Introduzione
Addio alle armi, titolo e copertina inequivocabili, è il saluto con cui Adam Wild si è congedato dalle scene, a novembre, dopo appena 26 uscite. Abbiamo messo in evidenza qui e qui alcune caratteristiche dell’ultimo eroe nato da Gianfranco Manfredi. Vale la pena farne un riassunto, dal quale prenderemo le mosse per esaminare non solo la seconda e ultima stagione del personaggio, ma il suo intero percorso.
Adam, esploratore scozzese nell’Africa subequatoriale, è uno spirito libero fino all’eccesso, che non tollera padroni e non ammette compromessi. La sua natura forte, legata a una superiore abilità in azione, ha rappresentato il principale problema gestionale delle prime uscite, che si sono risolte in una successione di prove poco sfidanti, e quindi in sostanza poco coinvolgenti per i lettori. Per dare un appiglio di immedesimazione al pubblico, l’eroe troppo imbattibile è stato attorniato da una famiglia di comprimari più umani, fra cui si sono distinti in due: in primis la sua compagna, la principessa Bantu Amina, molto simile a lui per carattere, ma definita dall’efficace conflitto interno fra uno spirito fiero e la destabilizzante perdita del contesto familiare; in secondo luogo il conte Narciso Molfetta, che interpreta il ruolo del contrasto, del punto di vista diverso e di supporto all’azione, in omaggio alla caratterizzazione classica di spalla bonelliana.
Al di là dei protagonisti: una concatenazione di episodi principalmente procedurali, con una lieve trama orizzontale a legarli, che è divenuta in breve tempo una limitazione, ma che ha trovato una forte e benvenuta discontinuità nei due capitoli iniziali della seconda annata, punto di arrivo per il primo ciclo, partenza per la corsa finale del personaggio.
A giochi fatti, a percorso compiuto, verrebbe da dire che Adam Wild è stato, al di là della (ovvia) appartenenza al genere avventuroso, un fumetto tematico sulle gabbie e sul loro superamento. È proprio sotto questa chiave di lettura che cercheremo di esaminarlo.
Adam e le sue gabbie
Se Adam, nelle prime storie, ci è apparso come un troppo comodo deus ex machina che impostava il contesto e lo risolveva, minimizzando le difficoltà, con la seconda stagione possiamo dire anzitutto che la psiche del personaggio si è meglio definita. Era necessario, e Gianfranco Manfredi non ha mancato di farlo, metterci di fronte a scelte veramente forti, che costringessero l’indole più privata dell’esploratore a venire fuori.
Londra e la successiva visita all’ex mentore, sir Berkeley, sono due momenti rivelatori: Adam è uno spirito che con il tempo e con le esperienze si è sempre più ritagliato un’esistenza priva di compromessi. Il suo carattere fumantino, l’interfaccia estremamente diretta con gli altri, si sono modellati sulla sua patria di elezione, quell’Africa che Manfredi ci mostra come un contesto epurato delle convenzioni civili altrove consolidate. Nel continente nero si muore per un capriccio, si spara senza pensare, e l’intera popolazione indigena è posta sotto costante ostaggio e oltraggio, razziata da schiavisti, esclusa dalla società esportata nella loro stessa patria dalle potenze occidentali, sottoposta a una versione crudelmente a senso unico della legge naturale del più forte. Per Adam, che è un esploratore di uomini, più che di terre, l’oggetto di studio, il popolo di oppressi fra cui sceglie di muoversi, è penetrato in tale profondità, da portarlo ad accettare il rifiuto di compromessi in cui questa gente si trova suo malgrado a muoversi: una dimensione selvaggia in cui l’istinto e la reazione immediata prendono il sopravvento rispetto a ogni altro possibile approccio.
Se nei primi dodici numeri mancava un degno avversario per questa filosofia di vita programmaticamente priva di vincoli, con Nella giungla metropolitana si inizia a vedere bene quale possa esserne l’antagonista principe: non singoli individui (Gertrude Winter e Frankie Frost, i Manning o Seymour Lax, hanno ben poca presa sul protagonista, e costituiscono ben misera sfida) ma lo stesso occidente, quell’”umanizzazione” pervertita e imposta, in nome di un’auto proclamata superiorità, quell’insieme di regole che si abbattono su sistemi diversi annullando ogni possibile eccezione.
Sotto questo aspetto Adam Wild si presenta come un fumetto politico, e non si limita a ricalcare lo stereotipo di avventura classica, intesa come viaggio dell’eroe atemporale e chiuso in se stesso, contraddicendo nei fatti quello che lo stesso Davide Bonelli aveva annunciato nell’editoriale del primo numero. La descrizione accurata degli eventi storici, che tanto condiziona la narrazione, guida il format ben di più di quanto non sia avvenuto con le altre produzioni tradizionali della casa editrice di via Buonarroti, che hanno utilizzato eventi realmente accaduti per dar tridimensionalità a specifici episodi, ma non ne hanno fatto un ingrediente sistematico, come invece qui accade, soprattutto nella seconda annata (e come, c’è da dire, è avvenuto per Shangai Devil e Volto Nascosto, sempre a firma Manfredi).
Ma Adam non si ferma a rappresentare il testimone scomodo dell’oppressione dell’occidente: se è vero che lo schema voluto dalle potenze esterne è il suo primo nemico, è anche vero che nessuna regola sclerotizzata, anche quelle che vigono fra le popolazioni indigene frequentate dall’esploratore, sopravvive al suo spirito radicalmente idealistico. Tutti i sistemi, presto o tardi, si rivelano gabbie da scardinare.
