La Visione di King e Walta – Parte 2: il teatro dell’imitazione

La Visione di King e Walta – Parte 2: il teatro dell’imitazione

Per Tom King l’esperimento di Visione è una sorta di messinscena teatrale, nella quale gesti e parole cercano di richiamare la realtà: delineato alcuni elementi strutturali, in questa seconda parte analizzeremo il trattamento di alcune delle tematiche di fondo dell'opera.

Seconda parte dell’approfondimento su Visione di Tom KingGabriel Hernandez Walta: nella prima parte abbiamo delineato alcuni elementi strutturali significativi e l’approccio alla composizione; in questa seconda parte, invece, daremo un’idea del trattamento di alcune delle tematiche di fondo dell’opera. Buona lettura.

Are ‘Friends’ Electric?

Tom King, Gabriel Hernandez Walta, Jordie Bellaire, Visione, cap. 10 cover. © Marvel Comics, Panini Comics.

La maxiserie di Visione curata da Tom King (testi) Gabriel Hernandez Walta (disegni) con Jordie Bellaire (colori) è costruita sull’interazione fra tre poli principali, diversità, fiducia e identità; le tensioni che si instaurano fra essi hanno come portante il desiderio di integrazione da parte di Visione e sono amplificate dall’ambientazione provinciale, contesto che tipicamente valorizza i legami consolidati e pone barriere all’entrata dei nuovi arrivati.

Temi esistenziali e sociologici ricorrenti nel supereroico (il supereroe è sempre un diverso, mutante o no), rispetto ai quali la natura androide dei protagonisti innesca una serie di rimandi alla letteratura classica di fantascienza, che li ha affrontati nel suo ricco filone di esplorazione delle relazioni fra uomo, macchina e autoconsapevolezza.

I riferimenti d’obbligo sono sicuramente Philip K. Dick e Isaac Asimov, ma il tema percorre tutta la letteratura sci-fi fin dalla golden age ed è fra quelli che periodicamente tornano in primo piano anche negli altri media, poiché riflette uno dei timori più profondi dell’umanità verso la tecnologia1. E anche nel campo del fumetto supereroico, la figura dell’androide compare già agli albori, nel 1939, con la prima Torcia Umana.

Per Visione, androide creato da Ultron-5 per distruggere gli Avengers, la questione dello sviluppo di un’idea di sé fu centrale da subito: il suo creatore, infatti, aveva addirittura scelto di non dargli un nome proprio, per diminuire il rischio che sviluppasse una qualsiasi forma di autodeterminazione: “Tu volevi che io fossi niente, solo un’imitazione senza nome e senz’anima di un essere umano” fu l’accusa di Visione contro il suo creatore al momento della ribellione. Il nome del sintezoide, infatti, è preso dal grido di terrore “visione inumana” lanciato da di Janet Van Dyne/Wasp quando subì il suo attacco2.

Data la sua origine, è facile capire come Visione abbia sempre avuto un problema di accettazione. Inoltre, concepito come arma di distruzione, nella sua travagliata esistenza ha anche minacciato la libertà della Terra; di volta in volta è stato un Avenger e uno dei loro più temibili avversari. Ma, a differenza dei tipici villain, all’origine delle sue azioni, non c’è mai stato né odio né volontà di potenza, ma qualcosa riconducibile a una deriva della razionalità. Su questi precedenti, è cresciuto il difficile rapporto di fiducia con i suoi compagni di squadra, che in questo racconto King porta a conseguenze estreme ma perfettamente logiche.

Tom King, Gabriel Hernandez Walta, Jordie Bellaire, Visione, cap.1, p.2. © Marvel Comics, Panini Comics.

Maybe an ideal way of life leads to an ideal way of death

Alla base della contraddittorietà di Visione e del suo esperimento c’è la differenza fondamentale fra il modello di vita supereroico e quello umano ordinario: nel primo non esiste niente di irreversibile, mentre proprio l’irreversibilità di ogni atto è alla base del secondo.

Tom King, Gabriel Hernandez Walta, Jordie Bellaire, Visione, cap.1, cover. © Marvel Comics, Panini Comics.

