Tutti i nostri Corpi: intervista a Wally Pain

Tutti i nostri Corpi: intervista a Wally Pain

76 incontri fatti di testo e illustrazioni a tutta pagina.: intervista a Wally Pain per il suo libro "Corpi".

76 incontri fatti di testo e illustrazioni a tutta pagina.
76 esperimenti mentali per Wally Pain che racconta le storie di tante persone, e un pezzettino della sua. L’iniziale ritrosia e imbarazzo per Corpi, opera d’esordio di Luana Belsito in arte Wally Pain, edita da Feltrinelli, a fine lettura lascia il posto a molta dolcezza e uno sguardo empatico sui tanti modi di vivere relazioni e sessualità. Avere coraggio di vedere, considerare, scegliere, rispettare consente di abbattere malizia e morbosità, ed essere finalmente liberə di essere se stessə.

Ciao Luana e benvenuta su Lo Spazio Bianco.
Sei appena tornata dall’ARF
(al momento dell’intervista – ndr): com’è andata? 
Molto bene, è una delle mie fiere preferite e andarci da autrice è stato bellissimo.
Io sono una persona timida quindi è stato anche un po’ traumatico: la timidezza mi fa diventare logorroica e ho sempre paura di parlare troppo, anche se a me piacerebbe ritrovarmi con un autorə che leggo per farci due chiacchiere.
Dato che ho abitato a Roma fino a novembre è stata anche una bella occasione per rivedere molte persone. Un festival bello pieno.

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Questo libro di esordio come l’hai pensato? È stato qualcosa che hai progettato con l’editore? Da tua follower su Instagram, la tematica mi sembra molto tua.
Già da qualche anno avevo in mente di fare un albo illustrato, poi ho pensato di associarci dei racconti brevi. L’idea di fare come primo libro un fumetto mi spaventava, perché sono una persona che sperimenta molto quando disegna e sono lenta nel trovare il modo giusto nel raccontare le storie.
Dato che avevo trovato un tipo di disegno che mi piaceva, mi sono detta: «Perché non farci un libro di racconti illustrati, che comunque è un ibrido che ti permette di non impazzire nella ricerca spasmodica del segno e calza benissimo con i racconti brevi?».

Quelli li hai scritti sempre tu? Raccontano così tanti punti di vista fra dialoghi, monologhi, confessioni che sembra che alcuni ti siano stati regalati.
Sono tutti miei, sì. Nell’ultimo racconto c’è la chiusa sul perché ho voluto raccontare storie diverse: mi considero una persona estremamente empatica e mi piace proprio vedere le diverse sfaccettature delle persone. Misurarsi con racconti sulle diverse possibilità della natura umana al di là del genere mi calza a pennello.
Ci sono storie sentimentali, romantiche, alcune che raccontano di incontri e basta, ma che secondo me hanno comunque un loro valore. Anche un incontro occasionale può essere una cosa potente.

Sono talmente viscerali che è proprio come se fossero tanti esperimenti mentali, l’immedesimarsi in tanti cuori e tante pance.
Alcune sono suggestioni di esperienze che non ho vissuto direttamente. Mi sono immedesimata in cose che sono distanti da me per mettere l’attenzione su diversi discorsi: ci sono delle storie che parlano di persone che si sono ritrovate ad avere una storia extra coniugale, e mi è servito misurarmi con una realtà diversa dalla mia. Non c’entra con il poliamore, quello lo capisco, così come la non monogamia, la cosa che mi stranisce è quando una persona si mette con un’altra e poi omette. Essendo però che come esseri umani non siamo coerenti, è affascinante anche indagare un essere diverso da quello che sei tu, da come ti approcci tu alla gente.
Della mia storia personale ho messo qualcosa nel racconto finale, E l’amore per me, e in Specchio.

