I got my head checked
By a jumbo jet
It wasn’t easy
But nothing is, no1
Capire il fumetto è opera del fumettista americano Scott McCloud. Un volume a fumetti che parla del fumetto.
Capire il fumetto esce negli Stati Uniti nel 1993, viene tradotto in Italia nel 1996 dalle Edizioni Studio 901 e ristampato – nella versione che io possiedo – da Vittorio Pavesio Productions nel 1999.
Impressionanti, anche per chi a queste cose riesce a dare il giusto peso, i commenti nella retrocopertina da parte di autori del calibro di Matt Groening, Art Spieegelman, Will Eisner e Jim Lee. Tra questi, il commento che meglio sintetizza la portata del libro di McCloud viene da Garry Trudeau, critico del New York Times Book Review: “[…] la maggior parte dei lettori, d’ora in poi, troverà difficile guardare ancora il fumetto nello stesso modo di prima“. Capire il fumetto parte dalla definizione di fumetto come “arte sequenziale” di Will Eisner e ne propone una propria, meno affascinante, ma più “clinica“:
Immagini e altre figure giustapposte in una deliberata sequenza, con lo scopo di comunicare informazioni e/o produrre una reazione estetica nel lettore
La seconda parte della definizione riguarda la destinazione dell’opera a fumetti ed è forse quella meno raffinata e per questo più attaccabile da un punto di vista dei contenuti. Lo scopo dell’autore non è pero’ quello di dare una definizione precisa dell’arte a fumetti. Il “tentativo” (McCloud stesso lo definisce così) è quello di “chiudere ogni scappatoia semantica” e vedere sotto una nuova angolazione la storia del fumetto.
Da questo momento inizia infatti una digressione storica – sviluppata anche nel successivo Reinventare il fumetto – tesa a dimostrare che le origini della struttura espressiva fumetto sono ben più antiche di quella del fumetto stesso. La caratteristica comune dei geroglifici egizi, di un papiro pre-colombiano, della pittura rupestre paleolitica di Lascaux, della colonna traiana, dell’arazzo di Bayeux o dei dipinti in serie di Monet è la loro fruizione sequenziale. Per questo possono già essere considerati come “proto fumetti” non negli intenti, ma nella struttura.
Questo intanto già esclude la vignetta dalla categoria del fumetto perché “non giustapposta“. McCloud chiarisce ulteriormente questo concetto con un semplice parallelismo: “la vignetta sta al fumetto come il fotogramma sta al film“. Questo aspetto non viene più affrontato nel volume, ma forse è non è stato approfondito a dovere. Il fotogramma infatti non è comparabile con la vignetta, ma casomai con il singolo riquadro di una tavola. La vignetta talvolta si espande in una sequenza di due o tre riquadri e spesso utilizza meccanismi propri del fumetto per gestire lo spazio e la velocità all’interno del singolo riquadro. Questo comunque non significa che vignetta e fumetto siano la stessa cosa. Sono, anche a mio parere, due espressioni distinte che probabilmente meritavano una analisi più approfondita magari anche rimandando ad altra sede.
McCloud comunque ritorna subito dopo alla definizione iniziale per sottolinearne i limiti e aprire il “grande dibattito” – ancora in corso – su come definire il fumetto, ben conscio e speranzoso (e noi con lui) che ci siano ancora molte potenzialità inespresse.
La relativa giovinezza dell’espressione a fumetti diventa quindi un limite oggettivo per la sua definizione e allo stesso tempo una delle molle principali per la scrittura del successivo Reinventare il fumetto.
Dal secondo capitolo inizia la parte, a mio parere più interessante, di Capire il fumetto: la definizione di un vocabolario dei fumetti.
Il merito dell’autore è quello di introdurre ai meccanismi percettivi del fumetto (e delle immagini) usandoli a sua volta in maniera più o meno esplicita. Per prima cosa ci libera dall’equazione “realismo grafico” = “maggiore coinvolgimento”. Viene introdotto il concetto di figura iconica in quanto immagine portatrice di simbologie più o meno evidenti. Viene rivendicato il primato dell’espressività sulla verosimiglianza in relazione ad un altro aspetto fondamentale del fumetto e di altre espressioni artistiche: l’identificazione.
McCloud pero’ sottolinea anche come questo meccanismo sia valido a suo parere soprattutto per il protagonista della lettura più che per gli sfondi. Ci introduce quindi con semplicità alla “mascheratura” (l’uso combinato di fondali realistici e figure iconiche) come metodologia espressiva da lui preferita.
