma è normale: Ramiro fa schifo, è un essere abietto e non è che in quanto vittima di due parti (tre, se contiamo anche la famiglia di Cristy, la sua ragazza) sia migliore dei suoi carnefici, anzi. Anche per questo il fumetto si chiama Nirvana, non Ramiro. Si tratta di un’opera corale, con molti personaggi che recitavano tutti insieme. Come dicevamo poc’anzi, anche rispetto all’’idea che una serie a fumetti debba basarsi su un personaggio forte al quale il lettore debba legarsi, abbiamo voluto rischiare e provare a rompere certi schemi.
Gli ultimi volumi di Don Zauker sono stati autoprodotti da voi e non hanno avuto neppure una distribuzione nelle fumetterie. Da cosa dipende questa decisione e non pensate di penalizzare il lettore e in un certo senso voi stessi?
Qui c’è da fare un discorso a parte. Dopo la pluridecennale esperienza sul Vernacoliere avevamo bisogno di cimentarci su un formato che avesse un respiro più ampio delle due pagine mensili. Proponemmo al direttore di produrci una storia di 46 pagine, in albo cartonato, ma non se la sentì di investirci, e rifiutò. Ma abbiamo creato Don Zauker come lettori, prima ancora che come autori, perché ci sentivamo orfani di un certo tipo di fumetto che, a nostro giudizio, mancava in Italia. E da orfani abbiamo continuato ad agire: a séguito del no del Vernacoliere, abbiamo deciso di autoprodurre Don Zauker – Santo Subito. Alla fine quel no è stato benefico, perché ci ha fatto sviluppare un’autocoscienza che ci ha permesso di muoverci nell’ambiente fumettistico italiano. A un certo punto ci siamo chiesti se non fosse possibile, oltre a scrivere e disegnare le nostre storie, seguire in autonomia anche la revisione delle bozze, l’impaginazione, la stampa e perfino la distribuzione –in pratica l’intero processo editoriale, comprensivo di comunicazione, saltando le figure intermedie (tipografi a parte, ovviamente). E ci siamo risposti di sì. In molti casi anche meglio di come avverrebbe con una casa editrice reale, quelle almeno di piccola-media caratura.
E per quanto possa sembrare lo spunto perfetto per una polemica, vi garantiamo che è il comune sentire di una marea di autori di fumetti italiani. Parlando in maniera schietta: un autore percepisce un fisso dalla sua casa editrice per la realizzazione di un albo (che varia a seconda dell’editore ma che, tolti i 2-3 più grandi, è una cifra abbastanza esigua, compensata con una percentuale sulle eventuali royalties degli albi venduti oltre una certa soglia. Soglia che però è quasi sempre difficilmente raggiungibile, se non sei Ortolani o Zerocalcare. Quindi, in tutta sostanza, se con quello che riusciamo a vendere da soli arriviamo non solo a coprire la stessa cifra, ma persino a superarla, tanto vale fare tutto per conto nostro, soprattutto di questi tempi in cui per valutare l’opportunità di pubblicare un prodotto hanno forse più peso i like su Facebook che non l’effettiva qualità del prodotto stesso. E lo facciamo rinunciando pure alla distribuzione perché tanto non sono le cinque copie in più vendute in una fumetteria che magari neanche espone il nostro fumetto, visto che spesso i posti sono tutti occupati dai grandi editori, a cambiare le cose.
La mancanza di una distribuzione in senso tradizionale è per noi dovuta ai costi esorbitanti che essa impone, e a cui cerchiamo di ovviare presenziando alle fiere più significative, durante le serate con il Don Zauker Talk Show e sullo shop online, andando di persona a spedire in tutta Italia gli albi acquistati. In questo modo, e per rispondere alla tua domanda, non ci penalizziamo affatto, se non forse in termini di visibilità e presenza nei punti vendita e anche nei siti di informazione, diciamolo. Però andiamo avanti lo stesso. Prima di tutto perché riusciamo perfettamente ad autofinanziarci, ma anche perché ci siamo resi conto che scollegando Don Zauker dalle logiche di produzione tradizionali, dalla serialità in funzione di un facile guadagno, dalla brama di esserci invece che dalla voglia di farlo (e dalla necessità di raccontare una determinata cosa), lo abbiamo reso un caso atipico, arricchendolo di significati che vanno oltre il suo essere un personaggio a fumetti. Un cane sciolto che fa un po’cosa gli pare, e che difficilmente tornerà indietro.