Hai fatto anche studi di antropologia o sono interessi tuoi che sono emersi negli anni?
Non ho fatto studi specifici ma leggo tanto, mi piace molto la filosofia, quindi penso che siano derivazioni delle mie passioni. È il mio percorso, e ne è uscita questa sintesi.
Mi piace moltissimo Emil Cioran, che ho letto quando facevo l’accademia a Firenze. Ho iniziato con Sillogismi dell’amarezza – che tenevo sempre sul comodino– e La tentazione di esistere, L’inconveniente di essere nati, Finestra sul nulla.  Mi piace molto anche Kierkegaard. Sempre nel periodo di Firenze lessi Diario di un seduttore
Le letture per me sono un po’ come delle fotografie: quando ci ripenso ricordo e rivivo il periodo in cui le intraprendevo, e alcune di queste sembrano scavarti dentro.
Non saprei stilare una lista dei miei scrittori e delle mie scrittrici preferiti, e lo stesso vale per gli autori di fumetti. Non so scegliere, vado a periodi.
Un’autrice che mi piace tantissimo è Emil Ferris, La mia cosa preferita sono i mostri mi ha emozionato come pochi, forse seppur su piani diversi ci era riuscito Paco Roca con Rughe. Mi piace molto come sono concepiti: sono differenti tra loro, ma potenti.
In generale non cerco la rappresentazione di me stessa nelle opere, ma quando la trovo mi commuove.

Sempre sul tuo rapporto con il tratto, cui hai già accennato parlando della sperimentazione: su Instagram hai postato varie tavole fra gouache, acquerello, pennarelli. Che rapporto hai con queste tecniche? Che opportunità di esprimersi offrono? Alcuni degli ultimi soggetti non erano mai apparsi prima.
Io nasco come disegnatrice su carta, ho cominciato a sperimentare il digitale quando ho finito la scuola di Comics nel 2018 e lo uso in modo abbastanza basilare, senza troppi livelli e cose del genere.
Per quanto riguarda le tecniche, provo a sperimentare quelle che mi incuriosiscono, ce ne sono di talmente varie e disparate (e disperate, pure)!
Fatto questo libro in digitale, ho avuto la necessità di tornare a “soffrire” sulla carta. Almeno per la sensazione che mi dà, è la sensazione di qualcosa di vivo e che non puoi modificare più di tanto.
Al di là della bellezza, a mio gusto, del disegno su carta, anche l’approccio è diverso: in digitale c’è la tendenza a sistemare dove possibile e si potrebbe continuare all’infinito, mentre su carta no. Sto facendo dei disegni a pennarello, sia per sciogliermi la mano sia perché sto cercando di darmi una disciplina nel trovare una sorta di sintesi anche nell’errore. Più disegno in questo modo, più affino, e più riesco a far uscire un certo tipo di carattere, anche nei visi che voglio creare. Ho trovato una simbiosi con il pennarello perché è una tecnica molto veloce.
Mi piacciono molto anche le tecniche pittoriche, ma non ho mai sperimentato con l’olio perché è una tecnica molto lenta e devi avere uno spazio ben arieggiato se no ti intossichi.
L’acquerello mi piace tanto, ma devi aspettare che si asciughi in un certo modo. Il pennarello si sposa bene con la mia impazienza.
Sto facendo questi esercizi quotidiani perché vorrei fare dei fumetti a pennarello. Almeno uno. È una sorta di travaglio ma mi sta dando delle soddisfazioni, per quanto io soffra della sindrome dell’impostore, penso come la maggior parte degli artisti.

Penso della maggior parte dei liberi professionisti in generale!
Non penso sia una cosa che passi del tutto: più acquisisci consapevolezza di quello che puoi dare più sei insoddisfatto più magari migliori. Rischi però di allontanarti dai tuoi obiettivi. Sembra davvero la tartaruga con Achille.

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La prospettiva mia

Sì perché poi non hai mai un risultato matematico. Sono reazioni esterne a te, potenzialmente è tutto infinito e la finitezza te la devi dare tu.
Esatto, è una sfida contro se stessi. Anche se le altre persone ti dicono che hai fatto qualcosa che va bene, se tu non ti senti soddisfatta è una diatriba continua.

Dicevi del digitale: gli sfondi come li gestisci? Nelle tue illustrazioni sembra che i personaggi siano protagonisti e gli sfondi vengano poi nonostante le tante ombre o l’intrigare della luce che filtra dalle tapparelle.
Non c’è stato un ordine per tutti i racconti, in qualche caso sono nati prima i racconti e poi l’immagine, in altri sono partita disegnando e mi sono chiesta cosa mi comunicassero quelle persone e cosa volevo raccontare.
Nel mio immaginario la luce crea una sorta di intimità, è molto importante e dà un senso di calore in più, Anche quando ce n’è poca o in sua assenza. La percepisci.
A seconda del disegno mettevo più o meno luce: il disegno delle due anziane, in Ginevra, ha molta luce perché è luce diurna e mi piaceva il gioco di colori, mentre nelle storie un po’ più irrisolte c’è assenza di luce.
Ci tenevo tanto a fare anche delle storie con delle persone anziane perché il sesso e l’amore dopo una certa età vengono sottovalutati, come se non ci si potesse più riscoprire innamorati, mentre per me non ci sono mai un inizio e una fine per provare e scoprire certe cose. Che sia qualcosa di fisico o che parte da dentro.
Ne La prospettiva mia e La prospettiva sua ci sono una ragazza e un ragazzo che cercano cose diverse e sono inquieti per motivi diversi, li ho fatti totalmente al buio.

