Due fumetti gemelli
Fine ottobre 2015: è curiosa la coincidenza che vede uscire in edicola, per Sergio Bonelli Editore e a pochi giorni di distanza, Hellnoir e Morgan Lost, testate che condividono una reinterpretazione del noir ottenuta dall’aggiunta di una specifica fascinazione narrativa.
Veniamo immersi in due città labirintiche, oscure, brulicanti di umanità disumanizzata: le ambientazioni determinano il sapore delle testate quasi più della caratterizzazione dei comprimari o del genere di riferimento. I protagonisti (secondo una regola non nuova per la casa editrice) hanno nomi semplici e dichiarativi, che traducono in inglese dei veri e propri slogan per i format che rappresentano: Soul per un detective che non ha un vero corpo, Lost per un cacciatore di taglie che fa della perdita e dell’indeterminazione i componenti fondanti del proprio approccio alla vita.
I due progetti grafici mostrano uno stile coeso e riconoscibile, che si distingue fra le altre proposte in edicola e colpisce quasi più dei contenuti narrativi: di tutte le possibili suggestioni entrambi paiono aver scelto, utilizzando diversi suoi ingredienti, la ricetta del Frank Miller hard boiled, ma è una somiglianza larvale che nasconde due percorsi originali.
Hellnoir e Morgan Lost, insomma, sono contenitori di avventure che sembrano inserirsi in filoni attigui dell’immaginario. Tanto che viene naturale confrontarne esiti e potenzialità.
Due approcci alla narrazione
Morgan Lost: un fumetto autobiografico
Partiamo con la creatura di Claudio Chiaverotti, che sceglie il sapore e le possibilità offerte dall’ucronia. Morgan Lost è un investigativo procedurale: ogni numero è dedicato alla cattura di un serial killer, in un mondo alternativo che valorizza le estremizzazioni, si popola di colori sgargianti, di luci violente degne di Blade Runner, ma al contempo veste come l’incubo art déco di una Gotham City invasa da divinità egizie.
Le due parole d’ordine sono: didascalico e saturato.
Didascalico: perchè si avverte una estrema propensione a chiarire le intenzioni e le caratteristiche dei personaggi. Paradigmatica, da questo punto di vista, è la presentazione dell’eroe da parte dei colleghi nel primo volume: un identikit del personaggio tanto intelligibile quanto artefatto, che dà l’impressione di un dialogo posticcio, rivolto principalmente al lettore, teso a porre al contempo le basi per l’entrata in scena di Morgan, ma anche a dichiarare gli intenti grafici della testata (con questa ingombrante frase della cacciatrice di taglie Ingraine: “Il suo daltonismo gli fa vedere il mondo in sfumature di grigio e sprazzi di rosso come se fosse uno strano film o un fumetto pulp, con ammazzamenti e schizzi di sangue!“). Sarebbe stato molto meglio lasciare che le caratteristiche del protagonista venissero fuori dalle pagine della storia a poco a poco: ne avrebbero ricavato una forza ben maggiore.
Questa struttura così implacabilmente intellegibile dona al fumetto un sapore antico, che cozza con espedienti più moderni, come la mancanza di didascalie introduttive per le scene (che non siano le meditazioni “noir” di Morgan) o un montaggio spesso tutt’altro che lineare (come avviene ne L’orologio del tempo, dove la sequenza iniziale riporta un evento che si sviluppa a metà dell’arco temporale della vicenda, o in Mr. Sandman, dove la storia ha una struttura mutevole, che devia in preda a suggestioni e nel finale si ripiega su se stessa, o ancora in I coniugi Rabbit che si costruisce all’insegna di un’alternanza fra narrazione e meta-narrazione). Non mancano idee interessanti, ma la zavorra chiarificatrice che Chiaverotti si porta dietro appesantisce il risultato.
Strana compagna di viaggio della prima, la seconda parola d’ordine: la saturazione.