I mortali muoiono, immancabilmente, con una testardaggine irritante. E non tornano in vita. Essere (come) un umano ordinario significa quindi prima di tutto entrare in un universo nel quale la morte e l’irreversibilità sono principi fondamentali. E, infatti, proprio la morte compare fin da subito in questa vicenda e l’impossibilità di cancellarla è ciò che innesca il lungo incubo nel quale precipita la famiglia di Visione. Un percorso buio, cadenzato da altre morti, ostilità e paure. Paure degli umani verso questo quartetto di strani esseri verdi, che volano e hanno superpoteri; paura di Virginia che i suoi atti vengano scoperti e lei condannata in quanto diversa; ostilità che nascono dalla sfiducia, dal rifiuto profondo del diverso, dal tradimento di quelli che credevamo fratelli e amici fidati.

I tempi sono serrati: i quattro sintezoidi non hanno il modo di integrarsi, il rapporto fra loro e la comunità non riesce nemmeno a diventare abitudine che già la tragedia fa crollare l’equilibrio mentale di Virginia. Visione, da parte sua, resta sempre ai margini, in parte inconsapevole, in parte, ci rendiamo conto col succedersi degli eventi, semplicemente e definitivamente inadeguato.

È come se rimanesse spiazzato/incastrato da un paradosso: il comportamento di Virginia, Viv e Vin ha tutte le caratteristiche del comportamento umano; soffrono come gli umani, rimangono traumatizzati come gli umani e, soprattutto, come gli umani cercano un senso nelle cose. Ma Visione non riesce a seguirli su quel terreno: qualunque cosa ci sia alla base della differenza fra lui e gli altri membri della famiglia, lui rimane al di qua di una linea fondamentale. Nessuno spirito sembra vivere dentro il suo guscio.

In questa prospettiva, rimane particolarmente ambigua la scena nella quale Visione proietta davanti a sé, dal proprio stesso occhio, l’ultimo colloquio con il figlio Vin. È un atto così umano che è forte la tentazione di leggerlo come manifestazione di un cambiamento profondo, del fatto che il trauma delle perdite abbia spinto Visione al di là di quella linea, creando un cortocircuito con quel momento, nel decimo capitolo, allorché aveva trovato la figlia Viv che pregava nella sua camera e si era unito a lei: “Che esista un dio, che Vin abbia un’anima e che quel dio accolga l’anima di Vin“.

Tom King, Gabriel Hernandez Walta, Jordie Bellaire, Visione, cap.10, p.9. © Marvel Comics, Panini Comics.

La tragedia che travolge la famiglia di sintezoidi si alimenta di una fondamentale incomprensione e incapacità di aprirsi e affidarsi agli altri o di spingere gli altri a farlo. La diversa consapevolezza della propria situazione da parte di ciascuno dei componenti della famiglia è alla base delle loro difficoltà di dialogo, ma è esattamente, e tragicamente, il punto mai affrontato. Ognuno cerca una propria via all’integrazione nella comunità: per Viv è una ricerca di spiritualità e di amore, Vin investiga il potere dell’arte e dell’immaginazione, Visione si affida alle convenzioni sociali. In ognuno di essi è intenso il conflitto tra parte sintetica, analitica e razionale e parte emotiva, istintiva, animale.

Tom King, Gabriel Hernandez Walta, Jordie Bellaire, Visione, cap.9, p.5. © Marvel Comics, Panini Comics.

Un conflitto che non può essere ridotto a equazione e che sconvolge il sogno elettrico di Visione di poter avere una vita vera,costruita su una specie di illusione binaria, che contrappone la vita degli umani a quella dei non umani. Su di essa Visione ha basato questa sorta di esperimento psico-sociologico che è la sua famiglia, nel quale egli solo continua a credere – prigioniero della sua paranoia iper-razionale – fino alla fine, anche dopo il suo scoppio di ira controllata e giustificata e dopo aver mantenuto per tutto il racconto un approccio manicheo e rigido alle regole della vita umana.

Per noi, naturalmente, quella rigidità è il sintomo lampante che Visione non comprende il senso profondo di quelle regole, perché deriva dalla sua incapacità di confrontarsi con esse. Per questo la sua stolidità nel volerle pedissequamente applicare risulta perfino inquietante. La sensazione risultante è che Visione rifiuti la realtà delle cose, in particolare delle ambiguità e contraddizioni delle relazioni e dello spirito umani. Contraddizioni che invece si manifestano nello spirito di Virginia, senza che lei abbia risorse proprie o aiuti esterni per gestirle, e innescano una rapida e inesorabile discesa verso la follia, accompagnata da una crescente violenza – psicologica e fisica -, che sfocia nella morte di Vin.

Una morte non solo cruenta e teatrale (vedremo nel seguito alcuni paralleli e ribaltamenti rispetto al più volte citato Mercante di Venezia di Shakespeare) ma anche beffarda, poiché avviene per mano non del diverso, ma del simile, di quello zio Victor che, nelle speranze del ragazzo, avrebbe dovuto comprendere e aiutare3.