A proposito di produzione e autofinanziamenti: cosa ne pensate della ormai dilagante moda del crowdfunding e di tutti i nuovi metodi creati per raccogliere i fondi per poi pubblicare?
Mah, riguardo ai metodi di finanziamento alternativi abbiamo un’idea abbastanza sfumata, come le metodologie in questione. Non c’è niente di sbagliato, secondo noi, nell’ampia serie di formule di finanziamento dal basso. Ciò permette di trovare una soluzione al mancato interesse di un editore, o di accontentare un desiderio di totale autonomia di gestione del proprio lavoro, o chissà cos’altro. Ci viene, casomai, da riflettere su aspetti conseguenti. Primo: la strombazzatura mediatica che spesso accompagna questo tipo di operazioni gabellandole come autoproduzioni. E su questo siamo un pochino rigidi: autoproduzione per noi vuol dire realizzazione di uno o più albi per intero, vale a dire, come sopra scritto, ideando, scrivendo, disegnando, impaginando, pagandosi stampa e costi di distribuzione (fosse anche tramite la presenza alle fiere) e successivamente impegnarsi a venderlo. Tutte le altre formule non lo sono. Sono piuttosto una realizzazione in prevendita, o su prenotazione, ma non autoproduzione vera e propria. Spacciarla per tale da parte dei media (e succede sempre, con alcuni) è intellettualmente disonesto. Secondo: il proliferare dei vari metodi di finanziamento dal basso sono una delle conseguenze del venir meno, da parte di tante case editrici, al loro ruolo. Il discorso è abbastanza complesso e si rischia di banalizzare un fenomeno molto ampio.
Da un lato, editori che pubblicano a fronte di compensi bassissimi o basandosi unicamente sui like di Facebook, trascurando invece di valutare il reale valore di un’opera, dall’altro autori, neanche più esordienti, che accettano di lavorare a volte quasi gratis pur di vedersi pubblicati. Entrambe le parti, per noi, hanno responsabilità nell’alimentare questo sistema perverso. Terzo e ultimo: la trappola per gli esordienti. Il crowdfunding (e a maggior ragione l’autoproduzione totale, come facciamo noi) può dare l’illusione di scavalcare tutto il sistema e creare in autonomia. Ma questo può andar bene se un autore ha già alle spalle un’esperienza di anni e anni, magari con più realtà editoriali e anche un pubblico che lo segue e si fida di lui, non tanto se si è un giovane talento in cerca di una strada. Questo perché il progetto rischia di morire lì, nel circoletto degli amici che lo hanno finanziato. Senza contare che spesso il talento non basta. Serve anche il mestiere, serve qualcuno che legga, corregga, consigli etc… e una casa editrice che si rispetti (sottolineiamo: che si rispetti) fornisce effettivamente dei servizi, a partire dalla correzione delle bozze e dei contenuti, dalla revisione generale, alla comunicazione e così via che sono indispensabili e che difficilmente si sviluppano dal nulla.
Vi è mai stato chiesto da qualche grosso editore di ripubblicare l’intera saga del famoso Don?
Sì, certo che ci è stato chiesto. Più di una volta, a dire il vero. Ma, anche in forza a quanto dicevamo prima, Don Zauker è nostro e resta con noi. Abbiamo la determinazione per farlo (DZ, e anche altro che faremo in futuro) e lo facciamo per conto nostro, senza trucchi, senza crowdfunding, senza prenotazioni, senza distributori o editori che prenotano le copie prima della stampa. Dall’autore al lettore, senza filtri. Non è (soltanto) una questione di gelosia e attenzione scrupolosa: è piuttosto il simbolo di un modo di essere, un messaggio sia per i lettori che per gli addetti ai lavori. Purtroppo questa libertà totale comporta una perdita, messa comunque in conto fin dall’inizio, in fatto di distribuzione, visibilità etc… come testimonia lo scarsissimo interesse dei principali portali d’informazione sul fumetto (se escludiamo ogni tanto BadComics.it), a tratti davvero grottesco, circa i nostri lavori. Sì, diciamo anche a voi, brutti cattivi.
