Dopo aver discusso di Roma Sarà Distrutta In Un Giorno, continuiamo l’intervista con Roberto Recchioni affrontando ovviamente l’argomento Dylan Dog, iniziando dall’incontro con Batman, passando per il Ciclo della meteora, il matrimonio, il passaggio di consegne da Sclavi a Recchioni e il suo ruolo all’interno di Sergio Bonelli Editore.
Ci sono tante novità su Dylan in questa Lucca 2019, forse quella che ha colpito più l’immaginario dei tanti fan è stata l’uscita del primo crossover tra Bonelli e DC Comics, quello tra Dylan Dog e Batman. Com’è nata la scelta di abbinare i due personaggi e quali spunti ne avete tratto?
Partiamo dalla cosa più pragmatica e cioè che se fai un’operazione internazionale del genere non lo fai con un personaggio secondario, per quanto possa essere più adatto. Se scegli Dylan Dog, che è il secondo fumetto più venduto d’Italia, dall’altra parte utilizzi un personaggio di uguale caratura della DC. Batman è stata una scelta quasi obbligata, era l’unico personaggio della DC che si sposava a quel livello di notorietà. Fermo restando che avrei scelto comunque Batman perché… è Batman. Comunque non ci sarà solo il Cavaliere Oscuro: la storia è di 200 pagine e si sviluppa sia all’interno dell’universo dylaniato, sia dell’universo DC, quindi appariranno John Constantine, che avrà parecchio spazio, Demon, Deadman, vedremo gran parte della rogue gallery di Batman, apparirà Selina Kyle… apparirà molto Selina Kyle! E poi Xabaras, Bloch, Jenkins, Groucho, Killex… ci sarà un sacco di gente nota e meno nota. Una bella festa di sangue. Io sono un grande amante di Batman, conosco davvero bene il personaggio e in realtà, ha molti punti in comune con Dylan, pur apparendo del tutto diverse. Certo, da una parte c’è un genio, il più grande detective del mondo, un miliardario, un vigilante mascherato che pesta la gente. Dall’altra c’è un mezzo cialtrone, un investigatore privato improvvisato che si fa guidare dall’istinto, uno sempre in bolletta, un indagatore dell’incubo che è contro la violenza. Ma, alla fine, Dylan e Batman condividono una profonda comprensione del lato oscuro. Per Dylan è evidente ed esternata anche a parole: i veri mostri siamo noi. Batman, più di ogni altro, quest’affermazione la capisce bene visto che è uno squilibrato che si veste da pipistrello… Batman non pensa di essere la soluzione ad un problema ma parte del problema stesso. Nel mondo ideale di Bruce Wayne, Batman non avrebbe ragione di esistere, anzi, non sarebbe mai esistito. Perché Batman (e qui torniamo un po’ al concetto di Godzilla) è l’esternazione di un trauma. Bruce Wayne non è uno sciocco e credo che capisca bene che, in termini pratici, sarebbe molto meglio investire il suo denaro per migliorare le scuole e tutte le infrastrutture sociali di Gotham, piuttosto che costruire una nuova batmobile, ma Bruce ha bisogno di Batman perché è tanto la sua malattia quanto la sua terapia. Dylan e Batman affrontano scelte morali simili, arrivano a fare spesso le stesse scelte; pensa al primo episodio de Il ritorno del Cavaliere Oscuro di Frank Miller, per esempio: in quel capitolo Bruce Wayne spera con tutto sé stesso che Harvey Dent non sia tornato a commettere crimini, che non sia tornato a essere Due Facce, perché Bruce ha investito tutte le sue speranze sulla sua redenzione. Se Dent ce la può fare, allora anche Bruce può farcela. Ma quando Due Facce riemerge, Batman comprende bene la forza di quel lato oscuro che domina il suo ex-amico. Perché è la stessa forza che domina lui. Dylan avrebbe fatto la stessa cosa.
Ancora: perché Batman non uccide Joker? Alcuni pensano che, così facendo, il pipistrello sia in parte responsabile di tutta la gente ammazzata dal Joker, e in parte è vero. Ma il Batman non uccide il Joker. Lo cattura e lo fa internare. Ogni volta. Questa cosa Alan Moore l’ha esplorata meravigliosamente: Batman continua a fare così perché si riconosce in quel mostro, perché ha una fortissima comprensione di quel mostro. Perché quel mostro è lui stesso. Il Joker e Batman sono due squinternati, Gordon è la persona normale, il sano. Anche questa è una cosa che Dylan capirebbe bene. I due personaggi hanno il cuore, lo spirito, dalla stessa parte.