A questo punto c’é un innesto importante nella meccanica del fumetto: le parole, “l’astrazione definitiva“. La necessità di un “vocabolario unificato” è imprescindibile per il fumetto come per altre forme d’espressione. Il merito di “Capire il fumetto” è quello di dimostrarci come la mancanza di questo vocabolario sia in parte dovuto alla nostra istintiva tendenza a considerare i due concetti (immagini e parole) distinti anche in fase creativa. In pratica la mancanza del vocabolario è dovuta alla mancanza di linguaggio comune. Il paradosso è tanto più evidente se si pensa che per costituire una identificazione “parole e figure dovrebbero[…] convergere […] ma il nostro bisogno di fumetti raffinati sembra condurci […] dove parole e figure divergono“.
La questione si complica ulteriormente quando nel capitolo sei viene affrontato il rapporto tra figure e parole con una ipotetica, ma efficace, bilancia F/P applicata a diversi esempi di fumetto. Viene mostrato che nessuna prevalenza quantitativa è significativa dal punto di vista della qualità. L’inevitabile conclusione: “la miscela di parole e figure è più alchimia che scienza” assesta un brutto colpo alle velleità classificanti dell’ipotetico Zingarelli del fumetto.
Questa difficoltà pero’ non svilisce le potenzialità del medium, ne sottolinea anzi la complessità intrinseca: una parziale sconfitta critica a favore di una vittoria artistica.
Ed è solo l’inizio.
Nel successivo terzo capitolo viene infatti introdotto il micidiale concetto di closure:
l’osservazione delle parti e la percezione di un intero […] basato sulle esperienze passate”.
“In un mezzo in cui il pubblico è un collaboratore spontaneo e consapevole la closure è l’agente del cambiamento, del tempo e del movimento”.
In pratica la closure agisce sulla vignetta, ma soprattutto tra vignetta e vignetta: nello spazio bianco.
Nei film questo concetto si esprime nel montaggio o nel piano sequenza. In un fumetto, dove la singola immagine è necessariamente statica, la closure si evidenzia continuamente. Portare agli estremi questo tipo di lettura potrebbe rendere eccessivamente soggettiva la percezione di un’opera e quindi invalidare qualunque tipo di lettura critica. Fortunatamente, e prevedibilmente, non è così. La closure si rivela uno strumento fondamentale da padroneggiare per chi i fumetti li crea: “ Se l’iconografia visiva è il vocabolario del fumetto, la closure è la grammatica“.
McCloud spinge ancora più in là questo concetto proponendo un modello schematico per la classificazione della closure suddiviso in sei categorie principali, nel quale si classificano i passaggi tra due vignette consecutive in base alla loro variazione di contenuto:
- 1. Da momento a momento
- 2. Da azione ad azione
- 3. Da soggetto a soggetto
- 4. Da scena a scena
- 5. Da aspetto ad aspetto
- 6. Non-sequitur
Senza scendere troppo nel dettaglio, l’analisi con questo modello di fumetti apparentemente diversissimi porta risultati sorprendenti: Hergé e Kirby ottengono un grafico molto simile. In generale le categorie 2-4 predominano finché vengono presi in considerazione fumetti USA o europei. Quando viene analizzato il fumetto giapponese, i valori si appiattiscono e compare anche la quinta categoria.
Su questo ultimo aspetto a pagina 89-90 McCloud ci fornisce un altro esempio di quanto il fumetto riesca a comunicare con facilità:
Penultima vignetta di pagina 89: “Perché in Giappone […] il fumetto è un arte…”
Ultima vignetta di pagina 89: [bianca]
Prima vignetta di pagina 90: “…di intervalli”
In un attimo il lettore realizza il perché di centinaia di pagine di manga divorate con facile leggerezza. Forse lo aveva intuito, forse no. Adesso ha il grafico che glielo mostra.
Da qui alla successiva considerazione il passo è breve: se la closure è fondamentale per la qualità della percezione “l’arte del fumetto è sottrattiva quanto additiva” e nella ricerca dell’equilibrio (e/o del ritmo) risiede uno dei segreti per la bontà di un opera. Niente di rivoluzionario, ma, personalmente, la possibilità di dare dei nomi dello zero fumettistico è piuttosto affascinante. Chi avesse voglia, tempo e sufficiente pazzia da utilizzare questo modello per analizzare un quantitativo di storie maggiore di quello che ha affrontato McCloud potrebbe, forse, scoprire nuove chiavi di lettura o nuovi modelli, magari concentrandosi su un singolo genere o autore. Ripeto, forse.