Giusta osservazione. Da oggi ci impegneremo di più, è una promessa! Come funziona il lavoro nella vostra coppia? Ci spiegate il vostro processo creativo e di lavoro?
In genere cazzeggiamo allegramente: al mare, durante una cena, in giro, durante le trasferte in treno o in macchina, e da lì vengono fuori diverse idee, molte delle quali non sempre riusciamo a realizzare, purtroppo, principalmente per mancanza di tempo. Alcune, quelle che ci convincono di più, proviamo a svilupparle. A volte capita che un’idea venga a uno o all’altro, e la si costruisce insieme, in modo abbastanza embrionale. Poi Emiliano le dà forma scrivendo soggetto e sceneggiatura e, solo quando è finita, la invia a Daniele. Lui la disegna e, per un patto non scritto ma condiviso, gode del privilegio di cesellare qua e là piccole cose in senso migliorativo: un termine, un dialogo, una sequenza e così via. Entrambi puntiamo a inserire delle piccole perle al solo scopo di sorprendere l’altro e farlo ridere. Questo è il nostro divertimento maggiore. La cosa migliore di questa collaborazione è il fatto che nessuno dei due debba spiegare all’altro dove andare a parare, le intenzioni, il sapore, l’atmosfera, vista la totale intesa su certe questioni ‒ tutte le modifiche in corso d’opera sono fatte per esaltare le gag o in genere i punti più significativi della storia raccontata. A volte ci si accorge che qualche scena o sequenza tornerebbe meglio spostarla o modificarla e allora ci si ritrova e si risistema tutto.
In tanti anni di amicizia e di convivenza non avete mai vissuto la fatidica crisi di coppia? Abbiamo mai rischiato di perdere i Paguri?
No, non crediamo. Anche perché non c’è un contratto di esclusiva che ci lega: entrambi facciamo cose anche con altri, com’è capitato e come capiterà. Facciamo quel che facciamo principalmente perché il divertimento che proviamo quando lavoriamo insieme è devastante e, vista questa sintonia, sarebbe stupido non approfittarne.
Siete dei decani del fumetto italiano, quindi non posso assolutamente esimermi dal chiedervi cosa ne pensate della situazione del fumetto italiano in generale, quale direzione stia prendendo e se la condividete.
Cosa ne pensiamo? Boh? Questa è una domanda estremamente complessa. Provando a sintetizzare, pensiamo che stia vivendo una stagione molto feconda e variegata, con risultati che, banalmente, oscillano fra il capolavoro vero e la ignobile puttanata spacciata per capolavoro. Non ci piace lo strapotere degli uffici stampa, quello no. Nel senso di una comunicazione prezzolata che impone mediaticamente un determinato albo o autore a prescindere dei reali meriti e qualità; ma questo vale per tutti i campi, ed è arrivato anche nel ristretto ambiente del fumetto, con risultati a volte sgomentevoli.
E anche sul fronte della comunicazione, pur sapendo che fa parte di certi meccanismi, troviamo abbastanza puerile e a tratti imbarazzante la gara sui social a chi ce l’ha più lungo. Come se la bontà di un’opera fosse commisurata ai dati di vendita, alla presenza in vetrina nelle librerie o ai like degli amici. Ma non ci piace neanche generalizzare, per cui questa risposta è per forza di cose incompleta. Ci piacerebbe però, ecco, che il mondo del fumetto prendesse sempre di più consapevolezza dei propri mezzi e raggiungesse una maturità già presente in altri paesi. Come? In molti modi: uscendo da un certo nerdismo a tutti i costi; organizzando un sistema di selezione, valorizzazione, valutazione e premiazione degni di questo nome; cercando di costruire un immaginario evitando quanto più possibile scimmiottamenti o allineamenti a mode o tendenze; e così via. Qualcosa sta andando effettivamente in questa direzione, ma c’è ancora tanto lavoro da fare. E questo non può iniziare dai lettori, devono essere gli addetti ai lavori, noi per primi, a dare l’esempio.