Anzitutto di contesto: New Heliopolis, il teatro degli eventi, è un magma di identità forti e in conflitto, un’umanità allo sbando che, un po’ come la storia che ne racconta le imprese, si lascia andare a tutte le suggestioni possibili. La copertina del primo albo, con il suo patchwork di volti minacciosi, è una dichiarazione programmatica in merito, che rispetta gli intenti di Chiaverotti sull’importanza degli antagonisti, ma ci ricorda che una comunità è inevitabilmente la somma delle proprie individualità.
Sebbene l’io narrante delle didascalie sia sempre e solo Morgan, la serie si presenta come noir corale: le storie dei comprimari entrano di prepotenza nel flusso del racconto “principale”, movimentandolo, spesso efficacemente.
Il problema è che la lettura di Morgan Lost è un continuo, a volte eccessivo, assalto ai sensi: il montaggio delle scene è frenetico, le dinamiche dei dialoghi e delle fasi investigative sono iper compresse. Retrospettive importanti, come il passato tragico di Morgan, le ragioni dell’invalidità della sua mentore Pandora o la genesi criminale di uno dei principali antagonisti, Wallendream, si esauriscono in poche pagine, come aspirassero a essere compendi delle reali dinamiche a cui fanno riferimento. Con il risultato di sembrare alla meglio poco realistiche, alla peggio quasi parodistiche.
L’esempio più evidente è forse Wallendream, con la sbrigativa scelta di maschera, ragione sociale e nome di battaglia, il tutto in un’unica scena che allinea troppi elementi nello stesso istante, evitando di chiarire i perchè della coincidenza. Ma anche l’intera dinamica de L’orologio del tempo, dalla rapidissima cattura del killer fino al percorso giudiziario liquidato in due passi, senza uno straccio di reale contraddittorio, testimonia questa ricorrente esasperazione della trama.
Viene facile chiedersi se la dichiarazione di Chiaverotti nell’editoriale del secondo numero, circa l’autoconclusività di tutti i volumi della testata, non sia (anch’essa) per lo meno affrettata: tutte le storie finora (anche il primo, doppio episodio), avrebbero beneficiato di una diluizione dei contenuti che consentisse alle tematiche di sedimentarsi.
Ma la saturazione non si ferma qui: il tessuto narrativo di Morgan Lost è un costante conflitto fra dimensione reale e deriva onirica, che spesso si giustappongono senza soluzione di continuità.
La cifra stilistica peculiare della serie sembra proprio un’esaltazione del punto di fuga poetizzante, della meditazione sulle diverse prospettive del singolo attimo: spesso questa tensione non rimane nelle immagini, ma è ribadita attraverso i pensieri del protagonista.
Non è un concetto nuovo, per Chiaverotti: una struttura del genere è una caratteristica tipica di Dylan Dog e, fra gli altri, dei suoi Dylan Dog.
In Morgan Lost, però, questo elemento prende le redini delle storie quasi più che nell’indagatore dell’incubo, deviando il racconto secondo i propri voleri, diventando motore dell’azione ed etica narrativa. Se proprio volessimo individuare la “variazione sul tema noir” della testata, la troveremmo proprio qui, in questo flusso di pensieri e di eventi che mantiene una felice incontrollabilità di fondo.
Il problema c’è quando “didascalico” e “saturato” si alimentano a vicenda: se la tendenza a sovraccaricare si combina con la volontà di spiegare, gli effetti sono due: l’impoverimento e la sovraesposizione.
Impoverimento: come avviene per le trasmissioni radiofonico / televisive che punteggiano le storie, e che si limitano a pochi canali comunicativi ripetuti in loop (le sexy news, il programma della Goodnight, la lista dei serial killer). Per non parlare di Regina Dolarhyde, unica interfaccia di Morgan con le forze dell’ordine, o Pandora Stillman, non un semplice profiler, ma il miglior profiler della città.