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La prospettiva sua

Leggendo il libro sembra ci sia ancora molto da scardinare.
Di primo acchito l’ho percepito come davvero forte ed esplicito, poi però sono emerse molta dolcezza e comprensione, come se tutto potesse funzionare tramite il rispetto e l’accordo con le persone con cui si è e la libertà di essere se stessi.
Mi fa piacere che tu abbia avuto questa percezione.
In modo forse un po’ arrogante, idealizzando, ho immaginato che tramite questo libro qualcuno di omofobo potesse cambiare idea, anche se so che è un’idea che viaggia veramente oltre.
Mi piaceva creare intimità senza accennare a orientamento sessuale o identità di genere. Ho immaginato delle storie fra persone che stanno fra di loro, si conoscono, si capiscono. Nella quotidianità sei arrivato al punto in cui ti trovi con una persona per un motivo, è difficile che metti in chiaro cosa ti piace, già sei andato oltre. Volevo rendere tutto più naturale possibile.
Mi sono poi divertita a scrivere storie più leggere, e alcune che lasciano più l’amaro in bocca. Fa parte tutto di un approccio alla vita in generale.
Quante volte capita di incontrare persone che non faranno parte della tua vita, ma quell’incontro, anche se non è stato il migliore degli incontri, ti ha fatto scattare qualcosa dentro.
Tutte le persone che conosciamo, anche quelle che non hanno un valore positivo, per assurdo, ci lasciano qualcosa, e volevo che questo libro fosse una raccolta di esperienze e vissuti diversi, tutti però con lo stesso valore.
Per raffigurare alcuni corpi e scene di intimità e non ferire la sensibilità di qualcuno ho chiesto a qualche amicə: ognuno vede in maniera soggettiva e non volevo andare a creare una sorta di fetish per alcune persone. Ho chiesto, ad esempio, se ci stava che una persona transgender vivesse il sesso orale in modo tranquillo con i propri genitali. Come per tuttə, al di là della transizione o meno, ognuno apprezza sessualmente delle cose piuttosto che altre e volevo essere il più delicata possibile nel far vedere anche aspetti della vita sessuale. Non sopporto la retorica del chiedere in modo morboso quando si tratta di persone transgender: un conto è se una persona di apre con te e ti parla della propria esperienza, un conto andare a chiedere con una violenza intrinseca se una persona ha intrapreso un percorso medicalizzato o se ha intenzione di operarsi e altre squallide domande intime sulla loro sfera privata.

È la stessa violenza che potrebbe percepire qualsiasi altra persona nel sentirsi chiedere particolari intimi fuori contesto.
Sì, però sembra che alcune persone debbano avere una corazza. 
Credo di avere una bolla di ingenuità cucita addosso in alcuni casi, e quando scopro che alcune persone non rispettano le altre con la stessa sensibilità che ho io mi spiace e ci sto male, perché penso non sia giusto.
Ho fatto un’illustrazione qualche settimana fa dove c’è un ragazzo cis abbracciato a una ragazza trans. Ho dovuto disattivare i commenti perché ce n’erano molti transfobici – non solo italiani – e non ce la facevo a cancellarli tutti.
Ho pensato che non fosse giusto che una ragazza si trovasse a leggere queste cattiverie inaudite. Ci sono persone che quando si sentono attaccate buttano melma sugli altri e per me è una cosa terrificante. Mi sembra veramente surreale che la gente debba commentare il corpo e le scelte degli altri. Che poi scelte fino a un certo punto: una persona transgender non è che decide di svegliarsi e dire «Non mi riconosco nel genere assegnatomi alla nascita».