Poi sicuramente, per certi versi sembra quel pezzo di Giorgio Gaber: “il mio papà guadagna trentun miliardi al mese… il mio, no”. È lo stesso tra i due: “io ho una macchina sportiva piena di tecnologia supersegreta”, “io no”. “Io ho miliardi”, “io no”. “Io ho un maggiordomo fedele, discreto e affidabile”… “io no”. Dylan batte Batman solo nel campo del successo con le donne, per il resto, uno è il più grande detective del mondo, massimo esponente del metodo deduttivo di Sherlock Holmes, mentre Dylan investiga a caso e per caso. È per questo che metterli accanto è stato particolarmente divertente. Per il resto, i personaggi sono quasi speculari. Fanno lo stesso lavoro (più o meno), hanno un rapporto speciale con un commissario-ispettore, hanno un assistenti sarcastici, degli amici speciali e degli arcinemici affascinanti come il Joker e Xabaras. L’unico vero problema del farli incontrare è che se un passante alzasse lo sguardo al cielo e vedesse un uomo che vola, nell’universo DC sarebbe normale, in quello Bonelli, invece, una cosa straordinaria.
Nel mondo Bonelli, uno come Killer Croc sarebbe un mostro sovrannaturale uscito da un incubo. Nel mondo DC è un pericoloso criminale. Quindi, la mia prima necessità era affrontare questo problema, fare in maniera che i due universi non stridessero. Per farlo ho usato un trucco: la DC mi ha permesso di fare una piccola retcon alle origini del Joker, quindi ho inserito un tassello che crea un territorio comune, un passato comune tra i personaggi, volto a creare l’illusione che siano sempre coesistiti sullo stesso piano narrativo. Poi ci ho messo un pizzico di distaccata ironia post-moderna per amalgamare il tutto.
Non hai mai nascosto la tua ammirazione per Frank Miller come autore e per quanto ha dato alla storia del Cavaliere Oscuro. Quanto è stato fonte d’ispirazione per te in questo progetto?
Il difficile è starne lontano. La prima cosa che ti viene da fare appena scrivi Batman è mettere una voce in prima persona dei suoi pensieri. Insomma, ti viene da scimmiottare Miller, e io oltretutto già mille volte ho rubato le sue frasi o le sue soluzioni, quindi il primo scopo è stato quello di guardare da un’altra parte rispetto a Frank Miller. Il suo modo di raccontare Batman è talmente iconico, e talmente importante per me, che dovevo trovarne un altro. Uno personale, che si sposasse bene anche con Dylan.
Il tuo percorso come curatore di Dylan e in questo Ciclo della Meteora ha aiutato te, e gli autori coinvolti, a scoprire meglio Dylan, lati inediti del personaggio o a riscoprire delle sue caratteristiche principali?
No, in realtà il problema non era conoscere o meno cose che non sappiamo di Dylan, ma più che altro quello di ricordarcele. Tornare a ricordarci che Dylan è un personaggio emozionante. Tiziano diceva che quando chiudi un albo di Dylan Dog devi sentirti destabilizzato, non devi essere rassicurato. Il mio scopo era tornare a proporre un personaggio che non avesse tutte le risposte, che facesse scelte controverse e ponesse molte domande. Tornare ad avere il coraggio ammettere che Dylan è un personaggio pieno di contraddizioni, idiosincrasie e anche tratti ipocriti che vanno portate alla luce perché sono la sua migliore caratteristica. Non sono elementi da nascondere perché hai paura di non saperli gestire o perché pensi che i lettori non li capiranno. In questo senso, Alessandro Bilotta, Paola Barbato e Carlo Ambrosini sono particolarmente bravi.
Passiamo alla serie regolare: con il #399 e l’ormai famoso matrimonio, Dylan prende posizioni ben precise, non si nasconde, anche davanti ai temi più delicati e attuali.