I vostri profili Facebook sono relativamente giovani rispetto a quelli di altri autori, ma sono già molto seguiti e vivi. Quanto influisce ormai il social sul vostro lavoro e pensate sia possibile farne a meno?
Iniziamo dalla fine: purtroppo no, non è possibile farne a meno. Lo abbiamo sperimentato sulla nostra pelle quando ci ostinavamo a non voler accettare l’obbligo di dover “stare” su Facebook per aver diritto di esistere. E infatti non esistevamo. Come dicevamo sopra: eravamo spariti. Si parlava di tutti, ma non di noi. Non ricevevamo neanche più inviti a fiere e presentazioni in giro: dimenticati quasi completamente. Da qui la decisione di capitolare e aprire dei profili Facebook. Si badi bene: l’idea che si sia obbligati a farlo ci sta sui coglioni anche ora, ma alla fine ne abbiamo scoperto perfino aspetti positivi: abbiamo conosciuto diverse persone veramente in gamba, in mezzo a tanta, tantissima banalità; abbiamo raggiunto un sacco di gente che altrimenti non avrebbe conosciuto né noi, né quello che facciamo; abbiamo stabilito contatti con realtà interessanti. E poi, se usato cum grano salis, alla fine è anche divertente e stimolante, se lo si usa per cazzeggiare e noi facciamo soprattutto questo: cazzeggiamo, ogni tanto scriviamo delle riflessioni alternate a foto di Tombola, e basta. Raramente facciamo pubblicità ai nostri fumetti. Non usiamo Facebook come cartellone pubblicitario quanto piuttosto come opportunità per ridere, parlare e confrontarsi. Poi se qualcuno, incuriosito da quello che pubblichiamo, avrà voglia di comprare i nostri fumetti, tanto meglio.
Ho letto un post davvero interessante di Emiliano che sollevava il problema dei “lovers”, quei fan che idolatrano l’autore a prescindere, sperticandosi in lodi esagerate qualsiasi cosa venga pubblicata. Questo, secondo Emilio, può portare solamente a un livello di mediocrità nel lavoro. È un’ipotesi che io condivido. Mi spiegate meglio questo vostro concetto? Inoltre: è davvero così difficile avere più equilibrio sui social media?
No, non è difficile. Se vivi il web per quello che è veramente, non è affatto difficile restare equilibrati. Però c’è questo pericolo: quando i lettori si trasformano in fan si rischia di creare non un pubblico ma un gregge di devoti, una religione. E il gregge esulterà per qualsiasi cosa dica, scriva o disegni il personaggio di turno, griderà al miracolo per ogni cazzata (succede, succede a tutti, anche a noi, pensa un po’) si dirà toccato profondamente, commosso, esaltato da tanta Arte, Coraggio, Sensibilità etc… anche nei casi in cui, come capita a tutti, si pubblichino solo banalità senza un minimo di sforzo creativo, così, tanto per riempire uno spazio vuoto. Ecco, questo è altamente deleterio perché se, per pigrizia, vanagloria o altro, uno finisce per credere a certi commenti, alla lunga si convincerà davvero che basta un niente per esser considerato GENIO! E il rischio effettivo sarà quello di veder pubblicare, cercare, vendere, premiare solo cazzate, perché tanto bastano quelle.
Con il risultato di aver ottenuto un livellamento verso il basso veramente avvilente. A nostro giudizio un autore non dovrebbe dare al pubblico ciò che il pubblico chiede, perché – generalizzando – il pubblico è di norma conservatore e chiederà sempre la solita cosa, nella solita confezione (si guardino le polemiche per i cambiamenti di Dylan Dog, Diabolik, Martin Mystère, etc…). Ma seguendo questa logica saremmo ancora fermi alle pitture rupestri. Un autore ha invece il dovere di andare avanti, sperimentare, rischiare, proporre per quanto gli è possibile il nuovo. In una parola: evolversi.