Potrebbe ricordare il padre in American beauty. Se sei morboso vedi tutto morboso, e il web purtroppo dà molto adito a queste dinamiche.
Sì, e fino a quando scrivono qualcosa a me, ad esempio commenti grassofobici, mi interessa fino a un certo punto: ho più di 30 anni e mi sono fatta il mio vissuto. Ma non tutti hanno le spalle larghe, ed evito di incentivare l’odio e lasciare scritte delle bestialità.
Sono contro la censura, finché sono contro di me ok, ma se si tratta delle altre persone no.

Questa tua attenzione verso la tua community è molto bella.
Sono del cancro, ho questo senso di “mamma chioccia”.
Purtroppo non tutte le persone riescono a empatizzare con le altre, che non è aver vissuto le stesse cose, ma avere quel briciolo di sprint in più e capire che una persona ha un’esperienza completamente diversa dalla propria e mettersi in disparte e in ascolto.

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12 luglio 1942

A volte potrebbe essere anche imbarazzo che sovrasta. Le persone vorrebbero capire ma non capiscono, e cercano di trovare nella loro esperienza qualcosa di simile. Oggi stiamo mettendo tutto in discussione per l’accettazione, ed è molto bello, veniamo però da una cultura un po’ diversa, in cui solo avere esperienze simili permetteva di capire gli altri. Ascoltare riconoscendo di avere un’esperienza diversa e poterci comunque essere per le altre persone è una conquista.
Quando penso a persone che hanno l’età dei miei genitori, penso che non ci sia stata una vera cultura sull’alimentazione, specialmente se si hanno figli magri.
Il dubbio viene quando un figlio ingrassa.
Che poi magari fosse solo un fattore estetico. Quando c’è un disturbo alimentare si tratta di molti fattori profondi e radicati, davvero ostili.
Persone che sono nate qualche anno prima di me sono cresciute in una società in cui in maniera davvero tossica si associava la bellezza alla qualità, e penso ne siano rimaste succubi in qualche maniera. Amici molto più grandi di me hanno quel modo di vedere le persone che hanno un bell’aspetto – in estrema sintesi – come persone che veramente ce l’hanno fatta: è veramente triste.

Mi sembra calzante in tanti casi, forse specialmente quando si viene da luoghi piccoli in cui sia al sud sia al nord – mi pare di capire ci siano dinamiche molto simili. È qualcosa con cui fare i conti fin da piccoli.
È triste però, perché si diventa vittime del proprio sistema: non solo si è giudici degli altri, ma ci si fanno problemi anche sulla propria estetica. Si è cattivi con se stessi. E la non accettazione non ti fa essere lucido. Se non avessi trovato una sorta di pace interiore con il fatto di essere grassa non avrei potuto perdere peso, il che mi fa sentire meglio per una questione di salute. Così ho cominciato a lavorare su me stessa da tanti punti di vista, da quello psicologico oltre che nutrizionale, e ho trovato una professionista brava. Molte volte trovi professionisti grassofobici, il che è una barzelletta.
La bellezza è così versatile che non la si può definire in un canone, inventato tra l’altro.
Si rischia di vedere il bello solo in alcuni tratti somatici, mentre io trovo bellissime persone molto diverse fra loro, sia caratterialmente che fisicamente.
In alcuni casi c’è una sorta di senso di rivalsa: non avendo quel tipo di gratificazione sei spinta a fare di più, perché è meno facile su molte cose.

Per quanto riguarda ciò che arriva di sé la frustrazione e l’insoddisfazione fanno molto peggio di tanto altro.
Esatto, le cose importanti per me sono altre.
Sono sempre stata lontana da quel modo cattivo e rancoroso di porsi e di sentirsi sempre in rivalità con il mondo, per quanto possa essere permalosa, pigra, o lunatica.
Da ragazzina mi chiedevo cosa si potesse provare a essere magra, ma non ho mai avuto quel senso di invidia o di voler essere “lei”.
Questo è un approccio mio. Anche dal punto di vista lavorativo non ho mai pensato di “voler essere brava come”: ammiro le persone ma non vorrei essere loro.
Per quanto l’invidia sia molto umana e non si deve reprimere, in qualche modo si deve sfogare.

