Andrea Ferraris (classe 1966) inizia come disegnatore nel 1993 su Topolino per poi trasferirsi nel 2006 in Spagna per collaborare con il gruppo danese Egmont, licenziatario delle storie a fumetti Disney per il Nord Europa.
Tornato in Italia, nel 2012 disegna Bottecchia, un fumetto scritto da Giacomo Revelli ed edito da Tunuè, sulla vita del ciclista degli anni ’20 Ottavio Bottecchia. Nel 2013 si trasferisce a Parigi. Nel 2015 esce la sua prima graphic novel da autore unico, Churubusco (Coconino Press). Nel 2018 esce la sua nuova opera, La lingua del diavolo, edita da Oblomov Edizioni, ambientata in Sicilia e incentrata sulla comparsa di una nuova isola che rappresenterà la speraza di una rivalsa per i suoi protagonisti.
Cosa ti ha spinto a scrivere una storia come La lingua del diavolo, ispirata al fatto storico dell’isola emersa e velocemente affondata nel 1831 nello stretto di Sicilia?
La storia dell’isola Ferdinandea mi ha subito ricordato la leggenda e il mito di Atlantide. Ritagliai un articolo che ne parlava da una rivista e la misi in un cassetto in attesa di tempi migliori. Quando la ripresi mi accorsi che c’erano moltissimi spunti intorno a quel fatto, personaggi, navi, nazioni, situazioni formidabili.
Quali sono le affinità e quali le differenze tra Rizzo (protagonista di Churubusco) e Salvatore (protagonista de La lingua del diavolo)?
Tutti e due sono mossi dalla speranza di poter cambiare la propria condizione sociale. Una vita, fino a quel momento, fatta di durezza e difficoltà. Rizzo trova quasi senza volere una famiglia nei messicani e irlandesi che lo accolgono a
Churubusco. Arrivato negli Stati Uniti in cerca di una speranza trova nel villaggio dei messicani il suo futuro e decide di restare con loro pur sapendo che durerà poco. Salvatore è mosso da un ossessione. Crede di poter cambiare la sua vita possedendo l’isola. Il finale per lui sarà tragicomico.
Quanto è importante il tema della rivalsa sociale in La lingua del diavolo?
E’ fondamentale. Per quanto assurdo sia l’atteggiamento di Salvatore nel cercare di diventare padrone dell’isola il suo tentativo è giustificato dalla disperazione. Salvatore sente il terreno franargli sotto i piedi. Tutte le sue azioni sono mirate per uscire dalla sua condizione sociale. Arriverà a un gesto estremo, rinnegando le convinzioni della sua famiglia, che gli costerà anche la stima del fratello.
Il segno a matita domina incontrastato le tavole della graphic novel: come questo stile di disegno aiuta nel raccontare una storia del genere?
Ho trovato questo stile, dopo diverse prove, ai tempi di Churubusco. Grazie a lui mi si sono chiariti anche i temi che voglio affrontare. E’ stato una chiave per arrivare ad una mia voce. La grafite mi permette di rendere gli ambienti che racconto facendo sentire la polvere, la terra
Hai sperimentato nuove tecniche o nuovi strumenti di disegno per La lingua del diavolo, rispetto alle tue opere precedenti?
Rispetto a Churubusco ho aumentato la morbidezza della grafite. Sono passato già con La Cicatrice, da una 4b ad una 6b. Il tipo di carta, ruvida, è la stessa dei tre libri
Per lavorare su La cicatrice hai visitato gli stessi luoghi raccontati dal fumetto: che esperienza è stata?
Un esperienza nuova, tanto che, spaventato, ho chiesto aiuto a Renato Chiocca, di cui avevo visto un documentario sulla Tunisia e il suo lavoro su Lorenzo Mattotti. Con lui abbiamo cominciato a lavorare con idee e spunti già prima di partire. Poi abbiamo messo tutto alla prova del campo che, naturalmente, ci ha dato un enormità di materiale su cui lavorare. Un esperienza fortissima.
Pensi che il lavoro del fumettista possa offrire uno sguardo di testimonianza diverso da quello di altri narratori, che usano altri mezzi per raccontare il presente?
Non saprei. Continuo a credere nel fumetto come mezzo per poter raccontare ogni aspetto della vita. Un mezzo economico e, come mi è accaduto ne La Cicatrice, anche agile, veloce. Come sempre la qualità di quello che si racconta fa la differenza. Un buon fumetto vale quanto un buon romanzo o un buon film.
Per Disney continui il tuo lavoro con la casa editrice europea Egmont: cosa ti manca del lavorare con quei personaggi nella “catena produttiva” italiana?
Dello “stile italiano” alle volte mi manca la modernità in cui graficamente vengono trattati i personaggi e gli oggetti. Ma lo stile alla “Barks” ha altre piacevolezze. Per esempio la gabbia a 4 striscie permette inquadrature particolari. In ogni caso con Egmont alle volte mi viene chiesto di lavorare all’italiana così che la nostalgia si allontana.
Intervista rilasciata via mail a Ottobre 2018.