Tu usi però un termine che mi fa pensare: una presa di posizione. E io ti chiedo… ma quando mai Dylan l’ha lasciata, quella posizione? Una delle immagini più iconiche di Dylan Dog è lui che cammina alla testa di un esercito di mostri con la riproposizione de Il quarto Stato (il quadro di Giuseppe Pellizza da Volpedo – ndr). La posizione di Dylan è sempre stata quella ed è sempre stata chiarissima. Noi sappiamo che è sempre dalla parte del più debole, del diverso, dell’emarginato, dell’ultimo. È un personaggio interessante proprio per quello, perché nasce negli anni ‘80, quando c’era solo la celebrazione del vincente e Dylan invece è il il poeta sfigato che celebra il perdente. Non capisco neanche le reazioni indignate di certi fan, che poi sono quelli che dicono “Io leggo Dylan Dog dal primo numero” e a me verrebbe da rispondere “Sì e non l’hai capito”.
Dylan è sempre stato lì. C’è un vecchio slogan che dice “sempre dalla stessa parte mi troverai” che descrive molto bene il personaggio: non c’è mai stato un momento in cui si è allontanato dalla sua posizione “opposta e contraria”. Dire che Dylan è a favore dei matrimoni gay e del fatto che tutti devono avere gli stessi diritti all’interno della società non è per niente rivoluzionario, è la posizione di Dylan da sempre. L’abbiamo resa più palese con una storia del genere? Sì, ma è del tutto coerente con il personaggio. Quindi rimango stupito dalle reazioni dei fan… No, non è vero, lo sapevo in anticipo che sarebbe stato un puttanaio raro, ma è divertente per quello (ride).
Questo fino a un certo livello sta anche nel gioco della promozione, far parlare di un personaggio è fondamentale per tenerlo vivo.
Io credo che, nella bulimia della produzione seriale di questi anni, urlare contro il cielo indifferente è diventata una cosa fondamentale. Se non c’è una voce che dice delle cose chiare e con un tono bello alto, non ti sta a sentire nessuno. Da quando ho preso la cura di Dylan ho strillato parecchio, ma perché c’è la necessità di doverlo fare. Devi costantemente ricordare al mondo che esisti: io voglio che la gente vada in edicola ansiosa di leggere il nuovo albo, che sia curiosa e ansiosa. Che non veda l’ora di essere provocata intellettualmente e di scoprire cosa abbiamo combinato.
Io mi ricordo di aver letto storie di Tiziano in cui alla fine non ero perplesso, di più. “L’ultimo uomo sulla terra” finiva con Dylan che moriva. Il numero 100 per esempio, quanto è stato provocatorio? Io credo che siamo lentamente diventati dei fruitori di narrazione molto borghesi e quando arriva una forte provocazione reagiamo come vecchie zitelle indignate. Da una parte è divertente, perché è più facile avere reazioni scomposte, e perché c’è il mio lato cinico che sa che ogni volta che mi arriva addosso un’ondata di odio, le vendite salgono, quindi li guardo e anche con un po’ di cattiveria penso “Tanto comprerete comunque, anzi di più!” (ride). Però è anche parecchio stressante, lo ammetto. Sarebbe bello se fossimo tutti gentili, aperti, interessati e privi di pregiudizi. E anche la pace del mondo sarebbe bella. O la fine della fame. O il ritorno del Betamax…
Venendo al numero 400: non è il classico numero di festeggiamenti ma un vero e proprio spartiacque storico. Una sorta di passaggio di consegne. E nato durante il ciclo della meteora? Era già deciso prima oppure si è sviluppato durante il cammino?
È complicato. Il numero 400 nasce da un’idea particolarmente ambiziosa di fare un albo di celebrazione che fosse anche un punto di conclusione del ciclo della meteora, che fosse pure uno starting point per nuovi lettore e che fosse, in tutto questo, anche il terzo capitolo di Mater Morbi, visto che è passato giusto un decennio dalla sua prima apparizione. Alla fine c’era troppa carne al fuoco quindi ho deciso di eliminare quest’ultimo aspetto (anche se Mater Morbi appare comunque nella storia), e di giocare un po’ con tutto il resto. È una storia che riflette il tema principale su cui ci stiamo interrogando da quando è iniziata quest’operazione di rilancio di Dylan, ovvero il concetto di eredità. Cosa significa rispettare l’eredità di un padre. Secondo me, Tiziano e Cristina (Neri, moglie di Sclavi – ndr), per rispettare davvero un padre a un certo punto lo devi uccidere, cioè a un certo punto devi fare tuo il suo insegnamento e dimostrare di poter essere autonomo e andare oltre di lui. Questo passaggio è necessario, fondamentale, in un percorso di crescita. E durissimo da accettare perché viviamo in una società che ci vuole tutti figli. Esseri umani adulti per dato anagrafico ma bambini come sviluppo emozionale. Una società che ci dice che non è mai colpa nostra ma sempre di qualcun altro, del sistema, di “loro” o degli “altri”. Invece io credo fermamente che essere adulti significa assumersi le proprie responsabilità, Quindi, per essere un autore adulto, devevo “uccidere” mio padre e prendermi la responsabilità di quello che stavo facendo, e con questa storia mi assumo la responsabilità di Dylan Dog. Tiziano me lo chiese sin dall’inizio, lui voleva che scrivessi Dylan tutti i mesi come faceva lui. Negli ultimi 3-4 anni ho sempre rimandato questo momento, ho cercato di scappare da questa cosa perché era una responsabilità davvero importante. Adesso, col 400 dico ok, è ora di fare il mio Dylan e di andare oltre Tiziano.