Arrivati a questo punto “Capire il fumetto” affronta il capitolo tempo. Una parte del problema viene risolta sempre dalla closure, ma il tema è molto più articolato. L’arte del fumetto è quella che per necessità ha dovuto affrontare il trascorrere del tempo basandosi su una serie di immagini statiche.
Il trucco risiede nell’utilizzo del linguaggio e nelle vignette. A pagina 106 l’autore mostra con la consueta sintesi come possa cambiare la connotazione temporale di una stessa vignetta variando il contenuto del balloon. Allo stesso modo nelle pagine successive evidenzia come dimensione e forma della vignetta dilatino o contraggano il trascorrere del momento tra immagine e immagine. Ancora una volta il rapporto tra aspetti differenti è determinante per la qualità della narrazione. Si può affrontare la stessa sequenza velocizzandola o rallentandola in relazione all’uso che intendiamo fare di linguaggio e vignetta. Di più, lo si può fare all’interno della singola vignetta e anche in questo McCloud ci svela che il fumetto è maestro. Partendo dal futurismo e dalle opere di Duchamp si comincia a comprendere che “se vuoi dipingere un mondo in movimento allora bisogna essere pronti a dipingere il movimento“. In pratica i prodromi della “linea cinetica” del fumetto, quella così sapientemente utilizzata da Jack Kirby.
La logica conclusione del capitolo sul tempo è che avendo a disposizione strumenti (espressivi e interpretativi) molto versatili come closure, linguaggio e vignetta non dovrebbe essere impossibile cercare nuove forme espressive, che esulano dalla qualità della singola immagine, nel fare fumetti. Il mio pensiero spontaneamente si rivolge allo Snake Agent di Stefano Tamburini che è forse il miglior esempio che si possa adagiare sui concetti appena esposti soprattutto se si conosce il vissuto di questo atipico autore.
Nei primi quattro capitoli Capire il fumetto affronta il fumetto dal generale verso il particolare: concetto, definizione, vocabolario, strumenti interpretativi. Il quinto capitolo è dedicato all’essenza: la linea.
In questo ambito McCloud espone un interessante parallelismo tra la pittura e il fumetto. È evidente che lo studio della linea è iniziato scientificamente con la pittura, ma scorrendo la storia del fumetto (a pagina 134 ci sono ben 12 esempi a suffragio) è incontestabile che anche i maestri della nona arte hanno utilizzato le peculiarità espressive della linea. Al solito, pero’, nei comics è stato fatto un ulteriore passo avanti assolutamente peculiare.
Oltre alla “linea cinetica“, già trattata in precedenza, da pagina 136 viene illustrata la linea simbolica. L’esempio chiarificatore sono le linee ondulate sopra una pipa accesa che possono essere utilizzate magari anche sopra un bidone della spazzatura o magari un cane. Questo tipo di utilizzo simbolico si ricollega di nuovo al concetto di closure per assumere tutto il potenziale espressivo che effettivamente possiede. Se si estende questo concetto di elaborazione della linea al disegno – oltre che dei soggetti – di sfondi, balloon e lettering, ecco che è ancor più evidente che “insieme, naturalmente, parole e figure possono fare miracoli“.
Anche in questo caso, la considerazione sulle potenzialità inespresse del fumetto è istintiva. In ambito cinematografico gli esperimenti si sono sicuramente spinti più in avanti anche in progetti destinati al mass market come Natural Born Killers2.