Il gioco parte, in sostanza, da una città in teoria brulicante di umanità, ma non prova a tradurla in una analoga vastità di esperienze, perchè le ricorrenze sono più intellegibili e comode per il lettore. È desolante confrontare una situazione così povera con l’esaltante caleidoscopio del capolavoro cyberpunk di Warren Ellis, quel Transmetropolitan dove la città post moderna straripava di suggestioni.
Ma parliamo anche di sovraesposizione: quando una suggestione lo colpisce, Chiaverotti ha la tendenza a ripeterla, riproporla, riverberarla senza trasfigurarla, con l’effetto di renderla stucchevole. È una sorta di figlia diretta della saturazione, in cui ci imbattiamo, ad esempio, nel pur buono Mr. Sandman, con la canzone delle Cordettes che ne diviene tormentone, o ne I coniugi Rabbit, che insiste troppo sulla sua natura meta fumettistica, ripetendo lo schema come un mantra assordante.
Se la tendenza alla didascalia è figlia di una concezione non proprio giovane del fumetto di intrattenimento, è curioso come la saturazione sia invece, apparentemente, figlia più recente della nona arte.
Ma qui la saturazione non appare tanto scelta concettuale, come potrebbe essere per un Grant Morrison, quanto piuttosto diretta conseguenza di una caratteristica importante nell’ultima creazione di Chiaverotti, ovvero la sua natura profondamente “autobiografica”.
Morgan Lost è una trasposizione su carta del suo genitore: la passione per il cinema, le emicranie, la notte vissuta come scenario prediletto, i capelli lasciati lunghi e incolti, persino la maschera sul volto che tanto ricorda gli occhiali da sole sfoggiati dallo sceneggiatore negli incontri di presentazione.
E questo è senza dubbio un vantaggio: si avverte, nelle storie, una felice imprevedibilità che occhieggia dietro gli snodi della trama e regala momenti, nonostante i difetti, indovinati perchè se ne percepisce l’assenza di filtri, il collegamento non meditato con la testa dell’autore. Ma è anche, paradossalmente, uno svantaggio: perchè un flusso di pensieri con poco controllo programmatico, forzato in un contenitore piccolo come il volume canonico bonelliano, stipa l’esperienza di lettura con una catena di micro scene irrisolte.
Hellnoir: un esercizio di stile
Come si situa il lavoro di Pasquale Ruju, rispetto alla sarabanda di Morgan Lost?
Le parole chiave potrebbero essere stile e stratificazione.
Stile: perchè mentre Morgan appare un figlio diretto del suo genitore, Melvin Soul è parto della passione di Ruju per il genere di riferimento, e fa di tutto per non discostarsene.
È il private eye di chandleriana memoria, veste impermeabile e cappello di ordinanza, vede il mondo in tinte grigie, si autocommisera, è un eroe che si ritiene un irrimediabile antieroe, preferisce strisciare ai margini, farsi i fatti suoi (per quanto gli riesce), si abbarbica ai propri affetti, come fossero l’unica cosa pura che gli è capitata in sorte e che non è ancora riuscito a rovinare.
Insomma, Hellnoir è un lavoro che non scava sul personale dello sceneggiatore e preferisce mantenersi un valido esercizio di stile.
Il gioco, la formula del prodotto, è tutto nell’ambientazione della vicenda, che vede la città come un vero e proprio girone aggiunto dell’inferno, il luogo dove le anime dei morti ammazzati trascinano una inaspettata esistenza secondaria, nella speranza di non passare a peggior vita.
Laddove l’ucronia di Chiaverotti si presta anche a interpretazioni politiche o morali, qui il motore del narratore e la curiosità del lettore vengono dal piacere per il racconto, e null’altro.
Interessante è la soluzione bipartita, che vede una comunicazione fra mondo reale e mondo demoniaco: fra Cassie, figlia d’arte, e il padre trapassato. Una trovata di sicuro pregio, che ha, anche qui, il solo problema di difettare del coinvolgimento necessario a darle una spinta in più (la Soul viva segue infatti le regole dei polizieschi moderni, come il padre trapassato fa con i dettami del noir).