Circa un mese fa ho intervistato Gipi, autore che in modo simile a voi sprigiona una carica umana molto intensa. Chi vi segue sembra vedere in voi persone molto alla mano, che si prendono poco sul serio ma in modo consapevole. Quanto è importante per voi il contatto diretto con i vostri lettori?
È fondamentale. Noi siamo lettori, prima che autori. In verità prendiamo estremamente sul serio quello che facciamo e il modo in cui lo facciamo. Stiamo attenti a un miliardo di sfumature che poi, magari, nel risultato finale si perdono. Ma se quello che viene fuori è un lavoro di un certo tipo, è anche e soprattutto perché c’è tutto un grosso impegno sommerso che non si nota ed giusto così, ma c’è. Per quanto riguarda il rapporto con i lettori ci piace un sacco. Alle fiere e in ogni occasione ci spendiamo tantissimo per stare con i nostri lettori perché è l’unico momento in cui possiamo “toccare con mano” la cosiddetta “accoglienza del pubblico pagante”.
Spesso capita di passare del tempo con loro, bere qualcosa, poi si arriva all’ora di cena e si va tutti insieme. In modo molto semplice e normale. E anche quando ci capita di andare alle famose cene istituzionali, a Lucca o in altre occasioni, cerchiamo sempre di stare tra amici, piuttosto che sgomitare trafelati per prendere il posto accanto al Grande Autore o al Duca Conte di turno perché magari può tornare utile, dando così vita a situazioni fantozziane, come succede molto più spesso di quanto immagini. Restare fedeli a sé stessi e con i piedi ben piantati a terra, è questo che reputiamo fondamentale per continuare a vivere bene.
Cosa vi manca del vecchio modo di fare fumetto, quello dei tempi storici del Vernacoliere, e cosa secondo voi nel frattempo è migliorato?
L’età. Ci manca avere 20 anni, con il disordine creativo, magmatico e fuori controllo di quel periodo e le opportunità mediatiche che ci sono ora. Per il resto, quella con il Vernacoliere è stata una bellissima esperienza che è arrivata, giustamente, al capolinea. Il Vernacoliere ci ha dato tanto (così come noi abbiamo dato tanto al giornale) ma se volevamo evolverci e crescere, invece di indugiare sempre sulle stesse cose, contando sul fatto che tanto al nostro pubblico andavano bene comunque (sempre secondo il discorso che facevamo prima) dovevamo per forza tagliare di netto il cordone ombelicale che ci legava. E così è stato. Siamo stati bene al Vernacoliere, stiamo bene adesso da soli. In tutta sincerità pensiamo di essere migliorati moltissimo da quei tempi, come è auspicabile che sia. Andando avanti, se si è un minimo curiosi, irrequieti e desiderosi di imparare, ci si evolve, si cresce, si migliora. Oppure, solamente si cambia e andrebbe già bene comunque. Se fossimo rimasti uguali a quelli di venticinque anni fa, a fare le stesse tavole, gli stessi personaggi e lo stesso genere di battute, sarebbe stato molto, ma molto triste. Ed è il motivo per il quale, nonostante ancora oggi un sacco di lettori ce lo chiedano, non torniamo e non torneremo a disegnare le storie con i personaggi di quel tempo.
La vostra satira anti cattolica, feroce e senza mezzi termini, ha fatto scuola (Emiliano ha anche un cognome da predestinato). Eppure in tutti gli emuli nati sull’onda del vostro successo o comunque, nelle produzioni che trattavano lo stesso tema, non ho mai trovato la vostra carica dissacrante e veramente provocatoria. È davvero così difficile fare satira sul mondo religioso senza scadere nel già visto e nella provocazione forzata?