Cio’ che forse nel fumetto non si è ancora vista è un’esperienza grafica clamorosamente eterogenea nell’arco di una storia. In questo senso l’utilizzo di un team di creativi che lavorano su uno stesso progetto potrebbe essere d’aiuto salvo che per come è stato concepito sino ad ora ha l’effetto totalmente opposto. È curioso notare come nel produrre videogiochi, che esistono da pochi decenni, questo tipo di metodologia sia diventata ormai la norma. È innegabile che nell’ambito videoludico vi siano evidenti esigenze produttive che lo impongono, ma è probabile che proprio la natura non artistica dei videogames abbia accelerato questo processo. Solo di recente si è cominciato a parlare di videogioco come forma d’arte, ma in questo contesto si tende a ritornare alla produzione del singolo come se fosse difficile associare il concetto di opera a una moltitudine di creatori. Senza comunque uscire ulteriormente dai binari (credo di averlo fatto già abbastanza in queste ultime righe) i videogiochi ci portano per associazione alle nuove tecnologie. La diffusione dei PC e di internet dovrebbero favorire la condivisione culturale e di conseguenza lo sviluppo o quantomeno la diversificazione espressiva. Questo, di fatto, è avvenuto solo in parte. Ci sono proposte interessanti nell’illustrazione (soprattutto provenienti dall’oriente) e in parte anche nel fumetto. La colorazione al computer o i fumetti completamente in computer grafica rappresentano solo la punta dell’iceberg di quello che potrebbe nascere da una vera ibridazione tra manufatto e tecnologia. Questo è uno degli spunti che spinge McCloud al successivo Reinventare il fumetto.
Il sesto capitolo, come già scritto, analizza il rapporto immagini-parole con l’ipotetica bilancia F/P (o P/F) chiudendo l’analisi del fumetto nelle sue singole componenti.
Il settimo capitolo è allo stesso tempo una discesa agli inferi e una ascesa al paradiso al quale forse ogni lettore desidererà partecipare. Si parla di processo creativo e di come questo si scontri con la realtà . È, fino a questo momento, il capitolo più narrativo e per questo sarà facile identificarsi nelle vicissitudini di qualcuno degli ipotetici artisti-fumettisti ritratti nelle loro difficoltà. In sintesi un analisi critica dei “sei passi” della creazione comparata all’artista, al mercato e al lettore: un invito a scendere (gradualmente) sotto la superficie.
L’ottavo, e penultimo, capitolo è significativamente intitolato: 2 parole sul colore. Significative sono le “due parole” che sottolineano la brevità della trattazione: in tutto, otto pagine. Il motivo preponderante di questa brevità è che molti degli argomenti sono già stati ampiamente affrontati nei capitoli precedenti come rapporto tra forma e contenuto simbolico nell’espressione a fumetti. McCloud, dopo l’usuale introduzione storico-artistica (in cui merita notare l’inevitabile citazione di Seurat3 come esempio di vita dedicata allo studio del mezzo), evidenzia come l’uso del colore, almeno in America, sia inizialmente avvenuto soprattutto per motivi di mercato. Successivamente, grazie all’influenza dei maestri europei, si è aperta una nuova era nel quale l’utilizzo del colore diventava per la prima volta protagonista, e non più semplice accessorio, dell’espressione. Oggi quindi McCloud distingue tra uso piatto e uso espressivo del colore e pone in evidenza quanto questo influisca a livello di percezione spaziale dell’immagine. Le ultime tre vignette di pagina 200 (conclusive del capitolo) sono dedicate nuovamente alle potenzialità ancora inespresse: un primo piano dell’alter ego fumettistico di McCloud che si allarga gradualmente su un altro autoritratto, decisamente più famoso, pieno di onde molto colorate…
Il nono e ultimo capitolo è una sintesi dei concetti esposti precedentemente. Un elogio al fumetto e alle sue potenzialità ancora largamente (?) inespresse.
Closure, espressionismo, sinestesia, i sei passi della creazione vengono “rimiscelati” in questo atto d’amore di 220 pagine.
“Ho imparato molto sul fumetto dall’inizio di questo progetto e so che mi rimane ancora molto da imparare. Spero che tutti considerino la possibilità di esplorarlo…O continuare ad esplorarlo…Per conto proprio!“
Abbiamo parlato di:
Capire il fumetto – L’arte invisibile
Scott McCloud
traduzione Leonardo Rizzi
Vittorio Pavesio Editore, 1999
224 pagine, brossurato, bianco & nero – 19.63€
Di Scott McCloud potreste anche leggere:
Reinventare il fumetto (Reinventing Comics)
Vittorio Pavesio Editore, 2001
256 pagine, brossurato, bianco & nero – 21,69 €
Blur – Song 2 – 1997 ↩
tit. originale di “Assassini Nati”, film di Oliver Stone del 1994. Riferimenti: it.wikipedia.org/wiki/Assassini_nati ↩
Georges-Pierre Seurat (1859 – 1891) è stato un pittore francese, pioniere del movimento puntinista. Riferimenti: it.wikipedia.org/wiki/Georges_Seurat ↩