Credo tu e Tiziano ne abbiate parlato molto. Che cosa significa per lui abbandonare questo personaggio, che, nel bene e nel male, rimane quello che lo ha reso?
Non ti posso rispondere perché è una risposta che ti può dare solo lui. Io ti posso parlare di cosa significa riceverlo, ma quello che passa per la testa di Tiziano in una sfera così intima non te lo posso dire perché sarebbero solo supposizioni, non mi azzarderei mai a parlare al suo posto. Io so che Tiziano ha già lasciato Dylan in passato, dopo più di 140 albi, e che oggi invece lo ha in qualche misura ritrovato. Lo ha ritrovato tanto nell’idea che era necessario affidarlo a qualcun altro e che questo qualcun altro deve avere una voce sua, non deve essere un impiegato che porta avanti un personaggio tanto per, quanto nell’essere tornato a scrivere alcune cose. Per quello che mi riguarda è fighissimo ricevere una cosa genere ma è anche una maledizione, nel senso che il peso di un personaggio come Dylan Dog è enorme, perché enorme è la sua storia e enorme è la quantità di lettori che ancora raggiunge. Non c’è una piena percezione di quanto sia un ancora ampio il suo successo editoriale. È impressionante, ed è impressionante perché una parte del suo pubblico è ancora della prima generazione. Mentre la prima generazione di Tex “è andata a suonare l’arpa con gli angeli”, come direbbe quel tizzone d’infero, la prima generazione di Dylan è tutta presente, e quindi è difficilissimo trattare con una parte del pubblico che è invecchiata quando il personaggio non lo ha fatto. Io ho deciso che l’unico modo per rispettare il personaggio è quello di cercare di scriverlo bene e basta, non pensando a chi poi lo leggerà e con quale spirito.
Nasce quindi il vero Dylan di Roberto Recchioni. Un passo ulteriore e successivo alla veste di curatore della testata. Una responsabilità ancora più grande quindi?
Sì, sicuramente. È il passo che ha già fatto Mauro Boselli con Tex, e che io non avevo ancora avuto il coraggio di fare. Alla fine Boselli ha detto: Tex sono io. Quest’anno lui ha scritto 19 storie, una quantità impressionante. Una cosa che non capisco è perché non venga maggiormente celebrato un autore come lui, che vende qualcosa come 200000 copie al mese di media. Dovrebbe essere intervistato ogni giorno per la maestosità di quello che sta facendo. È quello che voglio fare anche io, iniziare a scrivere Dylan con molta forza e dare la mia visione effettiva del personaggio; gli episodi che ho raccontato fino a questo momento sono miei, ma ho sempre fatto la guest star per molti versi. Scrivevo una storia e poi sparivo per po’, mentre adesso si tratterà di scriverlo tanto.
Questo significa che il parco scrittori sarà rivisto e ridotto.
Sì, sì, è inevitabile. Per cinque anni mi sono speso davvero tanto nella ricerca e nella pubblicazione di voci adatte e interessanti. Alcune di queste voci hanno funzionato, alcune meno, ma di autori che si sono proposti per dire “adesso ti racconto come è il mio Dylan Dog” ne è arrivato uno solo, Alessandro Bilotta, che ogni anno ci racconta il “suo” Dylan Dog ne Il pianeta dei morti. E sono felice di pubblicarlo, anche se è difficilissimo perché Alessandro è lento ed è complicato. Ma è un autore che ha il coraggio di raccontare il suo Dylan e lo fa benissimo. Anche Paola Barbato fa il suo Dylan, ma Paola è, e sarà sempre, nella serie. Altri ci hanno più o meno provato, alcune storie hanno funzionato bene, altre meno, altri sono partiti in una maniera ma poi sono diventati qualcos’altro. Altri sono spariti. Quello che sicuramente è mancato nella generazione degli sceneggiatori che ho cercato, sia fuori che dentro la Bonelli, è un po’ di arroganza: Dylan tende a mettere tutti un po’ in soggezione e invece ho bisogno di autori che lo guardino dritto negli occhi. Ho bisogno di autori che mi dicano: Roberto parliamo di questa storia perché ti farà incazzare.