L’aderenza forte agli stilemi del genere ci spinge a rapportarci alle pagine di Ruju con un certo grado di distacco da lettori che ricordano, più che da lettori che scoprono o vivono il racconto. Si potrebbe ipotizzare che una caratterizzazione dei personaggi più sfaccettata fosse poco necessaria a una miniserie, che appare un progetto focalizzato, concentrato su una singola intuizione, piuttosto che compiuto a trecentosessanta gradi. Ma un’estensione su quattro numeri, forse, avrebbe meritato attenzione maggiore anche a questo aspetto.
In un ipotetico confronto di intenzioni fra Chiaverotti e Ruju, rimane quindi un vantaggio del primo sul secondo, perchè una storia priva di sostanza umana tende inevitabilmente ad essere più leggera e quindi più dimenticabile.
Ma spostiamo l’attenzione sulla grammatica del racconto, le regole connettive e costitutive di scene e intreccio. Entra qui in gioco la seconda parola chiave: stratificazione.
Il passo di Hellnoir è lento, la lettura si avvolge intorno ai leit motiv esposti dalla testata sviscerandoli a poco a poco, fra poliziotti corrotti dalle lusinghe del denaro e soprattutto dalla propria natura, sensualissimi demoni femmina, sciami di criminali comuni che passano da aggressori a vittime a ogni refolo di storia. L’alternanza fra mondo reale e infernale, che è senza dubbio uno dei dati di targa della testata, è un interessante espediente, ma non maschera la natura strumentale del primo contesto in favore del secondo.
Perchè Hellnoir è un noir con protagonista unico, Melvin Soul. E l’avventura parallela della figlia appare, con il progredire della storia, sempre più un’eco funzionale alle avventure del padre. Ruju ama focalizzare la sua lente di ingrandimento narrativa, piuttosto che lasciarsi andare a suggestioni laterali, lavorare in aggiunta su quello che ha, più che aggiungere qualcos’altro a quanto detto.
Se in Morgan Lost la città è la somma delle sue devianze private, in Hellnoir la metropoli è un organismo vivo, una costruzione con un suo nucleo univoco, una sua oscura ragion d’essere, cresciuta inglobando la sofferenza di milioni di anime. Milioni di anime di cui avvertiamo vastità e poliedricità, forse perchè i dettagli si accumulano ai bordi, e nella sfocatura con cui li recepiamo sembrano più di quanto non siano realmente, ma anche perchè Melvin non è il miglior detective, ma solo uno dei tanti detective, e i suoi comprimari non sembrano gli unici o i migliori comprimari possibili.
Lo stesso Ruju, nel tracciare ipotesi su un futuro della testata, per ora non previsto, ha parlato di storie di altre anime e non necessariamente della prosecuzione dell’avventura di Melvin: perchè Hellnoir non ruota certo intorno al detective Soul, mentre New Heliopolis sembra esistere in funzione di Morgan Lost.
La stratificazione, insomma, è un ottimo espediente per rendere la molteplicità attraverso una singola soggettiva, laddove la saturazione didascalica era al contrario la zavorra che limitava la coerenza della rappresentazione di New Heliopolis.
Il racconto ha una sua essenza monolitica, ottenuta suggerendo, ma al contempo limitando le distrazioni. Il risultato è concreto e tutt’altro che frastornante. Ci immergiamo nella lettura con un senso di comodità. Anche i passi delle indagini assumono una tempistica più realistica, meno affrettata, pur rispettando (specie nel mondo hard boiled di Melvin) regole diverse e garantendo una (comprensibile) velocità superiore al consueto.
Nonostante il noir sia un genere molto raccontato, Ruju dimostra di saperlo gestire non trascendendo mai nel didascalico. E in questo vince il confronto con Chiaverotti.
Il confronto tra i due fumetti continua e finisce nella seconda parte, dove prenderemo in esame l’aspetto grafico e tireremo le conclusioni.