Davide Bart Salvemini è un orso rosa che si aggira nella foresta tra abeti a pois rossi e piante carnivore dagli occhi ondulati. Dopo anni di studi contrastanti, tra la voglia di costruire robot intergalattici e vivere avventure noir in città desolate, si avvicina allo studio della psiche deformando e colorando la proprio realtà.
Ama viaggiare, collezionare zaini e raccontare trip mentali intorno al fuoco.
Riesci a bilanciare una narrazione agile e scanzonata con tavole concettuali sullo stile di Jesse Jacobs e Chris Ware. Come sei riuscito a trovare un equilibrio tra questi due elementi?
Prima di lavorare nel mondo del fumetto e dell’illustrazione sono partito collaborando con diversi locali in veste di grafico. Gli equilibri tra spazio, testo ed immagine erano sempre all’ordine del giorno e con l’esperienza mi sono reso conto di come la “matematica” dietro all’impaginazione, avesse dentro di se una forza narrativa potente e a volte quasi mistica. Poi sono arrivati tra le mie mani le fantastiche tavole di Jacobs e Ware, ed è li che è partita la
scintilla. Imposto ogni volta le tavole in modo maniacale pesando ogni tipo di ingombro sia attraverso il
segno che i colori, cercando ogni volta di ottenere un lavoro fermo nella sua staticità. La fusione tra narrazione e grafica è diventata la mia vocazione: il mio linguaggio.
Sotto la patina psichedelica e le scelte cromatiche enfatiche c’è di più: riflessioni sul concetto di divinità, l’eterno ritorno dell’uguale e la foga dell’esplorazione continua. Pensi di aver creato un’opera complessa da assorbire, per i diversi livelli di lettura, oppure credi che il lettore possa anche divertirsi solamente con lo strato di avventura più superficiale?
Vengo da quello che mi è sempre piaciuto, ovvero i romanzi e i saggi, infatti il mio sogno nel cassetto è scrivere un romanzo. Nel fumetto ho visto la fusione fra la scrittura e i film, un altro ambito di cui sono appassionato. Quello che mi piace dei fumetti e che mi interessa da sempre è parlare di cose complicate facendo divertire il lettore. Per esempio, ho creato quei personaggini che sembrano un po’ giocattoli, ispirandomi a quelli che uscivano anche in edicola negli anni ’80/’90 con i quali da bambino inventavi le tue prime storie. Secondo me per Kaleido c’è bisogno di una seconda lettura, perché le immagini colpiscono prima e più efficacemente l’occhio, mentre con la rilettura si possono scoprire i contenuti e le idee di fondo. È importante nella società che si viaggi di più, ma non solamente per divertirsi, quanto per trovare nuovi punti di vista su quello che stai vivendo e avere un’apertura e una curiosità più forti.
In Kaleido c’è un narratore esterno che racconta attraverso didascalie e di tanto in tanto viene interrotto da altri due personaggi: la narrazione muta, così come il racconto, e tutto va pian piano a focalizzarsi sul ruolo della trasformazione e del cambiamento, fino al finale decisamente chiaro in questo senso. Ritieni che, grazie anche a questo concetto, i lettori possano dare un’ulteriore interpretazione all’opera, ribaltando ancora le carte in tavola?
Dentro Kaleido ho voluto inserire anche l’influenza dei libri illustrati per bambini. Quando invento i personaggi delle mie storie, mi immagino sempre i miei vecchi giocattoli e di come da piccolo inventavo storie dando ad ognuno di essi un compito o una quest sempre diversa.
La costruzione delle tavole colpisce fin da subito e si nota una sorta di densità e coesione delle vignette che convivono nelle stesse pagine, tra l’altro anch’esse ancora più compresse grazie alle cornici con le quali le circondi. Come è stata la lavorazione del libro in questo senso e cosa ti ha spinto a queste scelte?
Partiamo dal presupposto per cui ho sempre sofferto di horror vacui, per cui avevo l’ossessione di riempire gli spazi con particolari. Con la ricerca e con lo studio ho cercato sempre più di pulire il tratto ed essere il più minimale possibile. Lavorando anche nel campo dell’animazione volevo che le tavole prendessero spunto pure da quello. Per esempio in Kaleido ci sono tavole dove il gigante mangia delle persone, e ho voluto rendere quei movimenti come se fossero reali. Venendo solo da storie brevi su autoproduzioni, il lavoro con Eris mi ha fatto comprendere l’importanza dei vuoti e dei pieni all’interno della narrazione: cercare di non essere sempre troppo denso e provare a dare più respiro. Fosse per me andrei sempre a mille, con azioni continue e senza respiro, ma sono sicuro che il lettore esploderebbe poco dopo (ride).
Riguardo ai disegni, giochi molto con prospettive, forme geometriche, esaltazione dei dettagli tramite riquadri, mantenendo comunque un tratto morbido per le ambientazioni, i personaggi e le creature che popolano il mondo di Kaleido. Hai sfruttato queste scelte per creare un contrasto visivo o c’è altro?
L’unica scelta obbligata sono stati i colori, perché ho voluto creare una sorta di combinazione che li portasse sempre a brillare, come se ogni tavola fosse una serigrafia. Quando vedo una tavola penso a come possa funzionare integrata con i colori. Mano a mano che ho sviluppato il lavoro, ho pensato sempre più in modo geometrico, quasi come un architetto, usando il righello in ogni momento oppure in digitale usando una griglia. Per me è importante questa impostazione rigida perché sono nato con la poster art in cui credo sia importante la precisione tra segno e significato. Un equilibrio visivo capace di attirare i più distratti. Per me, ogni tavola è un possibile manifesto, e ognuna di essa ha la stessa importanza. Ho sempre amato le miniature medievali e il lavoro certosino per
costruirle e nei mie disegni cerco sempre quel tipo di lavoro, col tempo è diventata la mia forma di
meditazione.
Quali sono le tue opere e i tuoi autori di riferimento?
Come narrazione mi piace tantissimo Jim Woodring. Poi apprezzo molto Winshluss: vorrei avere la sua tecnica, avere le sue idee e disegnare come lui (ride). La casa editrice francese Les Requins Marteaux mi piace molto, perché è abbastanza malata ma c’è coerenza in quello che pubblica. L’ispirazione più grande viene dalla cinematografia, dai lavori di scenografia ed effetti speciali di
Cronenberg e dalla narrazione fluida di Paul Thomas Anderson ma amo anche le tamarrate, dai i B movie fino ad arrivare al trash. Credo che ogni tipologia di film possa essere importante basta soffermarsi sui punti forti del genere. Spesso le storie pulp partono e si evolvono in modo impensabile al limite dell’assurdo ed è in queste idee vedo sempre spunti per partire con nuove storie a cui darò le mie sfumature.
Intervista rilasciata dal vivo al Salone del Libro di Torino 2019