Vorrei parlare di Angelo Stano. Il 400 è un numero graficamente superbo, pieno di immagini simboliche di messaggi metanarrativi, forse una delle sue migliori prove.
Sì, credo sia una delle cose più belle che Angelo ha disegnato negli ultimi anni. Io sono uno sceneggiatore che parla con i disegnatori ma ero un poco in crisi con Angelo perché, dopo il mio arrivo come curatore della famiglia di testate di Dylan Dog, ad un certo punto ho sentito la necessità di cambiare l’approccio alle copertine. È chiaro che una scelta del genere ha generato una certa tensione tra me e lui. Poi abbiamo parlato, ci siamo confrontati e abbiamo capito che quello non era un momento di crisi ma di rinnovamento. Sollevato dall’impegno delle copertine, Angelo poteva concentrarsi solamente sul disegno, tornando alla ricerca e al fumetto puro, per fare le migliori storie possibili. Avevo un disperato bisogno di lui perché lui è Dylan Dog, Dylan non puoi immaginarlo se non disegnato da Stano. O da Corrado Roi. Anche con Corrado, all’inizio, è stata complicata. Ci scornavamo sempre. Io lo adoro come persona e pure come artista, ma solo quando ha voglia di disegnare, quindi con lui mi sono posto del tipo “Corrado dimmi che cosa non ti va di fare e cosa ti piace fare, e io ti scriverò storie su misura dove mi darai il meglio. Ma non mi dare più il compitino fatto alla buona perché io voglio il miglior Roi”. Oggi io e lui siamo amici e lavoriamo splendidamente assieme. È assurdo perché, in questo momento, i rapporti migliori che coltivo tra gli autori Bonelli sono quelli con Boselli, Roi, Stano e Mari. Tutte personalità piuttosto ostiche. Questo mi fa pensare che anch’io non devo avere un carattere così facile. Questa cerchia di persone che si intendono bene evidentemente, ha il tratto comune di un carattere di merda (ride).
Tu sei entrato come curatore di Dylan Dog portando un nuovo approccio, nuovi autori. Come sei stato accolto, qual è il tuo rapporto con gli autori storici?
Io sono un alieno in Bonelli e rimango un alieno. Intanto perché non lavoro redazione e tra i curatori sono uno dei pochissimi che se ne sta a casa e va e viene quando vuole. I curatori di testata – specie delle testate cardine – stanno in redazione, di solito. Invece io ho una scrivania in redazione che occupo un paio di volte al mese. Questa è una delle ragioni che fanno di me un alieno. Se vuoi ti dico con ipocrisia che in redazione ci amiamo tutti, ma non non è così. Sergio Bonelli Editore è un’azienda e le aziende sono piene di contrasti, certe volte sani (come quelli artistici o di normale competizione tra reparti) certe volte, invece, meno sani. Ci sono invidie, rancori e conflitti generazionali come in qualsiasi altro campo. La questione generazionale è particolarmente sentita. Per quanto io oggi non sia più un autore giovane, nel contesto Bonelli sono ancora uno che “è arrivato per ultimo”, entrando a gambe tese nel cortile di qualcun altro. Molti dei “vecchi” non mi hanno visto arrivare. In più, sono arrivato da fuori e ho preso il posto di un’altra persona che era ancora in salute e lontanissima dalla pensione, una persona che aveva fatto un percorso professionale in seno alla Bonelli più tradizionale del mio. In Bonelli una cosa così non era mai successo prima, mi pare. Un avvicendamento del genere, in un contesto molto chiuso, molto abitudinario, è difficile da digerire e, soprattutto, destabilizza e fa sentire tutti meno al sicuro.