There’s a gap where we meet

Alla fine, proprio un istante prima di calare il sipario, il racconto offre uno spiraglio: essere come gli altri non è condizione necessaria per vivere insieme agli altri. L’errore fondamentale di Visione era forse stato quello di voler prescindere dalla natura dei sintezoidi, negarla, con il risultato di non essere in grado di affrontare tutto ciò che nasceva proprio da quella identità. Negare la differenza è stata una cecità che ha nutrito il disastro. Accettando la differenza, portandola anzi come elemento di ricchezza, esiste una possibilità di vita ordinaria.

Viv lo esprime in maniera esplicita nella scena di prefinale, quando saluta suo padre prima di partire per una gita con la classe. Lui le chiede se si è portata da mangiare: “Forse gli altri bambini mangiano e tu vuoi apparire come gli altri”. La ragazza ripercorre in poche frasi tutti gli eventi accaduti e conclude sorridendo: “E ora sono un sintezoide adolescente, cresciuto da un Vendicatore […]. Io non sono come gli altri, padre”. Viv guarda al futuro partendo dall’accettazione di sé, consapevole della ricchezza che la differenza porta, e capace di distinguere problemi reali e dettagli marginali.

Tom King, Gabriel Hernandez Walta, Jordie Bellaire, Visione, cap.4, p.22. © Marvel Comics, Panini Comics.

Più ambiguo l’atteggiamento di Visione. La scena finale è introdotta da uno sguardo in camera che possiamo interpretare in almeno due modi. Nella prima, si tratta di una richiesta di complicità al lettore: il sipario si chiude su un’ipotesi di vita e si inizia a lavorare su un’altra; questa storia è andata male, ma la prossima andrà meglio. Una tipica strizzatina d’occhio di genere, che in questo caso distruggerebbe la drammaticità e l’intensità della storia. La seconda, che evita riferimenti metanarrativi ed è meno confortante, è che Visione non abbia accettato gli eventi, guardi al passato e si illuda di poter riparare ogni danno vissuto, cancellare gli eventi sgradevoli e ripartire da capo. In una parola, tornare alla vita da supereroe per evitare di affrontare le proprie responsabilità.

Il Mercante di Venezia: specchio e coro della vicenda

Tom King, Gabriel Hernandez Walta, Jordie Bellaire, Visione, cap.8, p.1. © Marvel Comics, Panini Comics.

Su queste tematiche e tensioni gli autori imbastiscono un dialogo diretto con il Mercante di Venezia di Shakespeare che il figlio di Visione, Vin, declama in molte scene. L’operazione genera un effetto di suggestione profonda sia sulla percezione sia sulla riflessione sull’opera. La citazione delle battute sulla pagina crea innanzitutto un’atmosfera “teatrale”, che sottolinea la non verosimiglianza della situazione: è una richiesta esplicita di sospensione dell’incredulità, al fine di concentrarci totalmente sul tema.

Funziona anche da fondamentale elemento per trasmettere emozioni e consente di fatto agli autori di evitare qualsiasi enfasi patetica: le parole di Shylock, infatti, ne contengono e richiamano a sufficienza, cosicché i dialoghi fra i protagonisti possono spogliarsene, guadagnando efficacia proprio dal contrasto che si instaura fra i due registri. In questo senso, le parole del Mercante svolgono una funzione equivalente a quella della musica in un film: non semplice marca didascalica, ma cassa di risonanza che amplifica i moti d’animo.

Data la grande passione di King per la letteratura, ampiamente mostrata ad esempio in Omega Men e Sheriff of Babylon, è inevitabile la tentazione di ricondurre il trattamento delle tematiche e la costruzione narrativa di quest’opera al campionario shakespeariano anche al di là del Mercante. Notiamo allora che morte e pazzia irrompono e distruggono l’aspirazione alla normalità di Visione, che cerca di comprendere il significato della vita umana, fino a crearla dal nulla e cercando di darle una parvenza di reale.

Il suo è un progetto accuratamente costruito grazie alla propria capacità analitica, ma basato su un assunto sbagliato: ne nasce un’impresa disperata, che rivela l’ingenuità di questa illusione di vita e che esige un prezzo di sofferenze altissimo a tutti i personaggi che si affannano sulla scena. Il mondo come palcoscenico di maschere (Antonio), la vita come sogno (Prospero, un altro mago che gioca con le vite altrui), o, meglio ancora, come ombra (Macbeth, che da quelle ombre finisce travolto), che si svolge in un intreccio caotico al termine del quale rischia di esserci solo il silenzio.