È in effetti difficile. Anche per questo motivo dicevamo di prendere molto, molto sul serio quello che facciamo e di essere molto esigenti prima di tutto con noi stessi. La banalità è il peggior nemico non solo della satira, ma della creatività in genere. Dietro alle nostre produzioni c’è un grande lavoro di rifinitura. Magari in tanti si ricordano solamente la battuta particolare o la situazione grottesca ma se funzionano è grazie a tutto il lavoro che viene svolto prima in fatto di preparazione. Non ci interessa tanto cucire insieme battute divertenti, siparietti comici o illustrare situazioni scandalose in direzione di un rilancio continuo; ci interessa piuttosto inventare, architettare e raccontare storie, che funzionino a prescindere dal genere di cui fanno parte. Il resto è tutto arricchimento. Abbiamo la presunzione di realizzare fumetti godibili su più livelli di lettura e di aver aperto una via nuova per fare fumetto umoristico in Italia, e siamo contenti matti che altri si siano incamminati per questa via.
Qual è il vostro più grande rimpianto a livello professionale e qual è stata la più grande soddisfazione?
Rimpianti? Boh?…forse il passaggio di Don Zauker alla Planeta, realizzato usando solo le nostre forze, quando sembrava che la Planeta avrebbe spaccato il mondo, salvo poi, subito dopo, collassare su sé stessa – facendo sparire le copie dai negozi per tre anni, tra parentesi. L’aver trascurato l’importanza della promozione, via web e via Facebook, per il lancio di Nirvana. Ma il nostro più grosso cruccio è non riuscire a realizzare un Diabolik, però come piacerebbe a noi. Sono anni che abbiamo questo sogno che probabilmente resterà tale. Un episodio unico, ma tutto nostro, dai contenuti maturi e forti. Per quanto riguarda le soddisfazioni, sono ricollegabili a quanto sopra: aver creato Don Zauker, aver fatto Nirvana per Panini, essere arrivati a Dylan Dog e tutto restando sempre fedeli a noi stessi. Ecco, questa è forse la più grande soddisfazione.
Ci sono possibilità di vedere nuove trasposizioni teatrali come quella fatta da I Licaoni per Don Zauker? Vi piacerebbe?
In verità il Don Zauker Talk Show è nostro, non dei Licaoni (nostri amici da sempre). È uno spettacolo satirico che non tratta di Don Zauker – non avrebbe senso – ma che è comunque permeato dallo stesso spirito e dagli stessi argomenti. E che portiamo in giro da anni, anche in questi giorni, solo noi due. Le prime due versioni avevano visto la presenza dei Licaoni ma si trattava di un progetto troppo ambizioso da portare avanti. Eravamo otto sopra un palco, più immagini e filmati vari. Per le prime due messe in scena poteva andare ma poi non era pensabile girare l’Italia come fossimo una compagnia teatrale. Noi non siamo attori e neanche comici, cabarettisti o roba simile, per niente. Però lo spettacolo piaceva, continuavamo ad avere richieste di repliche e allora abbiamo deciso di modificarlo, mantenendone lo spirito, mantenendo i filmati e le immagini ma restando solo noi due sul palco. E, incredibile a dirsi, è persino migliorato sempre per il solito discorso che, andando avanti, si imparano cose nuove e si correggono i difetti. Sono già diversi anni che andiamo in giro un po’ in tutto il centro-nord (dal sud nessuna chiamata, finora) e ci divertiamo davvero tantissimo.
Domandone rituale: su cosa state lavorando attualmente e cosa ci state preparando per il futuro?
Attualmente stiamo lavorando allo spin-off dell’ispettore Buddha, sempre per Panini, e poi in ballo ci sono dei Dylan Dog, un albo con Bruno Cannucciari che uscirà con Tunuè e un paio di progetti dei quali non vogliamo dire niente, non tanto per scaramanzia, quanto piuttosto perché ancora non sappiamo se riusciremo a realizzarli. Ma si tratta di cose del tutto diverse da quello che abbiamo fatto finora. Anche per questo vanno ponderate molto bene.
Che cosa faranno Daniele ed Emiliano da grandi? (con questa domanda chiudo sempre le mie interviste. E’ un po alla Marzullo ma mi piace)
Speriamo cose ancora diverse da quelle che stiamo facendo adesso. Però con lo stesso spirito.
Daniele, Emiliano grazie per essere stati con noi. Un grosso in bocca al lupo per tutti vostri progetti e speriamo di risentirci presto.