Aggiungici poi le questioni prettamente lavorative: alcuni autori hanno lavorato meno rispetto a prima perché io ho fatto delle scelte diverse rispetto al mio predecessore (e questo genera altri malumori, ovviamente) e mettici anche il mio carattere… e capirai che no, non ho la simpatia di tutti. Forse nemmeno della metà di tutti. Ma non ho nemmeno la pretesa di averla. Facciamo fumetti, non siamo un club degli amici.
Comunque, è molto educativo. Guardando le rigidità altrui nei miei confronti, cerco di non essere rigido nei confronti degli altri, di rimanere flessibile. Ho il terrore di cominciare a fare il muschio, di non essere più una pietra rotolante. Quindi, cerco di tenere la mente aperta, cerco di osservare quelli che arrivano, sono interessatissimo agli sceneggiatori bravi. Per esempio, ho visto Lorenzo Palloni ed è un autore che mi fa rosicare: negli ultimi anni, è il primo sceneggiatore giovane che sa scrivere sul serio che vedo arrivare sparato come una palla da cannone. Rispetto a lui ho capito di avere due possibilità: irrigidirmi ed essergli ostile, perché ho paura di lui, mi fa sentire vecchio e ho capito che un giorno mi ucciderà, oppure fare come fa Darth Sidious: alzare la cornetta e dirgli “Lorenzo mi fai un un albo interamente progettato da te di Dylan Dog e poi diventi un autore fisso della serie?” E’ andata così e sono contentissimo. Perché Lorenzo è bravo. E perché ora avrà un tentennamento nell’ammazzarmi, quando verrà il momento. Ed è in quell’attimo di debolezza che gli avrò suscitato che io lo ucciderò con i miei raggi laser dalle mani.
Intervista rilasciata dal vivo a Lucca Comics & Games 2019.
Roberto Recchioni
Roberto Recchioni è uno dei più noti fumettisti italiani. È stato autore di storie per personaggi come Dylan Dog, Tex e Diabolik. Ha creato, assieme a Lorenzo Bartoli, la serie di culto John Doe. Per Sergio Bonelli, assieme a Emiliano Mammucari, ha inventato Orfani. Recchioni ha scritto e scrive romanzi, soggetti cinematografici, servizi giornalistici, critica cinematografica e saggi. Attualmente, è curatore e sceneggiatore di Dylan Dog. Ha scritto i testi della miniserie Memento Mori, riprendendo la saga di The Crow – Il Corvo di James O’Barr. Nella collana Feltrinelli Comics ha pubblicato La fine della ragione (2018) e RSDIUG. Roma sarà distrutta in un giorno (2019; feat Il Muro del Canto). (biografia tratta da comics.feltrinellieditore.it/autore/roberto-recchioni/)
Simone
6 Dicembre 2019 a 15:49
Perfetto, finisco la serie al 400, troppo supponente Recchioni
la redazione
6 Dicembre 2019 a 18:51
Crediamo che uno debba decidere in base alle storie, non a chi le scrive. Al netto che se uno non le apprezza fa bene a smettere di leggerle senza farsi del male.
Simone
6 Dicembre 2019 a 20:21
Purtroppo questo ciclo non lo sto apprezzando. Non bisognava scombussolare il suo universo per crearne interesse.
Come mai in Tex, non e’ cambiata mai una virgola, e continua piacere e vendere? Perche’ ci sono storie appassionanti, avventurose e ben scritte.
Con la gestione Gualdoni Dylan era diventato lo spettro di se stesso: si stava affossando. Ci voleva ovviamente una scossa, ma non uno stravolgimento completo: Bloch in pensione e’ un’assurdita’ per esempio, etc. etc.
Per risollevare Dylan ci vorrebbe un autore tipo Berardi, lui ha la stessa sensibilita’ di Tiz, lo stesso suo calore.
Alex
6 Dicembre 2019 a 17:38
Continuo a comprare e leggere Dylan dog solo ed unicamente perché lo faccio da 23 anni … Mettiamoci abitudine e mettiamoci amore per un personaggio che mi ha accompagnato nella mia vita dall’adolescenza , ma per il resto non vedrei altri motivi … Non c’è assolutamente piu niente del Dylan dog creato da Sclavi … Diciamo pure che recchioni ha ucciso l’anima di Dylan …
la redazione
6 Dicembre 2019 a 18:50
Un po’ melodrammatico! :-D Al netto di questo, se uno non apprezza più una serie fa bene a interromperla e conservare il piacere delle storie che ha amato.