Adam, evidente caso di nomen omen, è un selvaggio che viene più volte spinto dagli altri esseri umani verso una condizione di cattività a cui ostinatamente rifiuta di assoggettarsi. Nel Safari sulle tracce di Livingstone pagato da Narciso (fil rouge dei primi 12 episodi) questo aspetto non c’era, perché il controllo del conte sull’esploratore era pressoché nullo, e quindi, in sostanza, la sua volontà era sempre assecondata. Ma a Londra conosciamo la Royal Geographical Society, sir Berkeley, la Regina stessa, con le loro emanazioni del caso, la già vista Gertrude Winter, o la new entry Seymour Lax, per non citare tutte le comparse che vivono e muoiono a ogni soffio di vento su queste pagine. Sono aspiranti padroni che rappresentano una minaccia ben più alta e un conflitto ben più radicale, e che finalmente cambiano le carte in tavola per quella che prima era poco più di una sorridente carrellata di scaramucce a lieto fine.
La seconda stagione diventa una rabbiosa e donchisciottesca lotta per la libertà: contro ogni fazione in ogni guerra (fra inglesi e Boeri in lotta Adam non sceglie nessuno), contro la guerra come metodo di risoluzione (Manfredi ci racconta perfino un incontro con Gandhi che fa da slogan, piuttosto didascalico, sugli orrori indiscriminati dei conflitti). Quella che prima era una gabbia, ovvero l’invincibilità del personaggio, ora viene meno, perché il livello dello scontro è enormemente salito, e quindi, pur mantenendo la sua caratterizzazione di guerriero imbattibile, la vastità del contesto in cui è inserito ridimensiona il Nostro, peraltro spesso ostaggio della sua carica anarco idealista, che lo spinge a mettersi in gioco in modi sempre più estremi, e a constatare la luna di sconfitte collettive inevitabili al di là del dito di piccole vittorie sul campo.
Usuthu, il grido Zulu che punteggia le ultime puntate, è molto meno liberatorio di quanto si possa pensare: è uno sfogo non risolutivo, una esclamazione che nasconde una forte angoscia per un futuro tetro (la premonizione di Odwina), e che si esplica in una volontaria auto esclusione da quella società che finanzia costose spedizioni verso città piene di tesori, scava nelle viscere della terra uccidendo uomini in nome del guadagno di una elite lontana, spinge gli amici a uccidersi perché l’onore offeso sembra valere più di un rapporto costruito. Usuthu è la rinuncia a tutto, è la fuga, di più, è l’unico contesto possibile.
I comprimari e le gabbie non antagonistiche
Nel percorso di liberazione del personaggio assistiamo a una scelta interessante: in Zulu Adam, dopo aver raccontato a Narciso la sua prima battaglia africana, decide di staccarsi dai suoi compagni e intraprendere un viaggio in solitaria, per portare a termine una missione che non è affatto quella affidatagli da sua Maestà, ma piuttosto il compimento di un percorso interno di crescita. In Colenso, L’alba del novecento, La fossa dei dannati e in parte di Addio alle armi, Manfredi lo lascia quindi privo del coro che l’ha accompagnato fino a quel momento. E inaspettatamente quello che sembrava un contrappunto necessario, ovvero un gruppo di figure dall’indole diversa che lo controbilanciassero, si rivela un orpello di cui è giusto spogliarsi.
Amina, il conte, Sam e Makibu sono, in sostanza, una delle gabbie del personaggio, con connotati diversi, ma forti quasi quanto le gabbie antagonistiche che Adam ha sempre combattuto. Le interazioni tipiche fra i comprimari, forse per volontà dello stesso Manfredi, forse per una sopravvalutata necessità di ingrediente seriale che si è venuta sclerotizzando con le pagine, non hanno saputo rinnovarsi e sono divenute riti eliminabili, ostacoli, in primis per la narrazione, in seconda istanza per il protagonista. Si pensi ai momenti in cui, approcciandosi a Odwina, a turno Amina o Narciso chiedono udienza privata all’esploratore, in base a rispettivi imbarazzi privati che aggiungono troppe pause alla dinamica avventurosa della serie, senza portare con sé una necessità realmente condivisibile.
Quando invece Adam si trova solo, nel teatro di battaglia della guerra anglo boera, tutto inizia a scorrere con quella affascinante e terribile fluidità che lo caratterizza intimamente: gli ultimi numeri della serie si potrebbero quindi definire davvero numeri “selvaggi”, e raggiungono quella simbiosi con il protagonista che la serie ha sempre giocato a rincorrere. Anche perché è vero che non si concentrano solo su Adam, ma, quando spostano i riflettori altrove, ci raccontano in parallelo le dinamiche dei due antagonisti cardine della prima ora più simili a lui: le antitesi, feroci al pari dell’esploratore, rappresentate da Frankie Frost e Gertrude Winter. Questa alternanza di personaggi fortissimi fa risaltare ancor di più il messaggio e l’etica della testata.
Viene da chiedersi cosa sarebbe stato della serie se avesse rinunciato a quelle interazioni di maniera, se si fosse spogliata della gabbia del rapporto d’amore, o dello schema della spalla, della necessità del gancio ai lettori. Andando sempre e solo al nucleo, così poco umano, dell’estrema istintività di alcuni suoi personaggi. Gli ultimi numeri ci consentono, in sostanza, di assaggiare quello che capita quando davvero i compromessi, nel bene e nel male, si fanno da parte. Ed è un’esperienza molto interessante.
Fine prima parte – continua…