We ain’t no superstars, and what we are is what we are

L’influenza di Shakespeare non è solo tematica e strutturale, ma diventa elemento narrativo fondamentale grazie alla scelta di King di rendere il Mercante di Venezia il leitmotiv delle tragiche vicende della famiglia Visione. Citandola a contrappunto delle vicende, i suoi versi funzionano come spunti e agganci di riflessione e interpretazione, caricandole di (o forzandoci a estrarne) significati molteplici e stratificati.

Il primo livello è intrinseco nel passo letto e recitato quasi come un mantra da Vin. Il famoso monologo “Non ha occhi un giudeo?“, che l’ebreo Shylock recita nella prima scena del terzo atto della commedia, dà a Vin le parole per esprimere il proprio desiderio e bisogno di essere riconosciuto come membro della comunità, in quanto essere dotato degli stessi sentimenti e della stessa capacità di percepire il mondo degli esseri umani che lo circondano.

Tom King, Gabriel Hernandez Walta, Jordie Bellaire, Visione, cap.4, p.11. © Marvel Comics, Panini Comics.

Il secondo livello è invece più sottile e ironico e introduce un gioco di specchi con l’opera citata che offre punti di vista non banali sulle vicende e i personaggi. King usa il tema conduttore di una commedia (seppur sui generis) come coro di un racconto tragico che contiene molte tematiche shakespeariane. L’ironia sta tutta nel fatto che la commedia alla quale Vin affida l’espressione del suo animo (noi lettori a questo punto siamo certi che Vin abbia uno spirito e non sia un mero guscio) ha uno scioglimento che conferma l’esclusione di Shylock – il diverso – dalla comunità.

Shakespeare non propone, come in altre commedie, la soluzione di un malinteso, ma il rafforzamento di una condizione di minorità ed emarginazione. In questo senso, possiamo considerare il racconto di King come il Mercante scritto dal punto di vista di Shylock, il cui ruolo è qui distribuito fra Virginia, Vin e Viv. In questo senso, quindi, Vin affida/proietta i propri sentimenti a una storia che mostra la velleitarietà dei suoi desideri.

Per apprezzare le sfumature di significato del riferimento è inoltre importante notare che l’enfasi sull’emarginazione del diverso è una prospettiva particolarmente moderna – peraltro basata sull’unico momento del suddetto monologo – che verosimilmente suonava dissonante ai contemporanei dell’opera, poiché, oggettivamente, dava voce “all’altra parte”. L’indicazione, quindi, è che l’esperimento di Visione sia fuori sincrono rispetto agli interlocutori, poiché dà per scontata una possibilità di integrazione tutt’altro che matura.

Ad aumentare le sofferenze della situazione sta anche la diversa consapevolezza della propria condizione che hanno Shylock e Visione. Paradossalmente questo equivoco sulla natura dell’accettazione è il più umano degli atti di Visione, che confonde stato e riconoscimento: “tutto ciò che devo fare per essere umano, è comportarmi come ci si aspetta da un umano”. In realtà, come sa Shylock, si è parte della comunità se e solo se la comunità ci accetta. Il sintezoide, semplicemente, non capisce, mentre i suoi familiari, soprattutto i due figli, la sperimentano nella vita quotidiana che il padre ha imposto loro. E il suo sfasamento rispetto a questo tema aumenta a dismisura quando deve confrontarsi con la sua comunità di riferimento: gli Avengers, che non lo riconosce più come proprio membro.

Too frail to wake this time

Al di là della coralità familiare della vicenda, per molti aspetti Virginia è il personaggio centrale del racconto e quella che leggiamo è la sua storia. Non casualmente, la tragedia si apre con un suo omicidio – atto che la pone al di fuori non solo delle regole umane, ma anche delle convenzioni supereroiche – e si chiude con il suo suicidio. Sono entrambe azioni intrise di una disperazione e fragilità che indicano quanto di umano ci sia in lei e che costituiscono un paradosso disturbante, poiché indicano come il progetto di umanizzazione di Visione sia demolito proprio da un eccesso di umanità.

Tom King, Gabriel Hernandez Walta, Jordie Bellaire, Visione, cap.12, p.2. © Marvel Comics, Panini Comics.