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Specchio

Tornando su Instagram, hai 13.000 follower: com’è avere a che fare con la community al di là dei commenti da cancellare?
Ho aperto Instagram qualche anno fa e attorno al 2019 ho cominciato ad essere più attiva.
Non c’è una logica con cui lo uso, potrei essere più ordinata. Per me è come se fosse una sorta di diario e probabilmente l’essere spontanea fa sì che il mio pubblico mi segua perché piaccio così, compreso il non avere disegni uguali fra loro dal punto di vista stilistico.
Certo racconto quel che voglio raccontare. Sono comunque persone che non conosco e in generale sono piuttosto introversa.
Mi piace avere un rapporto di condivisione, come se parlassi a degli amici che incontri ogni tanto. Mi capita ad esempio di parlare della dieta o delle ricette vegetali, dato che da qualche anno sono vegetariana.
Non ho un approccio strategico e penso si capisca anche da come lo tratto. Quello di disattivare i commenti è stato un caso sporadico, e l’ho fatto proprio perché attaccavano persone che non ero io.
Un anno e mezzo fa circa avevo fatto un fumetto breve e molto veloce sulla questione dei preservativi.
C’è ancora questo stigma sociale su “la ragazza che ha i preservativi” e c’è la tendenza di alcuni ragazzi a non volerlo usare.
Ci tenevo a parlare di questo argomento anche per una questione di informazione: nello stereotipo sono gli omosessuali che devono usare i preservativi e gli etero no, e c’è stato un incremento assurdo delle malattie sessualmente trasmissibili fra molti adolescenti eterosessuali. Viviamo in un paese che dovrebbe incentivare e dovrebbero essere gratuiti così come gli assorbenti – ma questo è un altro discorso.
Da un punto di vista sociale oltretutto la ragazza che ha i preservativi non è responsabile ma facile. Il femidom (preservativo femminile) esiste, ma è molto meno diffuso e con un costo più elevato.
Avevo fatto questa vignetta e anche lì fra Facebook e Instagram erano arrivati molti commenti indignati, come “io mi farei qualche domanda”, in quel caso li ho lasciati viaggiare.

Il tuo nome d’arte da dove viene?
Ho scelto Wally perché sono amante dell’opera lirica (La Wally è un’opera lirica di Alfredo Catalani, musicata su libretto di Luigi Illica, da Wikipedia, ndr) e Pain perché mi piaceva un personaggio di Naruto.
Ancora prima di fare la scuola di Comics volevo fare un webcomics in cui la protagonista si chiamava Wally Pain, ed era la figlia di un alchimista. Poi non l’ho mai fatto, ma il nome mi piaceva, e mi è rimasto addosso.
È un connubio fra il classico e il moderno e mi piace molto questo incontro molto umano fra culture. Anche per quanto riguarda il cinema ad esempio, lo amo molto, ma al di là dei film di autore uno dei miei film del cuore è Mean Girls, molto adolescenziale, del 2004. Mi piace andare oltre l’idea di dover sempre leggere qualcosa di “alto” e oltremodo interessante.

Domanda di rito: progetti futuri?
Ho tante idee in mente e sto cercando di arrivare al dunque. Sto procedendo non con super calma, ma sto comunque prendendo tempo per capire.
Non so se farò qualcosa di legato ancora all’erotismo perché non mi piace inserirmi in un solo contenitore: mi piacerebbe scrivere e disegnare storie. Sicuramente sarà fumetto.

Per finire: c’è qualcosa su Corpi che non hai ancora detto e che ci terresti molto a dire?
Mi piace parlarne il giusto perché vorrei ci fosse la magia dell’andare a leggerlo.
La cosa che mi è piaciuta di più, a parte il lavorarci, è che non sia numerato e che non ci sia un ordine di lettura da seguire: si può leggere ciò che incuriosisce.
Mi piace il fatto che non tutte le illustrazioni portino al racconto che prevedi di leggere – ad esempio nel caso di Viola non si parla del fatto che lui sia in carrozzina, ma del suo rapporto con la psiche di lei. Mi piace la sensazione di poter portare il lettore oltre le sue aspettative.
Quando fai uscire un libro in qualche modo non ti appartiene più, lo stai dando al mondo e diventa di ogni lettore, che costruisce un suo rapporto intimo con ciò che legge.

Intervista telefonica svolta a maggio 2023

Wally Pain

Luana Belsito, in arte Wally Pain, nasce a Cosenza nel 1992.
Appassionata da sempre i disegno e fumetto, dopo il diploma classico si trasferisce a Firenze, dove frequenta l’Accademia di Belle Arti con indirizzo in grafica d’arte.
Nel 2015 si iscrive alla Scuola Internazionale di Comics di Roma, si diploma nel 2018.
È molto attiva su Instagram (@wallypain), su cui racconta se stessa e la propria visione del mondo.

 

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