In lei sono concentrate alla massima densità le caratteristiche del racconto: lei vive le esperienze traumatiche e ne è trasformata; lei è quella che non sembra avere una vita al di fuori della casa e della famiglia – vero che le sue uscite da questo territorio generano tragedie -, poiché la vediamo vivere in una sorta di confinamento che insinua scena dopo scena un sempre maggior senso di claustrofobia. Almeno dopo l’incidente che innesca il dramma, Virginia si muove sempre attraverso le stesse stanze e, primo sintomo del trauma, inizia a ripetere le parole, trasformando le sue frasi in litanie. Lei continua giorno dopo giorno a inseguire le ombre della sua memoria, cogliendo brandelli del passato (della vita di Scarlet Witch), ma senza essere in grado di dar loro senso.

Lo scopriamo tardi e la prima domanda che ci poniamo è “perché non ne ha parlato con Visione?“. La risposta ovvia e consistente con quanto vediamo accadere è “perché non si fida di lui“. Virginia inizia ad andare alla deriva e riacquista una parvenza di controllo di sé solo per vendicare la morte del figlio. Una morte frutto della paura (quella di Victor, fratello di Visione, che si era insinuato nella sua famiglia su incarico diretto di Tony Stark), esattamente come quella di GK, il ragazzo che, attratto da Viv, più si era avvicinato ai sintezoidi4.

Virginia coglie la propria vendetta in maniera teatrale: la sequenza dello scontro finale tra Visione e gli Avengers può soffrire di qualche incoerenza, ma è difficile non rimanere turbati dalla comparsa di Virginia, che con una mano estrae il cuore dal corpo di Victor. Modalità di vendetta non fine a sé stessa, poiché risuona della voce del figlio, che, dopo la morte di GK, recitava continuamente (ossessivamente) il Mercante di Venezia shakespeariano5.

Heartwrecker, make me delight

Giunti alla fine, vorremmo sottolineare un punto fondamentale: quello che rende il racconto di King e Walta prezioso non è il fatto che dimostra la sapienza e abilità dei suoi autori nel combinare e stratificare livelli di lettura e temi. Ma il fatto che quella sapienza e quell’abilità passano inosservati, poiché ciò che ci colpisce e avvolge durante la lettura sono le emozioni e le passioni che innervano ogni scena, ogni pagina. Non importa conoscere Shakespeare; non importa sezionare ogni immagine, evidenziare le linee di tensioni aperte dalle parole e dai gesti; non importa cogliere i riferimenti interni ed esterni. Con questa storia, King e Walta parlano al cuore del lettore.

Quando lo leggemmo, rimanemmo incantanti dall’intensità di queste pagine. Pensammo che questo fosse un punto importante nel viaggio degli autori all’interno del supereroico. E avevamo aspettative per le opere a venire, ma certo non potevamo immaginare che tutto questo fosse solo una presa di confidenza con il senso profondo del raccontare l’uomo tramite i supereroi.

Ma di questo parleremo quando scriveremo di Mister Miracle.
Quindi, se siete interessati, se siete curiosi, per favore: “Stay!”.

 

La Visione di King e Walta – Parte 1: verso l’umanità e ritorno


  1. Vale sempre la pena ricordare che “I, Robot”, titolo usato da Asimov per la prima antologia di racconti sui robot positronici e le Tre Leggi della robotica era il titolo di un racconto del 1939 di Eando Binder, centrato proprio sul tema del confine fra umano e artificiale, che il Buon Dottore omaggiò consapevolmente, come racconta nell’antologia da lui curata Le Grandi Storie della Fantascienza vol. 1 (1939), Bompiani. 

  2. Vedi Avengers #57 – Behold the Vision, 1968

  3. Victor Mancha è “fratello” di Visione in quanto anch’egli creato da Ultron. Concepito come arma, seguì un destino parallelo a quello di Visione, poiché fu accolto dai Runaways. Cfr. la pagina ufficiale Marvel dedicata al personaggio

  4. La morte di GK merita peraltro una nota: dalla dinamica è chiaro che non dovrebbero esserci problemi per risalire al responsabile. Tuttavia, l’unica notizia che abbiamo delle indagini è che la polizia non riesce a spiegare l’accaduto. 

  5. Come noto, nella commedia di Shakespeare, Shylock ottiene in garanzia del suo prestito ad Antonio il diritto di prendere una libbra di carne del suo corpo: il cuore. Nonostante Antonio non sia poi in grado di saldare il debito, Shylock non può prendersi quanto pattuito, perché al momento dell’esazione gli viene richiesto di farlo senza versare sangue, cosa ovviamente impossibile. 

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